Happyend
di Neo Sora
Happyend è un film di Neo Sora, regista giapponese, ambientato in una Tokyo del futuro molto prossimo, in cui un gruppo di amici all’ultimo anno del liceo si affacciano alle sfide che il presente e l’imminente futuro gli sta ponendo davanti. Come ogni buon film distopico che si rispetti, c’è un disastro ambientale che incombe e che influisce sulle vite dei protagonisti, che si rendono conto e abbracciano delle responsabilità che vengono loro richieste, anche se comunque non manca la ricerca della spensieratezza.
Si tratta di un coming of age molto delicato che, nonostante sia abbastanza lungo e con un ritmo cinematografico molto giapponese, riesce comunque a coinvolgere, facendoci empatizzare con i protagonisti. Il motivo è forse legato proprio alla caratterizzazione di questi: anche se non mancano le stereotipizzazioni (abbiamo quello che non sa cosa fare della vita dopo la scuola, quello che va al college e vuole emanciparsi, quelli che si innamorano, il visionario che vorrebbe vivere di musica), il film esprime bene l’inspiegabile legame che si crea in gruppi di questo tipo, dando una buona idea di come ci si sente in quegli anni, lasciando trasparire l’agrodolce del diventare grandi.
(Ilaria)
Familiar Touch
di Sarah Friendland
Familiar Touch di Sarah Friendland è uno dei film che più mi ha emozionata quest’anno, e che ricordo con più affetto. La storia segue la figura di Ruth, una donna anziana che soffre di Alzheimer e che deve ambientarsi in una casa di riposo senza perdere le tracce della propria identità. Brillante e dolce, Ruth tenta di ritagliarsi una propria libertà interiore, in una quotidianità dove i ricordi affiorano improvvisi sospinti da sensazioni, profumi, emozioni. La sceneggiatura e la regia sono impeccabili, e l’ottima performance dell’attrice protagonista Kathleen Ann Chalfant e del cast intero regala ai personaggi sfaccettature reali e sincere.
Il film tocca sicuramente da vicino chiunque abbia vissuto un’esperienza simile a quella di Ruth, magari a contatto con una persona cara affetta da Alzheimer, ma la pellicola riesce ad abbracciare l’intero pubblico: la sua delicatezza e tangibilità regalano una visione malinconica e speranzosa, che riempie il cuore.
(Virginia)
Il Corpo
di Vincenzo Alfieri
Un thriller un po’ giallo e un po’ horror è l’ultimo prodotto di Vincenzo Alfieri. Per tutta la durata del film si ha la percezione che il confine tra buono o cattivo, colpevole o innocente sia una linea sottile e che i protagonisti lo usino come una corda per saltare, nessuno escluso. Le inquadrature dal basso, la fotografia tetra e l’ambientazione claustrofobica sostengono la suspense che, in crescendo dall'inizio, si distende appena prima del colpo di scena finale. Il vero punto di forza della pellicola è però il cast, che interpreta personaggi al limite dell'archetipo in maniera magistrale, con forse una delle migliori interpretazioni di Battiston. Alfieri ci regala del buon cinema di genere con tutti i crismi del caso (pioggia battente, blackout, flashback, tradimenti, feste, lusso, intrighi), ben strutturato e rivisitato abbastanza da farci quasi dimenticare che si tratta di un remake di una pellicola spagnola di una decina di anni fa.
(Sofia)
The Wild Robot
di Chris Sanders
The Wild Robot di Chris Sanders è un film d’animazione che racconta di Roz, una robot tuttofare che in seguito ad un naufragio resta bloccata in un’isola abitata solo da animali. Per la sua sopravvivenza, ma soprattutto per la sua attitudine al dover risolvere i problemi altrui, lega con gli altri animali e si ritrova accidentalmente a crescere un piccolo di oca rimasto orfano. Il film è l’adattamento dell’omonimo romanzo illustrato da Peter Brown, ed è in effetti animato con un look che richiama molto le favole per bambini, ma che si rifà anche allo stile alla Spiderverse, moda del momento.
Pur essendo un film prevalentemente indirizzato ai bambini, riesce a essere in alcuni momenti anche molto crudo (vediamo alcuni degli animali essere feriti o morire davanti ai nostri occhi), e allo stesso tempo estremamente toccante. Tratta con delicatezza il tema della maternità acquisita e delle famiglie allargate, in un modo certamente non innovativo ma estremamente intelligente e responsabile, considerato il suo target di riferimento.Il film è animato bene e scritto ancora meglio. La pellicola fa sorridere e in alcuni momenti fa proprio ridere. I personaggi, tutti ovviamente un po’ macchiette, sono comunque ben caratterizzati e rotondi, pur nella loro semplicità.
La trama è densa di azione ma sempre coesa nelle sue molteplici variazioni e cambi di registro e, soprattutto, fa scendere più di qualche lacrimuccia, anche se mai in maniera gratuita.
(Sara)
Wicked
di John M. Chu
Adattare un musical per il grande schermo è notoriamente un’impresa che ha spesso risultati disastrosi, più volte a causa dell’ostinazione hollywoodiana di dare un maggior senso di realismo ad un genere che del realismo se ne fa veramente ben poco. Wicked, adattamento del primo atto del musical cult del 2003 del medesimo nome, si libra in volo dove altre pellicole si trascinano a fatica.
Avevo molti timori riguardo il cast e la decisione di dividere l’adattamento del musical originale in due film di due ore e quaranta minuti a testa, ma sono felicissima di ammettere che si sono rivelati infondati: le interpretazioni del cast originale, sia recitative che canore, sono stellari; e nonostante gli eventi siano stati diluiti, la narrazione incalzante non mi ha fatto annoiare un secondo. Sorprende molto Ariana Grande nel ruolo di Galinda, che riesce a rubare ogni scena in cui è presente grazie a una performance irriverente e che si prende molto poco sul serio, ma che offre comunque sottili sfumature emotive che andrebbero perse guardando lo spettacolo a teatro.
Particolare nota di merito va ai set reali, che rendono Oz “concreta” pur contribuendo all’atmosfera sognante e fantastica dell’ambientazione; peccato però per la luce intensa che inonda alcune scene.
(Giulia)
Broken Rage
di Takeshi Kitano
Broken Rage di Takeshi Kitano è il vincitore morale di Venezia 81: un film brevissimo – appena 62 minuti – in cui l’attore e regista giapponese mette in mostra tutto il suo Mestiere, prendendo e prendendosi in giro.
Broken Rage è un film action diviso in due parti, ma con una stessa identica storia: la storia di un vecchio sicario è raccontata in due modi diversi, prima come un crudo film d’azione (uno yakuza film come quelli a cui Kitano ci ha abituati, da Vionet Cop fino alla serie di Outrage) e poi come una parodia di sé stesso, una commedia slapstick infarcita di gag situazionali, doppi sensi e battutacce. Beat Takeshi prende in mano le due fasi della sua carriera, quella di comico e quella di attore action, per riproporle assieme in un film godibilissimo, pieno di violenza estetizzata ma anche ai limiti del nonsense. Il regista ha quasi ottant’anni e il suo è un umorismo da boomer al 100%, ma l’autoironia con cui condisce il tutto è irresistibile.
Il tocco di classe: in un film di poco più di un’ora, Kitano riesce a trovare il tempo di farsi beffe dell’industria e dei festival, inserendo scene filler presentate esplicitamente come tali, commentate sullo schermo da un pubblico fittizio, in una mise en abyme meta-cinematografica tanto imbecille quanto geniale.
(Nicolò)
Casa Gospel
di Mara Sattei e Thasup
Casa Gospel è l’ultimo album collaborativo di Thasup e della sorella Mara Sattei. È composto da otto tracce e nasce dall’esigenza dei due di raccontare la loro passione per la musica che li ha accomunati fin dall’infanzia. Nelle otto canzoni il trapper e la cantautrice ripercorrono quindi le loro origini, partendo proprio dalla casa in cui sono cresciuti e scegliendo di ibridare le loro solite sonorità con il gospel, genere prediletto dalla madre. L’album è una commistione un po’ azzardata tra cantautorato, trap, gospel, pop, canzoni Disney e canzoni di chiesa. Il risultato è sicuramente catchy e interessante, le tracce sono ben calibrate l’una con l’altra in modo che non ci sia mai troppo ‘solo gospel’ o ‘solo trap’.
Thasup come producer si riconferma sempre una garanzia, con basi decisamente inusuali e che non si sentono spesso nel panorama italiano. Per Mara Sattei, la collab con il fratello si rivela valorizzante: lui è un ottimo producer, lei ha una bellissima voce e quando si uniscono lei tira fuori sempre il meglio. Un po’ i Billie Eilish e Finneas de nialtri. Unica nota a margine: data la stravaganza del progetto, è sicuramente un album che necessita di svariati ascolti prima di essere apprezzato a pieno.
(Sara)
Imaginal Disk
di Magdalena Bay
Il dinamico duo di Los Angeles torna dopo tre anni con un concept album fantascientifico in cui la protagonista, True, deve reimparare ad essere umana in seguito ad un upgrade fallito del suo cervello (error 404: disk not found). La voce angelica di Mika Tenenbaum ci catapulta così in un universo parallelo e ipertecnologico, fatto di synth caleidoscopici, pad eterei e batterie mai troppo invadenti. Le produzioni stratificate e in qualche punto perfino barocche danno vita ad atmosfere sognanti e oniriche, spaziando così tra il synth pop e il dance pop, con qualche tocco vapour ed electronic rock qua e là. Le tracce scorrono una dentro l'altra in un viaggione attraverso una dimensione psichedelica in cui non capiamo più niente, ma è tutto bellissimo. That’s My Floor, Vampire In The Corner e Angel on a Satellite se la giocano ad armi pari per accaparrarsi il titolo di miglior pezzo.
(Sofia)
Something In The Room She Moves
di Julia Holter
Due figure umane tratteggiate ad acquarello, non definite nei dettagli, si avvinghiano su uno sfondo nero come se stessero lottando o danzando, o una stesse provando ad alzare l’altra di peso. È la copertina di Something In The Room She Moves, il sesto album di Julia Holter, uscito il 22 marzo 2024 per la Domino Records: un album sognante che mischia il cantautorato, il jazz e il pop in un cocktail sognante e vagamente psichedelico.
La tracklist si apre con la nenia di Sun Girl, quasi una ninna nanna ambient dove la voce di Holter intraprende una danza assieme a un flauto, un basso e alcune percussioni giocattolo su un persistente tappeto di tastiere e riverberi – un tratto ricorrente dell’album. È un brano che ci accompagna per mano dentro il disco, una dichiarazione d’intenti che ci porterà man mano ai pezzi forti del disco: la title track e Spinning.
Holter crea un mondo fatato in cui si muove con la leggerezza vocale di una novella Kate Bush, raccontandoci storie e sensazioni che si intrecciano in un arazzo di suoni ariosi, rumori ambientali, armonie avant-gard. Something In The Room She Moves è un disco pop nell’intenzione delle sue melodie ma i suoi brani non si fanno mai imbrigliare nella forma-canzone classica, e anzi sfociano spesso in code strumentali e jam sessions. Se cercate un singolo radiofonico, questo non è il disco che fa per voi, indubbiamente; ma se cercate un po’ di bellezza e la gioia di una ricerca musicale orecchiabile ma non banale, allora è un ascolto da fare.
(Nicolò)
Sants
di Clement Frossart
Credo che Clément Froissart sia un artista troppo poco conosciuto per essere così bravo. Francese, il suo repertorio non può che rifarsi alla musica elettronica di quel paese, ma che riesce a rendere molto melodica grazie alla sua voce profonda e avvolgente. Il suo ultimo ep SANTS, uscito a luglio, contiene tre pezzi che racchiudono la sua essenza di musicista che fa ricerca su molti generi; in questo caso abbracciando delle sonorità un po’ latine, che riesce a sposare bene con la tradizione del french touch dalla quale proviene. Il primo brano è cantato in spagnolo, e gli arpeggi di chitarra che accompagnano la sua voce, ci fanno entrare nel linguaggio musicale che SANTS vuole esprimere. Con il secondo pezzo Froissart ci porta a fare una passeggiata in centro a Barcellona, lanciando una base elettronica, ma con un ritmo reggaeton: mi piace pensare abbia voluto celebrare la convivenza di tradizione e internazionalità che la città esprime. L’ultimo pezzo invece ci sposta verso Valencia, città più racchiusa, in cui Froissart ci dedica una canzone d’amore, cantata in inglese, forse per essere la più universale possibile.
(Ilaria)
What Happened To The Heart?
di Aurora
La cantautrice norvegese Aurora rimane la conferma che, in mezzo alla musica fabbricata a stampino che invade il nostro quotidiano, ci sono giovani artisti e artiste capaci di trasmettere la propria visione del mondo in modo viscerale e sincero.
Ormai è tanto che conosco Aurora, e il suo ultimo album What Happened To The Heart? ha accompagnato il mio 2024.
Anche questo disco passa attraverso melodie sognanti, brani più pop e suoni ancestrali, ma sperimenta molto di più con voce e sonorità che creano contrasti interessanti: si passa dal synth-pop a suoni più intimi, da evocazioni tribali all’elettronica, con costruzioni inaspettate che rendono ogni brano unico.
La cantautrice torna sui temi a lei cari: l’amore declinato in ogni sua forma, l’empatia verso l’umano e la natura e il lento sgretolamento di questi sentimenti, perfettamente incarnato dal titolo dell’album. Un riflesso di sé, sincero e variegato, dove i testi sono intrisi di poesia e filosofia. Ogni canzone può essere associata ad un colore, un’emozione, e il risultato è uno splendido dipinto dell’animo umano.
Difficile scegliere, ma To Be Alright è il mio consiglio personale tra le tracce del disco, un brano che mi parla nel profondo, spronandomi, riempiendomi di gratitudine e commozione ogni volta che lo ascolto.
(Virginia)