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Seduzione Suzuki - Una riflessione sull'opera di un maestro del cinema

Giappone

Suzuki Seijun è stato uno dei grandi innovatori del cinema giapponese degli anni '60, ma uno di quelli rimasti più oscuri, anche a causa del boicottaggio operato dalla Nikkatsu. Con Pistol Opera ritorna alla regia dopo uno stop dieci anni, ed è subito culto.

SEDUZIONE SUZUKI- UNA RIFLESSIONE SULL'OPERA DI UN MAESTRO DEL CINEMA


A settantotto anni, con il celebre pizzetto, l'aria gioviale e il sorriso inossidabile, ritorna con Pistol Opera dopo un'attesa decennale il regista Suzuki Seijun, ed è subito culto. La lunga fila che si snoda per l'intera hall del Casino al Lido di Venezia, in attesa della prima proiezione prevista per questa edizione della Mostra, si interroga su quello che, stando al press-book, è il remake del suo La farfalla sul mirino del 1967. Tra la gente che si accalca per entrare in sala, un uomo racconta di non aver avuto modo di vedere nessuno dei suoi film precedenti, mentre un altro lo informa: riferirsi a Suzuki è come parlare di Ōshima o di Imamura, è uno dei maestri giapponesi protagonisti dello svecchiamento del cinema giapponese negli anni sessanta. È il padre del pop-kitsch-yakuza movie, aggiunge un altro, dichiaratamente amato da autori come John Woo, Jarmush e Tarantino. Uno spettatore meno giovane sottolinea la lunga assenza di Suzuki dai festival internazionali, ricordando l'occasione del premio della giuria a Berlino nell'81 per Zigeunerweisen come una delle sue ultime apparizioni in occidente.
 

Quando la porta della Sala Perla finalmente si apre, io accompagno Suzuki nel backstage mentre si prepara per un saluto al pubblico. Prima di salire sul palco, però, si ferma e mi chiede cosa è il caso che dica e se è proprio necessario parlare in pubblico. Gli spiego che bastano poche parole, che in realtà l'occasione è quella di conferirgli la targa che l'omaggia, insieme a Jeanne Moreau e Yusef Shahine, per il suo contributo al mondo cinematografico. Non se lo lascia ripetere, ed ermetico come sempre liquida il suo discorso in una specie di vago saluto e in un paio di battute, prima di concludere con un insolito invito ad assistere alla proiezione del suo film: "Guardatelo con gentilezza, per favore". Inevitabile il sentito scroscio di applausi, Suzuki suscita simpatia per questo suo fare morbido, oltre che per l'età. Ma quando si spengono le luci, un turbine di suoni, colori e ritmi investe la platea, un'energia inattesa su cui si reggono due ore di un'imprevedibile seduzione di immagini.

Lo seguo ancora nei suoi due giorni di permanenza al Lido e l'aiuto con le traduzioni nelle varie interviste. È interessante notare quanta ammirazione e timore allo stesso tempo induca nei suoi interlocutori: nelle loro domande, a una evidente curiosità per l'ermetica visionarietà dei suoi film, sembra aggiungersi una sorta di pudore nell'interrogare il "maestro dei generi" sul perché li decostruisca. A tutti risponde vago e divertito, non ama tentare delle chiarificazioni o ammettere di aver creato uno stile unico che, a distanza di quarant'anni, seppure non più avanguardistico, è ancora in grado di stupire per la sua capacità di rottura. Risponde che per lui il cinema non deve contenere dei messaggi, ma deve rispondere in tutti i sensi alle regole dell'entertainment (nelle sue parole: contenere scene d'amore, di morte e di lotta), che per questo non prova particolare interesse nella composizione dei dialoghi, né nell'intreccio, e tanto meno nell'adesione perentoria a dei cliché. Piuttosto, gli interessa l'impatto visivo disancorato da qualsiasi preconcetto culturale – di spazio, di tempo --, e spiega quindi come, per raggiungere l'effetto di maggiore astrazione, preferisca curare ciascuna scena affinché risulti conclusa e a sé stante, al di là del progetto complessivo.

La mia intervista è l'ultima in programma per questo suo soggiorno veneziano. Abbiamo già discusso per due giorni di gran parte del suo cinema e Suzuki sa che ho seguito (e amato) quasi tutti i suoi film, motivo per cui, credo di capire, è meno evasivo e laconico del solito. Prima della nostra discussione, mi racconta per qualche minuto del periodo Taishō, l'epoca della sua infanzia a cui ha dedicato i tre film precedenti a Pistol Opera, e mi spiega come solo in quegli anni, in Giappone, si fosse creata un'anomala sinergia tra romanticismo giapponese e modernismo occidentale che trovava espressione nel gusto estetico del "mitate", l'apparire, l'essere in quanto immagine.

Ripercorrendo la lunga carriera di Suzuki, in effetti, "l'essere in quanto immagine" è leitmotiv, insieme con una convinta ricerca del "piacere" autoriale e il gusto per una iperstilizzata decadenza. Dopo il suo esordio, avvenuto nel 1956 alla Nikkatsu con il film sugli yakuza Il brindisi del porto - La vittoria a portata di mano (Minato no kanpai - Shori o waga te ni), quando cioè il genere si avviava a una delle sue più fortunate stagioni, se da un lato, con i suoi primi ventisette film, il regista aveva contribuito al consolidarsi dei parametri stessi degli yakuza eiga, a partire dal film La giovinezza di una belva umana (Yaju no seishun, 1963) e ancora con il successivo Il vagabondo di Tōkyō (Tokyo nagaremono, 1966), aveva imbastito una commistione di elementi visivi grotteschi e parodici da cui era nata infine una deformazione dello stesso codice cavalleresco, a favore di una pantomimica dissertazione sulla forma e sul movimento. In qualche modo un eretico, dunque, con delle scelte che gli sarebbero costate care: nel 1967, infatti, venne liquidato dalla Nikkatsu per aver realizzato La farfalla sul mirino (Koroshi no rakuin) in cui, nonostante l'invito da parte della produzione a recuperare la rigidità dei codici, aveva ulteriormente "deviato" e teatralizzato il mondo della malavita attraverso una rappresentazione di matrice prevalentemente coreografica.

È impossibile non ricordare, seppure brevemente, altri suoi titoli celebri, tra i quali l'erotico La porta del corpo (Nikutai no mon, 1964), il dittico sulla guerra e sul fanatismo bellico Vita di una prostituta (Shunpu den, 1965) e Elegia del combattimento (Kenka ereji, 1966) e, ancora sul mondo degli yakuza, Una generazione di tatuati (Irezumi ichidai, 1965). Segnalerei tuttavia tra le sue opere più complesse quelle che formano la già citata "trilogia Taishō", cioè Zigeunerweisen (Tsuigoineruwaizen, 1980), Il teatro delle illusioni (Kagerōza, 1981) e Yumeji (id., 1991), in un certo senso tre esempi di ricerca dell'identità che viene infine "irrisolta" in questo nuovo film. Dalla trilogia, Pistol Opera recupera anche gran parte del linguaggio onirico, l'enfasi dedicata a quanto è effimero e dissonante, la prevalente matrice cromatica e la sostanziale quintessenza del movimento. Lo stesso romanticismo da Sturm un Drang espresso nei quadri di complessa tessitura pittorica di quelle tre opere, rivive in alcune sequenze del nuovo film in immagini fissate come su tela all'interno di una geometria visualmente essenziale e del tutto antinaturalistica.

La scelta di incarnare nella protagonista gli stereotipi virili del genere yakuza e allo stesso tempo gli accordi erotici di un certo pink, va da sé, non solo richiama l'interpretazione degli oyama, gli attori specializzati in ruoli muliebri del kabuki, ma si rivela anche uno dei tanti stilemi di comicità del racconto. Un umorismo ancor più rafforzato – il solito contrasto alla Suzuki – dalla quasi totale assenza di espressioni facciali, la maschera esaltata poi maggiormente nell'immagine degli attori di buto che appaiono nel corso del duello tra le due donne. Ritrarre i personaggi quasi sempre disorientati in uno spazio esageratamente ampio o in parte filtrato da pareti di carta giapponese, è uno degli elementi teatrali preponderanti in questo come nei precedenti film. Una sensazione accentuata dall'uso di ombre che ricordano in qualche caso i kurogo, i burattinai vestiti di nero che animano le marionette nel teatro bunraku, oltre che dall'apparizione di piccoli animali come uccelli e farfalle e dall'utilizzo di tende, in questo caso elementi tipici delle performance kabuki.

In Pistol Opera, la composizione di un proscenio ideale si attiene anche ad alcune scelte geometriche ricorrenti, in particolare alla ripartizione dello spazio per mezzo di elementi di arredo distribuiti in senso orizzontale e verticale negli interni (porte, verande, e quant'altro), in contrapposizione alla marcata obliquità degli elementi strutturali (strade, rive) con cui delimita l'ampiezza degli esterni. Una geometria giustificata dal vettore esistenziale di cui Suzuki parla nella nostra intervista, quello che descrive cioè il movimento della vita da sinistra a destra, al cui interno si snodano oblique vicissitudini.

Del palcoscenico, soprattutto, Suzuki importa l'artificialità delle fonti luminose e l'utilizzo di un certo numero di varianti di alcuni colori primari. E' tuttavia evidente che al regista non interessa solo il teatro giapponese, ma anche le possibili contaminazioni occidentali che ne permettano la mistura tra sacro e profano. Da qui l'effetto offerto dall'anacronismo musicale di base, deviato per genere e per ritmo rispetto alle immagini, e costantemente rivoluzionato nel corso del film.

Che Pistol Opera racconti di una killer (la numero tre) impegnata a eliminare il numero uno nella gerarchia dei sicari, quindi, sembra non essere così rilevante. Se di divertissement si tratta, tuttavia, è comunque indiscutibile che pochi autori saprebbero rendere con analoga agilità un corredo visivo altrettanto complesso e allo stesso tempo accattivante. Nonostante il pessimismo di Suzuki che, alla mia domanda su quali siano i suoi progetti futuri, ha risposto di non credere di ottenere presto nuove proposte da una produzione giapponese, bisogna sperare che il suo "esilio cinematografico", questa volta, sia più breve del solito.

Maria Roberta Novielli