Il Premio Nobel per la Fisica del 2018 è stato accolto con grande sorpresa dalla comunità scientifica mondiale almeno per tre ragioni.
La prima: tutti si aspettavano andasse agli scienziati che poco più di un anno fa avevano per la prima volta misurato le onde gravitazionali.
La seconda perhé tra i vincitori si registra il Premio Nobel più anziano (96 anni) e la terza donna a vincere il Nodel per la Fisica (dopo Maria Gopper Mayer nel 1953 e Marie Sklodowska Curie nel 1903).
La terza perché il premio non è stato diviso in parti uguali, come era avvenuto negli ultimi anni, ma è andato per metà all’americano Arthur Ashkin, per un quarto al francese Gerard Mourou e per l'altro quarto alla canadese Donna Strickland. L’Accademia Reale delle Scienze ha voluto unire sotto l’ombrello di “invenzioni rivoluzionarie nel campo della fisica dei laser” contributi diversi fra loro. Vediamo di cosa si tratta.
Pinzette ottiche (Ashkin)
Immaginiamo di avere un gas all’interno di un contenitore chiuso. Sappiamo che il gas esercita sul contenitore una pressione che è una quantità termodinamica misurabile macroscopicamente. Ma qual è la sua origine microscopica?
La risposta è nelle interazioni che le molecole di gas hanno con pareti del contenitore e che “rimbalzando” esercitano una forza e quindi una pressione sulle pareti stesse che dipende dalle interazioni reciproche tra le molecole stesse.
Ma cosa succedere se invece di molecole si tratta di un raggio laser? Già Maxwell aveva predetto che un’onda elettromagnetica esercita una pressione quando colpisce una superficie, ma l’effetto è così piccolo che si pensava non potesse avere nessuna utilità pratica.
Nel 1964 Tawnes, Basov e Prokhorov ricevettero il premio Nobel in Fisica per aver inventato il laser una decina di anni prima. La caratteristica di molti laser è quello di essere quasi monocromatici e di essere molto intensi, e quindi è intuitivo che possa esercitare una pressione superiore rispetto ad una normale onda elettromagnetica.
In effetti, già alla fine degli anni '60, Arthur Ashkin trovò il modo di muovere delle sfere colloidali (di dimensioni micrometriche, cioè pari ad un millesimo dello spessore di un capello) immerse in una soluzione acquosa e contenute all’interno di un contenitore di vetro.
La parte più interessante di questi esperimenti non era però questa, ma era legata al fatto che le sfere venivano dirette verso il centro laddove il raggio laser era più intenso a causa del fatto che anche la pressione esercitata variava con l’intensità della radiazione.
Ashkin capì che aveva trovato un modo per intrappolare degli oggetti molto piccoli con la luce di un laser e che questo poteva essere usato, per esempio, per prendere un pezzo di dna con due di queste trappole e stirarlo come se si usassero delle pinzette (da cui il nome di optical tweezers).
Questa scoperta ha avuto un impatto enorme nella comunità scientifica e oggi è uno dei più potenti strumenti a disposizione dei ricercatori per la manipolazione di oggetti biologici (virus, batteri, cellule ecc).
Amplificazione di impulsi ultracorti (Mourou e Strickland)
Per capire l’importanza del contributo di Mourou e Strickland, basti pensare alla chirurgia laser oculistica che è basata sull’amplificazione degli impulsi laser ultracorti.
Per “ultracorto” si intende qualunque impulso laser della durata di 100 femtosecondi (fs) o meno. Un femtosecondo corrisponde ad un miliardesimo di milionesimo di secondo, con il nome che deriva dalla parola “femton”, quindici, in lingua svedese.
I sistemi laser “a femtosecondi” sono prodotti commerciali con costi accessibili a moderni laboratori di ricerca, grazie appunto all’invenzione premiata con il premio Nobel per la fisica di quest’anno. La possibilità di avere accesso ad impulsi così corti permette di osservare e di capire il movimento degli atomi dentro ai materiali, che avviene su scale temporali così brevi. Una tale conoscenza è fondamentale se vogliamo creare una tecnologia che sia al tempo stesso veloce e a basso consumo.
I primi impulsi ultracorti erano stati generati già agli inizi degli anni '80, ma solo nel 1985 mentre la Strickland era studentessa di dottorato di Mourou all’Università di Rochester a New York, fu trovata la soluzione definitiva.
La condizione fisica fondamentale per generare un impulso ultracorto è che il materiale che viene usato nel laser sia in grado di generare luce a spettro molto largo, cioè composta di molti colori.
Per capirlo, possiamo usare un’analogia con un la cosiddetta “banda larga” dei collegamenti internet che usiamo tutti i giorni. In questo caso, la parola “banda” e’ l’analogo della parola “spettro” appena citata. Sappiamo che il motivo per cui vogliamo un internet a banda larga è per avere accesso ad un internet più veloce.
Come funziona, in pratica, una comunicazione a banda larga? I segnali che vengono trasmessi - che nelle fibre ottiche sono proprio impulsi di luce - possono essere creati tanto più corti quanto più larga è la banda. Se pensiamo che ogni impulso è un bit di informazione, più impulsi significa più dati entro lo stesso intervallo di tempo. In buona sostanza, per avere impulsi di luce corti, è necessario uno spettro o una banda larghi. In pratica, il materiale con uno spettro largo, adatto a generare tali impulsi corti è lo zaffiro (che è ossido di alluminio in forma cristallina), in cui vengono inseriti in maniera artificiale atomi di titanio.
Quale era il problema nel creare impulsi ultracorti? La potenza di qualunque sorgente si calcola come l’energia generata, che si misura in Joules, entro una certa unità di tempo, che si misura in secondi. Un Joule diviso per 1 secondo è quello che chiamiamo 1 Watt di potenza. È allora chiaro che se al denominatore abbiamo qualcosa di molto piccolo (qualche femtosecondo), la potenza diventa molto grande.
Per dare un’idea: un impulso laser di 1 milli-Joule, realistico per laser commerciali esistenti, della durata di 100 fs, ha una potenza di picco di 10 miliardi di Watt o GigaWatt. Per avere un confronto: una grossa centrale nucleare produce un GigaWatt di potenza. Ovviamente la centrale nucleare produce tale potenza in continuo (grande quantità di energia prodotta), mentre il laser è accesso per un istante brevissimo (piccola quantità di energia prodotta), ma gli atomi che compongono il cristallo di zaffiro “sentono” per un istante breve tutta la potenza di una centrale nucleare scaricato su di loro.
Essendo gli atomi molto leggeri e in grado di reagire velocemente, l’effetto totale è che lo zaffiro si brucia e vaporizza. Infatti, le potenze dei laser a femtosecondi erano molto basse e praticamente inutili per qualsiasi applicazione, prima dell’invenzione dei due premi Nobel di quest’anno.
L’idea geniale di Mourou e Strickland è stata la seguente: se la luce di un impulso ultracorto è composta di tanti colori (lo spettro ampio di cui parlavamo prima), perché non usare un prisma per separare i colori? Facendo in questo modo, la luce di colore rosso si verrà a trovare in un punto dello spazio lontano dalla luce di colore blu. Ma l’impulso di luce si sta muovendo, per cui ad una separazione spaziale corrisponde anche una distanza temporale.
Se guidiamo in autostrada a velocità costante e senza traffico, possiamo parlare in maniera equivalente di chilometri o minuti che mancano all’arrivo. Quello che succede, quindi, è che l’impulso di luce si è allungato nel tempo!
Di conseguenza, mentre l’energia totale dell’impulso rimane la stessa, la potenza di picco si è ridotta, e la luce può passare ed essere amplificata nel cristallo di zaffiro senza disintegrarlo! Problema risolto quindi? Quasi. L’impulso ora non è più “ultracorto”, che è quello che vorremmo invece. In realtà questo è un problema semplice da risolvere, una volta capito il trucco: basta usare un prisma identico al primo, ma montato al contrario, dopo il cristallo di zaffiro, per ricompattare l’impulso.
Grazie a questo ingegnoso meccanismo, siamo ora in grado di produrre impulsi di potenze di picco di migliaia di GigaWatt, che in anni recenti, oltre che essere il pane quotidiano di molta ricerca legata alle nanotecnologie, sono stati usati anche per tentare di innescare una fusione nucleare.
Questa ricerca è ancora molto sperimentale, ma se dovesse avere buon esito, avremmo a disposizione una sorgente di energia pulita in grado di soddisfare i bisogni del pianeta senza emissione di anidride carbonica. Non sarebbe una conseguenza da poco, e certamente non predetta, per la semplice, ma geniale, idea di due dei tre premi Nobel per la fisica del 2018.
Achille Giacometti
Stefano Bonetti