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Storia delle relazioni diplomatiche tra Giappone e Corea dal 1904 al 1910

Corea del Sud Giappone

Nel panorama storico tra l'arcipelago Nipponico e la Penisola Coreana sono sempre stati intessuti rapporti reciproci intensi seppur caratterizzati da un intreccio ambiguo: tra i due Paesi, infatti, si sono succeduti tanto vette di grande fraternità, quanto parossismi di grave conflitto.

Un caso di complicità tra i due stati riguarda la circolazione della cultura e degli insegnamenti buddisti, con la quale si creò un legame tra il regno di Peakche, sorto a Sud-Ovest della penisola di Corea (16 a.C.-660 d.C.), ed il Giappone del VI secolo (periodo Kofun, dal 300 al 710 d.C.): un momento di scambio antropologicamente e culturalmente interessante.  

Un caso invece di grande inimicizia è stata sicuramente la Guerra di Imjin, o invasione della Corea da parte giapponese del 1592-1598, quando, in breve, il generale Toyotomi Hideyoshi guidò un’ invasione volta alla conquista della penisola coreana, durante il regno della dinastia Joseon (1392-1897) e della Cina, sotto la dinastia Ming (1368-1644): la missione, di carattere sicuramente ambizioso, venne storicamente divisa in due parti: nella prima parte, dal 1592 al 1596, i giapponesi riuscirono abilmente ad occupare parte dei territori desiderati, ma, a causa di un problema contingente sui rifornimenti per le truppe stanziate ad occidente e nel meridione della penisola coreana, dovettero ritirarsi. I negoziati di pace dal 1596 al 1597 tra i Ming e gli invasori si risolsero in un nulla di fatto, cosicché i tentativi diplomatici falliti portarono, nel 1597, ad un ritorno dell’offensiva giapponese in Corea, che diede inizio alla seconda parte dell’impresa. Non vi furono diversità peculiari nello sviluppo operativo: anche nel secondo caso Hideyoshi ottenne presto il dominio di alcuni luoghi della penisola coreana e, per quanto indebolito dal precedentemente detto problema dei rifornimenti, neppure l’intervento delle truppe Ming e Joseon riuscì ad estromettere il contingente nipponico. Il generale disimpegno dei giapponesi dai territori occupati avvenne solo dopo la morte di Hideyoshi nel 1598, a cui seguì un ordine di ritirata impartito dal governo dei Cinque anziani, che a causa dell’immobilismo del fronte, ritennero inefficaci i pochi progressi ottenuti dalla missione stessa, che aveva subito una battuta d’arresto attestandosi sulle posizioni precedentemente conquistate. 

Al susseguirsi degli avvenimenti, l’atteggiamento giapponese  subì un cambiamento radicale: nella seconda metà del XIX secolo, precisamente dal 1866, iniziò la Restaurazione Meiji, che diede inizio alla trasmutazione fondamentale non solo da un punto di vista politico (si poneva fine al potere degli shogun che tronava all’Imperatore), ma anche socio-culturale, che tagliò trasversalmente tutti gli aspetti della nazione nipponica e pose fine alla realtà isolazionista e refrattaria che caratterizzava il Giappone degli anni precedenti, dando così via ad un processo di innovazione profonda su molteplici aspetti statali. Secondo alcuni studiosi, il periodo Meiji venne animato dall’idea che il Giappone potesse e dovesse diventare pari alle potenze Occidentali dell’epoca, e pertanto capace di conquistare territori esterni, di apportare e sfruttare innovazioni tecnico-scientifiche e, soprattutto, di assumere un ruolo quasi di potenza egemone nel territorio ambìto. Le scelte belliche successive vennero anche guidate da questo “modus operandi” di stampo occidentale: il Giappone non avrebbe più “perso la faccia” davanti a nessuna potenza.

Questa relazione si propone di esporre i dettagli diplomatici dei trattati, susseguitisi dal 1904 al 1910, che caratterizzarono l’annessione della Corea all’Impero giapponese, per poi dedicare una breve parte della conclusione alle considerazioni personali sugli anni che caratterizzarono l’annessione stessa, che ebbe corpo, appunto, a partire dal 1910 per poi terminare nel 1945.

I TRATTATI

Il trattato del 1904

Il trattato tra Giappone e Corea del 1904 si sviluppava in sei articoli, che spaziavano dalla regolamentazione di argomenti specifici, quale quello della difesa, alle dichiarazioni di principio che, soprattutto, vedevano alla base il riconoscimento dell’autorità dell’imperatore, sia di Corea che di Giappone.

Il primo articolo, infatti, disponeva che il governo coreano dovesse avere fiducia completa nel governo giapponese, difatti se ne dovevano accettare i consigli, soprattutto di carattere amministrativo, nella speranza, così, di stabilire e mantenere la pace nell’Asia orientale. 

Il secondo articolo esprimeva, invece, l’assoluta volontà, da parte giapponese, di proteggere, assicurandone la salvezza, dell’Impero coreano.

Il terzo articolo, consequenziale al secondo, affermava che i Giapponesi avrebbero dovuto garantire l’integrità territoriale e politica della Corea.

Il quarto articolo, di matrice più concreta e perciò più circostanziato, affermava che in caso di attacchi e/o invasioni della penisola coreana da parte di Stati terzi, era dovere dell’esercito giapponese difendere e assicurare la salvaguardia della Corea, seppur con previsioni di contenuto peculiare: infatti, in casi ritenuti opportuni dal governo centrale nipponico, i coreani avrebbero dovuto fornire ai Giapponesi, tutte le agevolazioni possibili che questi avessero ritenute necessarie, offrendo loro anche la possibilità di occupare determinati territori. Interessante notare che in questo articolo si presenta la prima enunciazione normativa in cui il potere decisionale istituzionale coreano appariva sotto una luce subalterna rispetto a quello giapponese.

Il quinto articolo, disponeva che i governi dei due Paesi non avrebbero potuto concludere in futuro un accordo con un terzo potere, che fosse contrario ai principi del protocollo, senza mutuo consenso.

Il sesto ed ultimo articolo, a conclusione di questo breve ma importante trattato, specificava che gli eventuali dettagli relativi al (presente) protocollo sarebbero stati concordati, se le circostanze lo avessero richiesto, tra il ministro degli Affari esteri della Corea e il rappresentante dell'Impero del Giappone.

Il trattato venne firmato da Hayashi Gonsuke (nel ventitreesimo giorno del secondo mese del trentottesimo anno della dinastia Meji), e da Yi Ji-yong (nel ventitreesimo giorno del secondo mese dell’ottavo anno della riforma Gwangmu), il quale faceva le veci dell’imperatore coreano, in quanto quest’ultimo si rifiutò categoricamente di apporre la propria firma. 

Nel 1904, l’Imperatore di Corea era Gojong. Diventato re a soli 11 anni e successivamente imperatore a 45, in un percorso che cercava di rimarcare la sovranità coreana come nazione separata dalla dinastia Qing cinese, nella cui orbita aveva finora gravitato lo stato di Joseon, aveva una formazione politica e culturale ammirabile ed il periodo in cui dovette regnare lo mise, parecchie volte, in seria difficoltà. Gli storici spesso lo descrivono come un coreano “vero”, attaccato alle proprie radici culturali e al popolo coreano, che di conseguenza fece tutto il possibile per salvaguardare il suo regno dalle ambizioni politiche nipponiche.

Come spesso succedeva, il trattato venne ratificato nell’Agosto dello stesso anno da un accordo successivo, di carattere economico-istituzionale in quanto, brevemente, richiedeva che la Corea assumesse consulenti finanziari e diplomatici designati dalle autorità giapponesi e, inoltre, imponeva che un eventuale accordo con potenze terze sarebbe dovuto passare sotto il controllo e consulto nipponico. Più breve rispetto al precedente, esso si sviluppava in soli tre articoli: 

  1. Il primo disponeva che tutte le decisioni di tipo finanziario sarebbero state prese da un soggetto giapponese raccomandato dal governo giapponese stesso. 
  2. Il secondo, a sua volta, imponeva che il governo coreano avrebbe dovuto assumere come consulente diplomatico presso il dipartimento degli Affari Esteri, uno straniero raccomandato dal governo giapponese, che avrebbe dovuto a sua volta pronunziarsi preventivamente su tutte le questioni importanti relative alle relazioni estere prima della relativa trattazione;
  3. Il terzo, in conclusione, recitava che il governo coreano avrebbe dovuto consultare il governo giapponese non solo prima della conclusione dei trattati o delle convenzioni con potenze straniere, ma anche nel caso di altri importanti affari diplomatici, quali possibili concessioni e contratti con stranieri.

     

Il trattato del 1905

Dopo la stipula del trattato del 1904 e del relativo accordo di ratifica, nel 1905 Corea e Giappone conclusero un’altra intesa bilaterale, denominato Eulsa, che diede inizio alla fase di passaggio della Corea sotto l’egida dell’Impero Giapponese, fino a diventarne un protettorato.

Le negoziazioni si conclusero con non poche problematiche; il 9 novembre Ito Hirobumi arrivò ad Hanseong (attuale Seul), con l’ordine di consegnare all’imperatore Gojong una missiva da parte dell’Imperatore del Giappone, volta a raggiungere un compromesso diplomatico, ma tastata con mano la riluttanza coreana e, soprattutto, quella dell’Imperatore, venne deciso di forzare le pressioni, circondando militarmente il palazzo imperiale il 15 dello stesso mese. Il 17 novembre i giapponesi riuscirono ad entrare nel Deoksugun e il trattato fu stilato e firmato il giorno stesso. 

Questo concordato avrebbe acquisito effettività se firmato da tutti i ministri, per cui venne approvato da:

      1) Il ministro dell’istruzione, Lee Wan-yong (이완용; 李完用)

      2) Il ministro delle forze armate, Yi Geun-taek (이근택; 李根澤)

      3) Il ministro degli affari interni, Yi Ji-yong (이지용; 李址鎔)

      4) Il ministro degli affari esteri, Park Je-sun (박제순; 朴齊純)

      5) Il ministro dell’agricoltura, commercio e della industria, Gwon Jung-hyeon (권중현; 權重顯)

L’imperatore Gojong si rifiutò di sottoscrivere il trattato, ed al suo posto venne scelto il Primo Ministro Han Gyu-seol, il quale cedette, insieme ai ministri della finanza e della giustizia, sotto le minacce giapponesi. L’imperatore Gojong, dopo il trattato del 1905, decise non di ribellarsi con la forza, in quanto era conscio della svantaggiosa differenza di potenziale bellico tra Corea e Giappone, ma di scrivere delle missive, che non ebbero mai risposta, ai regnanti europei, nella speranza di trovare qualche potenziale alleato che lo aiutasse, o comunque sostenesse, nella loro causa di autodeterminazione. Precisamente si rivolse al Re Edoardo VII del Regno Unito, al Presidente francese Armando Fallières, allo Zar di Russia Nicola II, all’Imperatore Austro-Ungarico Francesco Giuseppe, al Re d’Italia Vittorio Emanuele III, al Re del Belgio Leopoldo II, all’Imperatore di Cina Kuang-hsu e, infine, all’Imperatore Guglielmo II di Germania. Gojong cercò inoltre di accattivarsi attivamente il supporto e le simpatie delle potenze straniere, tentando di prender parte alla Seconda Conferenza di Pace, il cui scopo era di ampliare la platea soggettiva dei partecipanti della precedente Convenzione dell’Aia; tuttavia, ciò non fu permesso alla Corea. Il malcontento generale causato da questo trattato fu di portata tale che persino la classe più alta della società coreana dell’epoca, si ribellò con tutti i propri mezzi, condividendo ideali e cause delle classi sociali ben più modeste, senza però raggiungere risultati significativi. 

Il trattato del 1905 venne ratificato due volte, con due distinti accordi nell’aprile e nell’agosto dello stesso anno: l’accordo di aprile, i cui negoziati terminarono il primo del mese, disciplinava il trasferimento del servizio postale e delle attività ad esso correlate al Giappone, e le relative disposizioni contemplavano il diritto di espropriare o interdire la proprietà pubblica e la proprietà privata. A fronte dell’esercizio di queste prerogative, l’accordo non contemplava alcuna compensazione o indennizzo, salvo la fumosa previsione per cui il Giappone "consegnerà al governo coreano una percentuale adeguata" degli utili. L’accordo si sviluppava in 10 articoli: 

  • Il primo trattava del passaggio del controllo dell’amministrazione e della gestione delle comunicazioni postali e telegrafiche al Governo giapponese.
  • Il secondo invece disponeva che i terreni, gli edifici, i mobili, gli strumenti, le macchine e tutti gli altri apparecchi connessi con il sistema di comunicazioni già istituito dal governo imperiale della Corea, in virtù del presente accordo, dovessero essere trasferiti sotto il controllo del governo imperiale giapponese.

Le autorità dei due paesi avrebbero dovuto agire congiuntamente per redigere un inventario dei terreni, dei fabbricati e di tutti gli altri beni di cui sopra, e quest’ultimo sarebbe servito in futuro da prova.

  • Il terzo disciplinava i casi in cui, laddove il governo giapponese avesse ritenuto necessario estendere il sistema di comunicazione in Corea, avrebbe potuto usufruire di terreni e fabbricati appartenenti alla mano pubblica coreana o a privati, nella prima eventualità senza indennizzo e nella seconda dietro adeguata compensazione.
  • Il quarto approfondiva ciò che dovesse intendersi come “controllo del servizio di comunicazione e custodia delle proprietà connesse”. Nello specifico, il governo giapponese si sarebbe dovuto assumere, per proprio conto, la responsabilità di una buona amministrazione, le spese necessarie per l'estensione dei servizi di comunicazione sarebbero state a carico del governo imperiale del Giappone ed esso avrebbe dovuto notificare, ufficialmente al governo imperiale della Corea, la situazione finanziaria del sistema di comunicazioni, di cui si faceva carico. 
  • Il quinto disponeva che tutti gli apparecchi e materiali ritenuti necessari dal governo imperiale del Giappone per il controllo o per l'estensione del sistema di comunicazione, avrebbero dovuto essere esenti da qualsiasi imposta, ovvero che non dovessero pagare partecipazione alcuna sugli utili sopracitati.
  • Il sesto concedeva al governo imperiale della Corea di mantenere l'allora attuale commissione per le comunicazioni, nella misura in cui ciò non avesse interferito con il controllo e con l'estensione dei servizi da parte delle autorità nipponiche.

Il governo giapponese promise di impiegare il maggior numero possibile di funzionari e dipendenti coreani nel controllo e nell'estensione dei servizi.

  • Il settimo articolo illustrava gli accordi precedentemente conclusi dal governo coreano con i governi di paesi terzi in materia di servizi postali, telegrafici e telefonici e ne disponeva il subentro da parte del governo giapponese, che avrebbe esercitato a nome della Corea i diritti e gli obblighi in essi previsti;
  • l’ottavo articolo si concentrava sulle varie convenzioni e accordi che riguardavano i servizi di comunicazione fino ad allora esistenti tra i governi del Giappone e della Corea, i quali vennero logicamente aboliti e/o modificati.
  • Il nono contemplava il caso in cui, se lo sviluppo generale del sistema di comunicazione in Corea fosse stato proficuo, una percentuale adeguata del relativo profitto sarebbe stata assegnata al governo giapponese oltre al ristoro delle spese sostenute per il controllo ed il mantenimento dei vecchi servizi e per il loro ammodernamento ed ampliamento, mentre un’ulteriore quota sarebbe dovuta essere destinata al governo coreano.
  • Il decimo, in conclusione, discorreva sulla possibilità per cui, se in un futuro fosse esistita un’ampia eccedenza nel finanziamento del governo coreano, i loro servizi di comunicazione avrebbero potuto essere restituiti ai legittimi proprietari. 

Firmatari dell’accordo furono Hayashi Gonsuke, inviato straordinario e ministro plenipotenziario (datato 1º giorno del 4º mese del 38º anno di Meiji) 
Yi Ha-Yeong, Ministro di Stato per gli Affari Esteri (datato 1º giorno del 4º mese del 9º anno di Gwangmu).

L’accordo di Agosto 1905, invece, si costituiva da nove previsioni normative:

  • Il primo articolo determinava che le navi giapponesi, a fini commerciali, sarebbero state libere di navigare lungo le coste e nelle acque interne della Corea conformemente alle disposizioni dell’accordo in questione, che tuttavia non si applicavano alla navigazione tra i porti aperti.
  • Il secondo articolo disciplinava il fatto che tutte le navi giapponesi da impiegare nella navigazione costiera e nelle acque interne avrebbero dovuto ottenere una licenza, il cui rilascio sarebbe avvenuto solo dopo aver comunicato alla dogana coreana, tramite gli ufficiali consolari giapponesi, il nome e la residenza degli armatori, la denominazione propria del mezzo, il tipo e la capacità di carico delle navi ed i limiti entro i quali esse dovessero navigare. Le licenze avrebbero avuto validità per un anno a decorrere dalla data del rilascio. 
  • Il terzo articolo affrontava la circostanza secondo cui, una volta ricevute le licenze, le relative tasse avrebbero dovuto essere pagate alla dogana coreana.
  • Il quarto articolo esplicitava che le navi giapponesi avrebbero potuto navigare liberamente entro i limiti specificati, ma non si sarebbero potute recare in luoghi non situati nel territorio coreano, salvo in caso di necessità metereologiche, di altre situazioni di emergenza, o in caso di autorizzazione speciale da parte delle dogane coreane.
  • Il quinto articolo illustrava come le licenze avrebbero dovuto essere sempre conservate a bordo delle navi durante il viaggio ed essere esibite quando richiesto dalle dogane coreane, da funzionari locali della Corea, o dai capi dei villaggi debitamente autorizzati da tali funzionari locali. 
  • Il sesto articolo analizzava come gli armatori giapponesi avrebbero avuto la facoltà di affittare terreni per la costruzione di magazzini nei luoghi di scalo delle loro navi. Tali proprietari avrebbero potuto anche costruire moli sulle rive o sulle coste, ma sempre con il permesso delle dogane coreane. 
  • Il settimo articolo esponeva che in caso di violazione del presente accordo da parte di un peschereccio giapponese, la dogana coreana avrebbe potuto procedere alla confisca della licenza di tale imbarcazione volta all’attività della pesca o rifiutare l’entrata in porto di quest’ultima, qualora l'infrazione fosse stata di natura grave.
  • L’ottavo articolo affrontava il caso secondo cui, qualora una nave giapponese o il suo equipaggio avessero violato le disposizioni del presente accordo o di altri trattati, o laddove un membro dell'equipaggio avesse commesso un reato sul suolo coreano, i funzionari consolari giapponesi avrebbero trattato il caso conformemente alle disposizioni degli accordi e alle leggi del Giappone. 
  • Il nono articolo dichiarava che l’accordo sarebbe rimasto in vigore per un periodo di quindici anni a decorrere dalla data della firma e, dopo la scadenza di tale periodo, si sarebbe potuto prendere ulteriori disposizioni di comune accordo.

I firmatari furono sempre: Hayashi Gonsuke, inviato straordinario e ministro plenipotenziario (datato il tredicesimo giorno dell'ottavo mese del trentottesimo anno di Meiji), Yi Ha-Yeong, Ministro di Stato per gli Affari Esteri (datato il 13 º giorno dell'8 º mese del 9 º anno di Gwangmu).

Il trattato del 1907

Il 18 luglio l’Imperatore coreano Gojong fu forzato ad abdicare per via delle sue continue proteste (le lettere ai sovrani stranieri vennero inviate sino al Febbraio 1908), ormai non più sopportabili dal Governo giapponese, il quale decise di far salire al potere suo figlio Sunjong che aveva ai tempi 33 anni. I negoziati del trattato del 1907 vennero conclusi il 24 luglio e gli articoli erano sette: 

  • il primo discuteva di una riforma amministrativa 
  • il secondo trattava delle misure sempre amministrative e delle leggi che, per la loro approvazione, necessitavano dell’approvazione del facente le veci del Governo giapponese in Corea
  • il terzo spiegava che gli affari giudiziari coreani erano differenziati dagli affari amministrativi ordinari
  • il quarto disponeva che i licenziamenti di generali d’alto rango erano solo sotto controllo del Governo giapponese
  • il quinto imponeva che le cariche ufficiali fossero all’ora innanzi scelte dal Governo giapponese
  • il sesto richiedeva che l’assunzione di dipendenti stranieri dovesse essere presieduta dal Governo giapponese 
  • infine, il settimo articolo abrogava la prima clausola dell’accordo dell’aprile 1904. 

Questo trattato poneva, in pratica, l’intero Governo coreano sotto il controllo totale dei giapponesi: il potere di gestire le cariche d’altro rango rendeva l’organizzazione burocratica coreana completamente sottoposta all’egida ed al comando del Governo giapponese. Oltre i sette articoli ufficiali del trattato vennero emanate, ma mai pubblicate, norme altre che rendevano ancora minore l’autonomia coreana: infatti fu tramite quest’ultime che anche l’esercito coreano divenne organo a comando dell’Impero giapponese.

Il trattato del 1910

Il trattato del 1910 sancisce in modo pieno ed ufficiale l’annessione della Corea all’Impero giapponese, giunta dopo molteplici trattati succedutisi nel tempo che limitavano sempre più l’indipendenza coreana. Il 22 agosto del 1910, dunque, ebbero termine i negoziati ai quali fece seguito il ventinovesimo giorno dello stesso mese, all’annessione formale. Il trattato recava otto articoli, ma il primo di questi è quello più emblematico: in esso si dichiarava che tutti i poteri di cui al momento godeva l’Imperatore di Corea, sarebbero stati ceduti completamente e in forma permanente all’Imperatore del Giappone, rendendo così la Corea una parte dell’Impero giapponese, senza più alcun tipo di autorità e identità politica ed istituzionale. Nonostante le speranze del governo giapponese le contrattazioni furono molto difficili; l’imperatore Sunjong, seppur descritto dagli storici come una personalità alquanto volubile, si rifiutò di firmare il trattato, il che portò Terauchi Masatake, allora governatore di Corea, a far sottoscrivere il trattato al Primo Ministro Lee Wan-yong, che aveva un atteggiamento completamente filo-nipponico e firmò senza riserve il trattato di annessione. Questa scelta venne aspramente stigmatizzata dai Coreani, che inserirono Wan-yong nella lista degli otto traditori di Gyeongsul, e venne invece, comprensibilmente, lodata dai giapponesi, i quali lo investirono della paria del sistema di titoli nobiliari giapponesi Kazoku, prima assumendo la carica di conte (hakushaku) nell’anno dieci del ventesimo secolo, per poi essere promosso a marchese (kōshaku) nel 1921.

CONCLUSIONE

Il periodo di dominio dell’Impero giapponese in Corea durò dal 1910 al 1945, concludendosi con la resa nipponica dalla Seconda Guerra Mondiale. 

Durante il dominio la lingua giapponese venne riconosciuta come l’unica ufficiale negli ambiti accademico-istituzionali, il popolo coreano fu forzato a parlare giapponese e tutt’ora nella lingua coreana vi sono dei lasciti di questa normativa; non era possibile produrre letteratura e stampare in coreano portando alla persecuzione di poeti e scrittori. Nonostante un certo processo di modernizzazione che l’Impero giapponese portò alla Corea la storiografia coreana definisce le normative imposte al popolo da parte dei giapponesi crudeli e, con il passare del tempo, sempre più severe e proibitive e gli storici riconoscono generalmente questo periodo come un effettivo periodo di repressione. 

L’ambizione del periodo della restaurazione Meiji giunge il suo picco in questo periodo nella sua forma più esasperata, un popolo che precedentemente ha vissuto i soprusi dei paesi occidentali, che ambisce ad essere forte ed è disposto a tutto pur di diventarlo; una brama di potere cieca che avrebbe dovuto portare all’innalzamento dell’Impero giapponese ed alla sua supremazia, ad ogni costo. 

I trattati che abbiamo posto sotto esame sono specchio di una manovra diplomatica che sin dall’inizio puntava all’annessione della penisola coreana sotto l’Impero giapponese: si è partiti con normative che avevano un carattere quasi di fratellanza per poi concludersi sei anni dopo con un carattere di assoluta supremazia, portando la parte lesa ad assumere un atteggiamento remissivo; si ricordi che nessuna delle potenze occidentali aveva voluto aiutare la Corea o comunque occuparsi di questo caso.

Vi sono delle testimonianze, a mio avviso curiose ed importanti, il cui racconto ci fa meglio comprendere il periodo affrontato per il popolo dominato: una tra queste è quella del poeta coreano Yun Dong-ju, che nella sua raccolta di poesie postume “Cielo, vento, stelle e poesia” esprime una visione malinconica, ed emotivamente trasparente del periodo da lui vissuto.

Arianna Caredda

 

 

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