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Sharasoju

Giappone

Kawase Naomi è regista da sempre attratta dall'aspetto invisibile della realtà (il ricordo, la passione, il dolore...). Questo film, ambientato nel cuore storico della sua città natale (Nara l'antica capitale del Giappone), evidenzia tutta la forza che il pensiero giapponese tradizionale esercita sul suo cinema. In Sharashoju il movimento funziona proprio a partire dal vuoto; e non perché l'assenza fa muovere i personaggi, ma perché Kawase filma il movimento stesso dell'assente. Cinema che riprende lo sguardo di chi non c'è, di chi non è, se non puro sguardo. Senza quindi psicologia, corpo, effige. Al di fuori di questo sguardo senza corpo, di questo sguardo dell'assente (al di fuori di quello che è un trauma e che questo film, per la prima volta in forma romanzesca, cerca di descrivere) non sarebbe concepibile alcun cinema per Kawase. Non ci sarebbe più sguardo, non ci sarebbe più immagine.

SHARASOJU di Kawase Naomi

 

Il terzo film di Kawase Naomi (sarebbe il ventitreesimo se contassimo anche la sua produzione video-diaristica) conferma il percorso di una delle registe contemporanee più coraggiose e coerenti. Shara può essere considerato l'ultimo episodio di una trilogia dedicata alla figura dell'assenza. Dopo il ricordo del padre declinato in Suzaku, dopo le celebrazioni in morte dei nonni di Hotaru, la visione della famiglia come unità fragile e precaria, per lo più irrimediabilmente perduta prosegue con un racconto che tratta della scomparsa di un fratello. Ancor più di questo, Shara è il film che inserisce uno dei nodi del pensiero buddista (Sharasoju significa alberi gemelli, ed è il simbolo dell'impermanenza di tutte le cose) all'interno di un territorio emotivo caro alla regista. Se il pensiero filosofico dell'eterno movimento delle cose informa la visione della vita, la struttura familiare fornisce il quadro in cui tale visione si dispiega. La famiglia è il punto (spesso smarrito) a partire dal quale la linea contraddittoria della vita si srotola.

Quasi a voler proteggere ciò che le è più caro, Kawase racchiude i suoi nuclei familiari in spazi fisici delimitati, creando una salda relazione tra mura di casa, attesa e felicità. Sebbene il suo cinema dia il meglio di se quando agisce in spazi ampi, quando è confrontato con il rito che coinvolge un'intera comunità, e pensando alla dimensione domestica che Kawase predispone le proprie inquadrature. In Shara quando, per l'unica volta, lo spazio si apre ad abbracciare una strada dalle dimensioni normali e l'inquadratura accoglie una scena di massa, il gioco di sguardi e la dinamica dei piani ricostruisce una geometria molto ferrea i cui punti sono come le pareti di una casa: accolgono e delimitano uno spazio affettivo. Non a caso la scena citata è associabile ad una vera e propria danza d'amore, atto che di norma si consuma nell'intimità di uno sguardo condiviso e che qui viene esposto alla presenza di un pubblico partecipe. La stessa sensualità si ritrova anche nella lunga inquadratura iniziale: una lenta perlustrazione del confine esterno di un'abitazione. Un modo per accarezzare quello che, ancora, è un nido felice. Da 1ì, da quel luogo protetto (il cortile di una casa) — senza soluzione di continuità — s'innesta il movimento: la corsa gioiosa di due fratelli, ancora indistinguibili, in cui irrompe il destino. Inopinatamente uno dei due scompare, tanto che viene da pensare ad uno scherzo, ad un'uscita di campo momentanea. Quando pure l'inquadratura è conclusa e una delle pochissime battute di dialogo ci comunica la sua scomparsa, ancora lo aspettiamo spuntare da uno dei bordi del quadro. Sotto questo duplice segno (l'assenza e l'attesa) si pone tutto il film. Shara si sofferma lungamente a descrivere i preparativi della festa della città e la conclusione di una gravidanza. Usa queste due figure d'attesa per descrivere il vuoto lasciato dal gemello scomparso. Non solo la struttura narrativa, ma anche le singole inquadrature sottolineano il peso di quest'assenza: Kawase qui come mai prima d'ora è rigorosa nel filmare lo spazio che il vuoto occupa, in attesa che si rovesci in pieno. Sembra quasi che i personaggi arrivino a percepire, finanche a subire, la presenza di questo vuoto.

La pienezza del vuoto trova nell'assente (in colui che è scomparso e in colui che deve ancora arrivare) una forma sensibile. Una mente occidentale potrebbe leggere Shara come un film statico, un film che attende il miracolo invece l'azione del vuoto impregna tutto il lavoro. L'invisibile non deve scendere dal cielo, ma è tra le cose della terra. Kawase Naomi è regista da sempre attratta dall'aspetto invisibile della realtà (il ricordo, la passione, il dolore...). Questo film, ambientato nel cuore storico della sua città natale (Nara l'antica capitale del Giappone), evidenzia tutta la forza che il pensiero giapponese tradizionale esercita sul suo cinema. In Shara il movimento funziona proprio a partire dal vuoto; e non perché l'assenza fa muovere i personaggi, ma perché Kawase filma il movimento stesso dell'assente. Il suo è un cinema del fantasma. Cinema che riprende lo sguardo di chi non c'è, di chi non è, se non puro sguardo. Senza quindi psicologia, corpo, effige. Al di fuori di questo sguardo senza corpo, di questo sguardo dell'assente (al di fuori di quello che è un trauma e che questo film, per la prima volta in forma romanzesca, cerca di descrivere) non sarebbe concepibile alcun cinema per Kawase. Non ci sarebbe più sguardo, non ci sarebbe più immagine.

Shara dispone in forma estetica ciò che era uno dei centri narrativi nei film precedenti: ossia che i morti non sono semplicemente volati via, scomparsi in un altrove indefinito. Essi sono tra di noi. Sono, a volte, lo spazio o lo sguardo che ci circonda, che ci abbraccia, che ci protegge. E questo abbraccio è ciò che il film può magicamente restituire. Di qui la scelta di campo sempre più marcata operata dalla regista. Non dietro ma davanti la macchina da presa. Prima per interposta persona (l'adolescente in Suzaku, la giovane donna in Hotaru), poi direttamente (è lei la madre Aso in Shara), Kawase è corpo da abbracciare da uno sguardo straniero. Chi vede la realtà della finzione sta da un'altra parte: è di un altro mondo. Il meccanismo narrativo del suo cinema di fiction ha bisogno di un personaggio assente, come una giustificazione diegetica per uno sguardo che altrimenti potrebbe essere confuso con una soggettiva. Fondato sull'opposizione e sull'incontro tra corpo che agisce ed è ripreso e sguardo che non si può mai vedere, il cinema di Kawase trova nella leggenda degli alberi gemelli (alberi spuntati ai quattro punti cardinali alla morte di Sakyamuni) la sua epitome. Attraverso la parabola di Shu e Kei i due gemelli separati dal destino e tuttavia legati ancora da un filo indissolubile, Kawase arriva a mettere in racconto il meccanismo fondante il suo cinema. Come Shu e Kei, corpo e sguardo si oppongono e si rimandano: positività opaca del visibile e negatività rilucente dell'invisibile. Stasi e movimento. Vita e morte. Calma e frenesia. E necessario che l'uno dei due scompaia, perché la danza dei contrari possa aver luogo. E il cinema — questa macchina sovrumana che sa simulare lo sguardo dell'eternamente altro — può così innescare la sua azione.

 

Carlo Chatrian