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Xiao cheng zhi chun

Cina

Tradizionale solo all'apparenza, pudico nel narrare una fiammeggiante passione, il Kammerspiel di Tian presenta un complicato susseguirsi di sollecitazioni sia visive sia soprattutto uditive

XIAO CHENG ZHI CHUNPrimavera in una piccola città di Tian Zhuang Zhuang

Un'anonima cittadina cinese, uguale a chissà quante altre; il tenue sole primaverile che si affaccia di nuovo sulle vite di persone qualunque. Così come l'inverno, anche la Storia con le sue devastazioni è ormai passata: restano indietro, insieme ai detriti delle case sventrate dalle bombe, anche i detriti umani; i loro cuori nascondono segreti e bugie, insoddisfazioni, rimpianti, e paiono condannati a non poterli esprimere. Il giovane Liyan, oppresso da una salute cagionevole, vede la bella moglie Yuwen intristire e perdere ogni contatto con lui; poco lo consola l'allegria della sorellina Xiu. L'improvviso ritorno di Zhichen, vecchio amico di Liyan e ancor più vecchio innamorato di Yuwen, increspa le onde della piccola famiglia (i due ex-amanti si desiderano ancora, la sorellina si invaghisce a sua volta dell'ospite) ma la tragedia verrà solo sfiorata. Il classico melodramma, insomma; apparentemente nulla di nuovo, ammesso che la "novità" sia l'unico criterio buono per valutare un film: perché allora dovremmo bollare come banale la quasi totalità dei film recenti, e magari ci sentiremmo tutti fieri del nostro intellet-tualismo, che non ci permette più di emozionarci di fronte a una storia di amore contrastato.
 

La didascalia iniziale ci informa che questo remake, e mai come in questo caso tale appellativo suona riduttivo e forzoso, è stato concepito per «omaggiare i pionieri del cinema cinese», primo fra tutti Fei Mu, autore osteggiato dalla Rivoluzione Culturale fino all'oblio nonché regista del primo Xiao cheng zhi chun: il film, diretto nel 1948, è stato a lungo sottostimato, assurgendo ultimamente al ruolo di "grande classico".

Tradizionale solo all'apparenza, pudico nel narrare una fiammeggiante passione, il Kammerspiel di Tian presenta in realtà un complicato susseguirsi di sollecitazioni sia visive sia soprattutto uditive: si veda l'incongruo inno alla primavera sulle note di «Sul bel Danubio blu» cantato dolcemente dai quattro, poco prima che esploda il dramma. Nei giorni seguenti i personaggi bruciano dalla voglia di urlare l'uno all'altro i propri sentimenti, le proprie verità, ma sono costretti, specialmente la moglie, a parlare a bassa voce; l'unica che può ur-lare, e lo fa a gran voce, è la ragazzina Xiu, non a caso esclusa dal gioco amoroso. La sua infatuazione per Zhichen, infatti, è puramente adolescenziale, non conosce il peso della passione fra i tre adulti; ne avrà prova la sera del suo sedicesimo compleanno, quando la festa in suo onore diventerà un drammatico redde rationem, dopo il quale Xiu non urlerà più. La scena della festa, lunga e complessa, contiene due momenti acustici culminanti: il primo quando Yuwen, complice l'alcool, comincia a cantare ad alta voce una canzone che Zhichen ricorda molto bene e la loro passione viene alla luce; il secondo a fine serata: il marito si è ormai ritirato senza speranza, l'amante ubriaco grida dolorosamente una canzone sconnessa e tenta di raggiungere l'amata, la quale si è richiusa nel silenzio, conscia della propria colpa. Con ciò non si può dire che Xiao cheng zhi chun sia un film "parlato", di quelli che si possono vedere anche ad occhi chiusi: tuttavia capita raramente di trovare tanta sensibilità per le voci (non per le parole) degli attori, e si può indovinare quanto sarebbe difficile fornire loro un doppiaggio adeguato. Tale precisa attenzione ai suoni trova il suo contraltare nella maestria con cui Tian calibra i piani sequenza: come nel miglior Hou Hsiao-hsien, i personaggi divengono figure danzanti, vanno fuori fuoco, ci ritornano, si spostano dal centro al margine dell'inquadratura e viceversa, obbedendo alle proprie emozioni e alle ragioni di inquadratura; nota bene: non è la macchina da presa, coi suoi movimenti, a sottolineare i sentimenti dei protagonisti; bensì sono loro a vagare e fluttuare per volontà propria, mentre essa li segue, li accarezza, si fa loro complice. La forza delle immagini nasce tutta dall'interno, ma la mano del regista conferisce all'azione una fluidità estrema, cosa tanto più difficile se si pensa all'ambientazione della vicenda: la casa di famiglia presenta spazi stretti e irregolari, le camere sono tutte distanti e raggiungibili con percorsi tortuosi.

Esercizio virtuosistico ispirato alle geometrie impossibili di In the Mood for Love? Simbolo dei percorsi sentimentali, anch'essi irti di ostacoli, che i quattro devono seguire? Comunque si legga, la dialettica spazio pieno/spazio vuoto di Xiao cheng zhi chun non lascia indifferenti e non si dimentica, perché ha dalla sua parte una rara naturalezza; il lavoro attoriale inoltre aderisce perfettamente al lato tecnico delle riprese, gioca di sfumature, concentra nei quattro visi e corpi la stessa complicatezza e la stessa "tortuosità" dei luoghi. In breve, ogni minima sequenza assume un notevole peso specifico, pur lavorando con pochi elementi; e d'altra parte, il film rimane sempre lieve e sussurrato: basta lo spegnersi di una lampadina in una stanza, all'ora del coprifuoco, a mettere agitazione nello spettatore, che si chiede quali nuovi sviluppi avrà il gioco di luce e d'amore. A fugare gli eventuali sospetti di accademismo o di estetismo giunge il finale, profondamente orientale e carico di senso: Zhichen, l'elemento di disturbo, se ne va, consegnando di nuovo Yuwen e Liyan al silenzio, e attraversa l'immenso tunnel che porta alla ferrovia. L'ultima inquadratura è sul tunnel vuoto: vuoto da riempire; che si poteva riempire; che non si riempirà più.

Vera Brozzoni