Il 24 febbraio 2024 si spegneva a Calcutta Kumar Shahani, una delle luci più intense del cinema indiano. Tra i protagonisti dell’ispirazione “parallela” (al mainstream), definita Nuovo Cinema e sviluppatasi alla fine degli anni ‘60, Kumar Shahani ne è stato una figura a sé stante, la più innovativa, la più colta e la più sofisticata. Era nato a Larkana (oggi in Pakistan) nel 1940, ma a sette anni si era trasferito con la famiglia a Bombay (India) dopo la sanguinosa Partizione tra i due nuovi stati, divenuti indipendenti nel 1947. Dopo la laurea in scienze politiche e storia all’Università di Bombay, si era iscritto ai corsi di sceneggiatura e regia al Film and Television Institute di Pune, la città dove aveva incontrato due delle figure che avrebbero avuto su di lui l’influenza più formativa: il grande storico marxista D.D. Kosambi e il leggendario regista cinematografico e teatrale Ritwik Ghatak.
Dopo essersi diplomato nel 1966, Kumar Shahani aveva ottenuto una borsa di studio per l’Institut des Hautes Études Cinématographiques di Parigi (1967-68), dove aveva incontrato la terza figura importante della sua formazione, Robert Bresson, di cui fu assistente per Une femme douce. Rientrato in India, nel 1972 aveva realizzato il suo primo lungometraggio, Maya darpan (Lo specchio dell’illusione/Mirror of Illusion). “Kumar Shahani è il mio miglior studente – aveva detto di lui Ritwik Ghatak – quando arriveranno i suoi film sarà qualcosa di sbalorditivo”.
E non si sbagliava: Maya darpan – premio nazionale per la fotografia e per il miglior film in hindi, premio Filmfare della critica, menzione speciale al festival di Locarno e oggi pietra miliare del cinema indiano – accanto a un consenso elitario, aveva suscitato reazioni controverse, quando non ostili, per l’orchestrazione inusuale del tempo e dello spazio, per la stilizzazione e astrazione del suo linguaggio estetico. Ottenuta in seguito una Homi Bhabha Fellowship (1976-78) per studiare la tradizione epica del Mahabharata, insieme all’iconografia buddhista, alla musica classica indiana e al movimento devozionale medievale, dopo dodici anni K. Shahani riesce a realizzare il suo secondo film, Tarang (L’onda/Wages and Profits, 1984). Qui prende forma la sua formulazione di cinema epico, che trova piena compiutezza in Khayal gatha (La saga del khayal/The Khayal Saga, 1989), incentrato sulla complessa evoluzione del khayal, una delle grandi forme della musica classica indiana. Il film vince il premio FIPRESCI al Rotterdam International Film Festival e, in India, il premio Filmfare della critica come miglior film. Seguono Kasba (1990), notevole adattamento di una novella di Cechov (In fondo al burrone/V ovrage, 1900), e Char adhyay (Quattro capitoli/Four Chapters, 1997), tratto dal controverso romanzo omonimo di Tagore del 1934.
Kumar Shahani ha realizzato anche alcuni documentari, termine inadeguato per opere che, come tutte le sue, richiedono un’attenzione straordinaria e un approccio interdisciplinare. Tra questi spicca il gioiello che presentiamo in questa sede, Bhavantarana (Immanence, 1991), dedicato all’odissi, una delle forme classiche di danza, esplorata attraverso la figura di uno dei suoi più grandi interpreti, Guru Kelucharan Mohapatra (1926-2004). Ancora legato a questa danza è l’ultimo film di K. Shahani, che il regista non è riuscito a vedere in versione definitiva: Priye charushile (Oh amata! oh virtuosa/O beloved! o virtuous one [dal canto 19 del decimo capitolo del Gitagovinda di Jayadeva, sec. XII]), interrotto nel 2009 per mancanza di fondi, ripreso nel 2013 e completato intorno al 2019, ma non ancora distribuito. La protagonista è italiana, Ileana Citaristi, laureata a Ca’ Foscari e residente dal 1979 a Bhubaneswar (Odisha), affermata danzatrice di odissi e allieva di Guru Kelucharan Mohapatra.
Oltre a queste opere, che hanno illuminato la storia del cinema indiano, Kumar Shahani è anche autore di importanti saggi, molti raccolti in The Shock of Desire and Other Essays, 2015, in cui scrive non solo di cinema, ma anche di politica, estetica, censura e libertà artistica. Il volume è curato e introdotto dal noto studioso di cinema Ashish Rajadhyaksha.
Fin qui la persona “pubblica” di Kumar Shahani. Poi c’è il “nostro” Kumar, quello che nel 2014 era stato membro della giuria nel concorso internazionale dello Short, che non conoscevamo di persona e che aspettavamo con un certo timore, data l’aura che lo circondava. Poi è arrivato: un uomo di statura modesta, non appariscente, con qualche difficoltà deambulatoria, conseguenza di una poliomielite infantile, con bei capelli bianchi, sorridente e gentile, di una gentilezza profonda, radicata nell’animo ancor prima che nei modi. E discreto, quasi dimesso, e tuttavia lucidissimo e consapevole di sé. Accanto a lui, chi era portato – per motivi personali – ad alzare i toni o a lasciar trapelare un’irritazione si sentiva spinto a rasserenarsi e a sorridere. Lo abbiamo chiamato “effetto-Kumar”. Lo abbiamo amato subito e ne sentiamo ancora dolorosamente l’assenza. E lui ha amato lo Short, perché: “Mi ha dato la voglia di vivere”.
Regia: Kumar Shahani
Fotografia: Alok Upadhyay
Montaggio: Paresh Kamdar
Musica: Hariprasad Chaurasia, Guru Kelucharan Mohapatra, Bhubaneshwar Misra
Produttore esecutivo: Roshan Shahani
Produzione: Xpd Division, Ministry of External Affairs, Government of India
La danza classica odissi e uno dei suoi maggiori interpreti, Guru Kelucharan Mohapatra, ispirano quest’opera in cui si intrecciano le diverse sorgenti filosofiche, epiche ed estetiche dell’eredità culturale indiana. Considerato uno dei più grandi film sulla danza, nel 1991 ha ottenuto in India il premio nazionale per il miglior film biografico e il Filmfare della critica, mentre nel 1992 si è aggiudicato il premio per il miglior documentario al Mannheim Film Festival.