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Nipponica

Giappone

Estremo, violento, autoritario, autodistruttivo, capace di folgoranti esplosioni adrenaliniche e poi di lunghe pause contemplative, il nuovo cinema giapponese è oggi la contro-proposta più efficace alle scuole europee. Particolarmente interessante è Kichiku dai enkai di Kumakiri Kazuyoshi, complesso amalgama di violenza e sesso, presente e passato, sentimento religioso e dichiarato ateismo.

NIPPONICA

Giappone estremo, violento, autoritario, autodistruttivo, quello visto a Torino. Improvviso come solo i neonati sanno essere: capace di folgoranti esplosioni adrenaliniche e poi di lunghe pause contemplative. Che la cinematografia nipponica sia una delle realtà più vive nel panorama odierno è cosa risaputa. Da tempo festival come Rotterdam o Locarno stanno conducendo un accurato lavoro di presentazione di questa complessa e articolata realtà; non è dunque un breve omaggio come quello previsto dal Torino Film Festival l'occasione migliore per tratteggiarne un ritratto. Il nuovo cinema giapponese non ha bisogno di consacrazioni, ma di letture attente. Troppo eterogenea è la realtà nipponica per essere abbracciata in distinzioni e categorie. Anche all'interno di uno stesso genere o di una medesima tipologia (il film d'adolescenti, a cui tutti i film visti a Torino si ispirano) si assistono a prove molto discontinue. L'omaggio torinese era dedicato ai giovani autori (a parte Shiota Akihiko sono tutti under trenta), ma l'uguaglianza di età non ha ripercussioni dal punto di vista artistico. A fianco di opere già mature (Gekko no Sasayaki di Akihiko) se non accademiche (Love/Juice) ce ne sono altre completamente sbilanciate (IKU o Kichiku dai enkai). 
 

L'impressione - ma ogni giudizio complessivo deve essere preso con le molle - è di aver visto una produzione in buona parte debitrice di prototipi narrativi o visivi già impiegati altrove. Probabilmente il nuovo cinema giapponese è interessante proprio nella sua completa anormalità, nel suo essere la contro-proposta più efficace alle scuole europee (tanto quella inglese, autrice di una precisa definizione dei personaggi, quanto quella della narrazione ellittica dei nostri colleghi transalpini); tuttavia se si fosse scelto di andare verso un'effettiva soluzione "underground" sarebbe stato più efficace mostrare gli "original video" (quei filmati amatoriali, girati nell'estrema urgenza anche da autori affermati, in dv per il mercato delle videoteche).

Per quel che si è visto a Torino riteniamo che anche la situazione giapponese non sia esente da un criterio autoriale. Alcune opere hanno mostrato talenti nuovi, altre denotano una seria professionalità, altre ancora sono semplicemente frutto dei tempi. La risposta di un gruppo - che offre (sebbene in maniera polimorfa) un'originale visione della realtà e un originale modo di raccontarla - non c'è stata. Troppo superficiali sono sembrate le letture proposte, tanto che a volte (19 o Love/Juice) rischiavano di cadere nel più anonimo tentativo di aggiornare il film di genere. La profondità del pensiero di Naomi Kawase (anch'essa sulla soglia degli anni trenta e stranamente ignorata dalla selezione) o la follia di Miike Takashi appartengono ad un altro pianeta rispetto ai film visti. Tuttavia, senza arrivare a casi che noi riteniamo veri e propri autori da analizzare, esistono nel mercato giapponese singoli casi che testimoniano la qualità e non solo la vitalità del Giappone (noi ricordiamo per esempio Boy's Choir visto al mercato di Cannes un anno fa).

Un solo film ci è sembrato meritevole di un'attenzione particolare. Kichiku dai enkai porta alle estreme conseguenze un discorso presente a vario titolo in quasi tutte le opere. Quell'amalgama di violenza e di sesso, di presente e di passato, di sentimento religioso e di dichiarato ateismo che struttura l'oratorio funebre predisposto da Kumakiri Kazuyoshi è senza dubbio una delle visioni più forti che Torino ci consegna. Per una volta il film riesce a trarre vantaggio dalla sostanziale incapacità a raccontare una storia (intesa come evoluzione di un gruppo di personaggi), che sembra essere la più pesante eredità del magistero di Takeshi Kitano. Laddove le altre opere giocavano d'astuzia e con capriole ribaltavano situazioni improponibili in altrettanto inverosimili esiti, Kazuyoshi crea un'opera come si traccia una linea retta. Porta alle estreme conseguenze una situazione che è già data in partenza. Dal suicidio di un capobanda (al tempo stesso un caso individuale ed un avvenimento simbolico) alla progressiva eliminazione di tutti i componenti del gruppo non c'è scarto né variazione. Kichiku dai enkai abbandona in maniera drastica ogni rappresentazione verosimile o anche solo prossima alla realtà attuale giapponese, per inserire la sua parabola in un orizzonte mitico. Nulla accade nel film se non la progressiva scomparsa dei suoi personaggi, secondo forme sempre più violente e drastiche.

Da tempo il cinema giapponese si interroga sul tema della morte e della scomparsa dell'uomo (oltre ai film di Kitano e Tsukamoto ricordiamo Maboroshi e After Life di Koreeda); Kichiku dai enkai conferma che questo è uno dei soggetti più vivi e fecondi nella realtà nipponica odierna.

Carlo Chatrian