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Suraj Ka Satvan Ghora (1992): La vendetta di Paro - Prima parte

India

Suraj ka satvan ghora (Il settimo cavallo del sole,1992), diretto da Shyām Benegal e tratto dal romanzo omonimo dello scrittore hindi Dharmvir Bharti, rilegge criticamente il grande mito del cinema indiano nato con il film Devdas (1935), del regista assamese Pramtesh Chandra Barua (1903-51).

SŪRAJ KĀ SĀTVĀN GHORĀ (1992) : La vendetta di Pāroprima parte

 

Il settimo cavallo del sole [Sūraj kā sātvān ghorā] è tratto dall'omonimo romanzo hindi del 1952 di Dharmvir Bharti (n. 1926), scrittore e poeta di fama. (...) Nella storia cinematografica di Shyām Benegal questo film è il proseguimento coerente di una strada personale, imboccata nel 1978 con il film Junūn (L'ossessione), alla ricerca di una specifica identità psicologica. Se Junūn si interroga sul rapporto conflittuale tra due civiltà, indiana e inglese, il successivo - Kalyug (L'era meccanica, 1981), un moderno Mahabharata - cerca le tracce archetipiche dei rapporti e dei comportamenti tra gli individui rispetto al potere. Con Il settimo cavallo del sole Benegal si addentra ora in un campo ancora più specifico: investiga la natura dell'amore, come fatto individuale e sociale insieme, e i modi in cui si evolve per adattarsi o per sfuggire alle vesti economiche, sociali e culturali del ceto medio, da cui proviene tanta parte degli intellettuali indiani. (...)

Il film segue fedelmente il testo di Dharmvir Bharti, con poche variazioni; molto spesso lo riprende parola per parola; il dialogo ha infatti un ruolo centrale anche nell'opera di Shyām Benegal, assumendo la rilevanza propria del dialogo teatrale, senza tuttavia condizionare le scene. Nonostante la rigorosa aderenza al romanzo, Il settimo cavallo del sole rivela un legame sostanziale con un'altra fonte, più lontana nel tempo e più radicata nella psiche indiana: nasce, cinematograficamente, da Devdas, il film diretto nel 1935 da Pramtesh Chandra Baruā (1903-1951), in due versioni, una in bengalese, con Barua nel ruolo principale, e una in hindi, protagonista Kundan Lal Sahgal (1904-1946), leggendario cantante-attore della scena indiana. La vicenda di Devdas, a sua volta, si basa sul romanzo omonimo dello scrittore bengalese Sharatchandr Chattopadhyay (1876-1938), che l'aveva scritto all'età di diciassette anni (...): è attraverso Devdas che Shyām Benegal trasforma l'opera di Dharmvir Bharti in una creazione personale.

[Paro e Devdas, innamorati fin dall'infanzia, non possono sposarsi per l'opposizione della ricca famiglia di lui. Paro deve sposare un vecchio vedovo, mentre Devdas cerca rifugio nell'alcol. Inutilmente soccorso da Chandramukhi, la prostituta redenta dall'amore, Devdas va a morire davanti alla porta di Paro, che non può essergli accanto neppure nell'ora della morte]

Devdas - osserva il critico bengalese Chidananda Das Gupta - è un eroe debole, un adolescente che non riesce a diventare un uomo, un perdente che si autodistrugge perché incapace di lottare per i suoi sogni e di affrontare le proprie sconfitte. Non sapendo o non osando opporsi alla famiglia per realizzare il suo sogno, Devdas trova la forza di contrastare i progetti del padre e, quindi, della società sottraendosi volontariamente alla vita: un gesto, tutto sommato, infantile e inutile. Di fronte a lui, Paro: una donna indiana come tante, che porta sulle spalle il peso di secoli di oppressione familiare e sociale, con cui ha dovuto imparare a convivere per sopravvivere. Paro ha un atteggiamento attivo rispetto alle situazioni che affronta, soprattutto nel suo amore per Devdas: per avere una risposta alle sue attese, non esita a mettere in gioco il suo onore, recandosi nella camera di lui a notte alta. È una delle sequenze più intense del film, in cui il coraggio disperato di Paro deve cedere di fronte all'esangue e melanconica ignavia di Devdas. Paro non si lascia travolgere dallo sconforto: sarà una moglie devota e virtuosa, come si pretende da lei, trasformando un'imposizione iniqua in esperienza positiva. Ritvik Ghatak (1925-1976), forse il più grande cineasta che l'India abbia avuto, era solito dire che Devdas è in realtà la storia di Paro, del suo coraggio e del suo senso di responsabilità, mentre Devdas è un personaggio detestabile e ripugnante. Tuttavia, la leggenda che da qui nasce e si perpetua è quella dell'imbelle e spesso crudele (senza averne coscienza, per giunta!) Devdas, l'uomo che muore distrutto dalla sofferenza dell'amore negato. Paro non deve aver sofferto un gran che, visto che è sopravvissuta; inoltre ha solo compiuto il suo dovere. D'altronde, quelle vette di dolore intellettuale le sarebbero comunque state precluse in quanto donna, per sua stessa natura più vicina alla bestia che all'essere raziocinante: questo, almeno, secondo le leggi di Manu.

Il film di Barua diventa in breve un vero e proprio mito, forse il più influente dei miti indiani moderni: la figura del giovane che si distrugge per amore si imprime nell'anima della generazione indiana contemporanea e dà luogo a un atteggiamento di esasperato e melanconico romanticismo chiamato devdasiyat o devdasismo, che si ripropone e si consolida nel 1955, con l'intenso e sofisticato rifacimento di Vimal Ray (Bimal Roy, nella dizione anglicizzata, 1909-1966; al suo film si riferiscono le citazioni seguenti), direttore della fotografia nel Devdas del 1935. A incarnare Devdas è ora Dilip Kumar, l'eroe tragico per eccellenza dello schermo indiano di quegli anni, mentre nei ruoli di Paro e Chandrmukhi troviamo rispettivamente Suchitra Sen e Vaijayantimala. La luce di Devdas continua ad ardere nel cuore dell'eroe cinematografico hindi per tutti gli anni a venire, riverberando perfino su un personaggio che ne dovrebbe rappresentare l'antitesi, l'angry young man incarnato da Amitabh Bachchan, la più grande star indiana di tutti i tempi e uno dei migliori attori di quegli schermi, figlio di un poeta maximo, Harivanshray Bachchan.

 

Nel romanzo di Dharmvir Bharti, la figura di Devdas - brevemente citata in quattro punti - è una presenza psicologica, ma non ha valenze mitiche: potrebbe essere tranquillamente eliminata senza compromettere l'integrità dell'opera; eliminarla dal film di Benegal significherebbe eliminare il film stesso. Pur non escludendo la presenza di altre chiavi interpretative, l'impianto narrativo del film, nel suo insieme e nelle singole storie, ripercorre fin quasi all'esasperazione il mito di Devdas, oscillando costantemente tra riproposizione e rifiuto. La prima storia è forse la più manifesta, fin dalle battute iniziali: Jamuna vede se stessa e Tanna come reincarnazione degli infelici amanti, legge ad alta voce le pagine del romanzo perché Tanna possa sentirla e racconta a Manik i momenti salienti della vicenda. La storia di Jamuna ricalca patentemente quella di Paro: ama riamata un giovane che non può sposare; viene costretta a sposare un vecchio vedovo e sa volgere a suo favore una sorte infausta, mentre Tanna finisce per distruggersi. Ma è una somiglianza superficiale, piuttosto che effettiva. Da un lato, Jamuna è Paro: anche Jamuna ha il coraggio e la forza di lottare per il suo sogno, la cui realizzazione è vanificata dalla pusillanimità del giovanotto. Anch'ella, pur continuando ad amare Tanna, deve rassegnarsi a un matrimonio assai poco gradito. Ma non con spirito di sacrificio: decide invece di trarne ogni vantaggio, servendosi del marito (e non già servendolo devotamente, come si converrebbe a una moglie e come fa Paro). Non manca di renderlo felice, gratificandolo di un discendente grazie all'intervento "magico" di Ramdhan; anche di quest'ultimo Jamuna non disdegna di servirsi per soddisfare le sue esigenze di madre, prima, e di vedova, poi. Ma continua ad amare Tanna non meno di quanto Paro ami Devdas; solo che Jamuna ama pur conoscendo tutta la timorosa realtà del beneamato. È un sentimento pienamente consapevole e sanamente terreno per un uomo pavido e mediocre; e Jamuna non intende rinunciare a realizzare in tutti i sensi tale sentimento. Tenta infatti di sedurlo durante l'assenza di Lili. Inevitabile il confronto con la sequenza in cui Paro, a notte fonda, si reca nella camera di Devdas. Come Devdas reagisce con inquieto sgomento di fronte all'audacia di Paro, così Tanna respinge atterrito e quasi isterico le inequivocabili avances di Jamuna. Ma mentre Paro si china davanti alla superiore volontà del suo dio in terra, al quale chiedeva solo "un piccolo posto ai tuoi piedi", Jamuna appare più che altro seccata dal diniego. Non si dà per vinta, comunque, e Tanna alla fine oserà accogliere l'invito che legge nei suoi occhi. La morte impedirà ogni seguito, ma almeno Jamuna potrà stringere il suo mediocrissimo ma non per questo meno vagheggiato amante nel primo vero abbraccio e raccoglierne l'ultimo respiro: nessun portone si chiuderà davanti a lei come si era chiuso davanti a Paro.

Cecilia Cossio
da Cecilia Cossio, 1995, Il settimo cavallo del sole nel cinema indiano, in "Cinema nuovo", 44°, 4-5 (356-357), luglio-ottobre, pp. 23-30