Luca Maria Olivieri dirige dal 2011 – ma vi lavora dal 1987, prima ancora di laurearsi in Archeologia classica all’Università La Sapienza di Roma - la più antica missione archeologica italiana in Asia, nella valle del fiume Swat. Lo Swat si trova nella zona pedemontana dell’Hindukush-Karakorum, nella regione dell’antico Gandhara, oggi nel Pakistan settentrionale, nella provincia del Khyber-Pakhtunkwa. Questa, fino a non molto tempo fa, era nota con un nome evocato nei racconti di Rudyard Kipling, ovvero come ‘North-West Frontier’.
La Missione è stata fondata dal celebre orientalista Giuseppe Tucci nel 1955 quando lo Swat era ancora regno autonomo, lo Yusufzai State of Swat, poi annesso al Pakistan nel 1969. Il primo e indimenticato Direttore della Missione è stato il grande archeologo Domenico Faccenna. Dopo di lui la Missione è stata diretta da un altrettanto grande studioso, Maurizio Taddei. Oggi fa parte delle attività archeologiche del nuovo ISMEO e a breve verrà firmato un accordo tra Ca’ Foscari e l’ISMEO per la gestione congiunta dalla Missione.
Nel 2007 fece il giro del mondo l’immagine sconcertante del grande Buddha di Jahanabad, scultura rupestre del VII secolo alta 6 metri che rappresenta un Buddha seduto, devastato dai talebani. L’opera, che fu ricostruita grazie al lavoro di Olivieri e di una squadra di archeologi italiani, è uno dei molti tesori custoditi nello Swat. Lo Swat infatti fa parte della provincia artistica nota come Gandhara. L’arte indiana del Gandhara (I-III sec. d.C.), caratterizzata dalla compresenza di influssi classici, persiani e centroasiatici, trova nella valle dello Swat un suo culmine con la prima rappresentazione narrativa del ciclo biografico del Buddha nel Grande Stupa di Saidu Sharif della metà del primo secolo a.C.
Da quest’anno, per la prima volta in Europa, un ateneo pubblico, l’Università Ca’ Foscari Venezia, ha attivato un insegnamento in archeologia e storia dell’arte del Gandhara tenuto dal prof. Luca Maria Oliveri, dando così il via a questa importante e fruttuosa linea di ricerca.
Da sempre archeologo ‘sul campo’ (finora ha condotto 34 campagne di scavo in Pakistan, 21 campagne di rilievo e ricognizione tra India, Pakistan e Afghanistan, 12 campagne di restauro in vari siti archeologici e monumenti nello Swat e numerosi corsi di formazione archeologica in Pakistan, ma anche in Afghanistan), il prof. Olivieri è arrivato a Ca’ Foscari per insegnare Archeologia e Culture del Gandhara e delle vie della seta nel corso di Laurea Magistrale in Lingue e Civiltà dell’Asia e dell’Africa Mediterranea del dipartimento di studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea.
Dal prossimo anno accademico sarà anche titolare di due corsi di laurea triennale in storia del Buddhismo: archeologia, arte e cultura materiale, con focus sull’Asia meridionale e sudest asiatico. L’attenzione dedicata da Ca’ Foscari a questa importante e fruttuosa linea di ricerca, rappresenta un ‘unicum’ a livello internazionale.
“La missione archeologica che dirigo è riconosciuta internazionalmente come una delle più antiche e importanti al mondo e da quest’anno ha finalmente un legame anche con l’offerta didattica universitaria italiana. Ora, dopo alcuni anni turbolenti, le condizioni di sicurezza in Pakistan sono buone e possiamo tornare a considerare lo Swat come un importante luogo di formazione, un laboratorio a cielo aperto per studenti e studiosi di archeologia. Le università pakistane da anni stanno già investendo molto in questo filone formativo a livello universitario e post-universitario. In questo senso ci si augura di poter avere presto più studenti dal Pakistan a Ca’ Foscari”.
Focus attuale delle attività di scavo nello Swat è il sito di Barikot, l’antica Bazira. Fondata in età achemenide, la città è nota dalle fonti classiche per essere stata espugnata da Alessandro Magno nel 327 a.C. durante la spedizione verso l’India e successivamente rifortificata.
“L’insediamento originario è molto più antico e risale al 1700 a.C” ci spiega il prof. Olivieri. “Bazira è una cittadina di 15 ettari estremamente ben conservata, caratterizzata da una cinta fortificata ellenistica, datata circa 150 a.C. È situata a circa 800 mt sul livello del mare e, secondo i calcoli della demografia applicata alle antiche città indiane, non superava gli 8 mila abitanti. L’importanza del sito è tale che, dopo tanti anni di pagamenti di affitto dei terreni da parte della Missione (che hanno di fatto salvaguardato il sito), nel dicembre 2019 il governo pakistano della provincia del Khyber-Pakhtunkhwa ha acquisito il 50% del sito (la parte non costruita) con un esborso di oltre un milione di euro”.
Perché questa cittadina appartata e lontana dalle direttive più battute ha attirato l’attenzione di un grande condottiero come Alessandro Magno?
“Era un centro di controllo dell’enorme ricchezza agricola dello Swat, uno dei pochi posti del nord-ovest dell’antica India dove si poteva ottenere un doppio raccolto agricolo. Dallo stesso campo si poteva ottenere un raccolto di grano o orzo alla fine della primavera, e un secondo di riso a fine estate. Con 1000 km2 di area agricola a doppio raccolto si possono nutrire oltre 500mila abitanti. La demografia antica dello Swat, nel suo picco massimo, alla metà del terzo secolo d.C., non doveva superare i 250mila abitanti. A regime lo Swat poteva avere dunque un surplus alimentare pari al 50% della sua produzione agricola. Quindi è chiaro che un’area come questa fosse una colonia agricola di primaria importanza. Bazira, con il suo controllo dello Swat, era la garanzia del sostentamento degli insediamenti della pianura, compresa la capitale Pushkalavati, lungo la Grande Strada che da Kabul portava a Mathura e oltre. Lo Swat era (ed è ancora) una fortunatissima valle montana, ma non una via di transito, con abitanti stanziali che per 2mila anni si sono nutriti prevalentemente di riso e orzo/grano.
Dal punto di vista genetico abbiamo costituito un database di 126 individui – su 523 campioni analizzati in Asia che rappresentano circa il 25% del totale del DNA antico conosciuto [Science, settembre 2019 science.sciencemag.<wbr />org/content/365/6457/eaat7487. N.d.R.]
Alessandro Magno guidò personalmente un corpo di spedizione su queste montagne, prima di ricongiungersi con il grosso del suo esercito, proprio per assicurarsi l’approvvigionamento per le sue truppe. Ma non fu certo l’unico. Abbiamo una testimonianza dell’Imperatore Babur, il capostipite della dinastia Moghul, discendente diretto di Tamerlano, che si rammaricava di essere andato nella valle nel segno dei Pesci (febbraio) e non aver trovato grano a sufficienza per i suoi soldati. “Il prossimo anno dovremmo tornarci prima, all’epoca del raccolto”.
Come avvenne la ricostruzione del Buddha di Jahanabad?
“Il problema principale fu la logistica. Jahanabad si trova in una valle laterale dello Swat circa a 50 km a nord di Barikot. Il Buddha è scolpito su una rupe di granito alta circa 10 metri, in una zona montuosa, non facilmente accessibile. Il lavoro di restauro si è svolto in parete, con i restauratori, locali ed italiani, assicurati da corde a punti fissi, su impalcature di legno e bambù. La logistica è stata particolarmente complicata, specialmente per i carpentieri e per portare lassù i materiali per le impalcature. L’area era inoltre controllata in quegli anni dall’esercito. Un altro problema fu l’assenza di frammenti per guidare il restauro. Le cariche di esplosivo polverizzarono la parte del volto, e solo pochi frammenti della spalla furono recuperati, ma quasi nulla del viso si è conservato. Il terzo problema fu quindi la ricostruzione dei volumi originali. Il restauro è proceduto in due fasi. Una prima fase riguardò la “medicazione” della grande ferita del volto del Buddha (alto circa 1.5 m). Seguì quindi una fase di documentazione ed elaborazione. Una terza fase ha riguardato infine la parte esecutiva. Il lavoro è iniziato nell’aprile del 2012 e terminato, con varie interruzioni, nel settembre del 2016.
Per le fasi finali, il problema principale era rappresentato dal fatto che tutta la documentazione fotografica antecedente l’attentato era stata presa dal basso. Una volta saliti sulle impalcature, ci siamo resi conto che il volto era stato scolpito con una deformazione prospettica, che garantiva la proporzione nell’unica veduta possibile, che era quella dal basso. La foto ante-2007 erano dunque inutili, a ameno che non fossero integrate con informazioni digitali nuove. La collaborazione con gli esperti della documentazione 3D dell’Università di Padova (Prof. Giuseppe Salemi) ha permesso infatti di integrare le foto d’archivio in un modello ricostruttivo dei volumi mancanti. È stato poi compito di due grandi restauratori della scuola italiana, direi quasi artisti loro stessi, Fabio Colombo e Livia Alberti, portare sulla roccia viva quel modello e completare il restauro”.
Professore, cos’è per lei l’Archeologia?
“Il mestiere sognato fin da bambino. Poi se mi chiede che cosa pensare dell’archeologia, come “professione” per un giovane ad esempio, proverei a risponderle così: è ovvio che il bene culturale debba essere percepito come un elemento formativo essenziale in una concezione olistica della società moderna. Il bene culturale - e le sue competenze professionali - non può o non deve avere un valore economico in sé. Facciamo un esempio banale: un appartamento con una visuale su una bella piazza o un parco. Quando quell’appartamento sarà sul mercato, la vista darà un valore aggiunto all’appartamento, anche se la vista in sé non ha un valore economicamente valutabile. La stessa cosa vale per il patrimonio culturale e paesaggistico e le competenze professionali. L’investimento in questi casi non può che avvenire dal centro, dallo Stato. Parlo dello Stato perché giustamente si parla di un bene pubblico, non privatizzabile, anche se l’apporto privato, come donazione, fa bene, perché nasce – o dovrebbe nascere - dal senso civico. È sempre stato così, fin dal Rinascimento. Anzi, visto che siamo nell’Anno di Raffaello, ricordo qui la famosa lettera del grande artista scritta nel 1519 a Leone X! Il finanziamento era ed è importante: le opere d’arte pubbliche (non parlo qui della dimensione dell’arte contemporanea) non venivano realizzate perché economicamente produttive; non davano un ritorno economico, eppure nascevano grazie ad un investimento economico. Veniva sborsato denaro per realizzarle perché garantivano ritorni di altro genere, sul piano spirituale e culturale, politico e di prestigio.
L’investimento sul patrimonio culturale e sulla formazione delle professioni ad esso collegate, non deve essere quindi concepito come un peso dallo Stato, solo perché non produce un ritorno economico diretto. Dico questo, senza tenere conto dei ritorni enormi in termini di PIL che comunque si hanno attraverso il turismo. Lo Stato deve curare il suo ‘giardino’ e formare i suoi ‘giardinieri’, piuttosto che appoggiarsi a costo quasi zero sull’entusiasmo e l’idealismo di giovani e meno giovani che si occupano di curare i nostri ‘giardini’. In questo il sistema universitario, i cantieri-scuola (sia di scavo che di restauro), e i laboratori ‘aperti’, hanno una funzione di straordinaria importanza”.