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Modernità del Wuxiapian

Hong Kong

Il wuxiapian, influenzato dai maestri King Hu e Zhang Che, resta ancora oggi tappa imprescindibile per i registi hongkonghesi, dimostrando la sua modernità.

MODERNITÀ DEL WUXIAPIAN

Che il wuxiapian, come il western per i cineasti americani, sia una sorta di passaggio rituale per i registi di Hong Kong (e non solo) alla luce di La tigre e il dragone assume i connotati del luogo comune. Se infatti Zu:Warriors of the Magic Mountain di Tsui Hark rilancia prepotentemente il fantastico tradizionale nel cuore stesso della New Wave hongkonghese in cerca disperata di un'identità anche commerciale e contrattuale (e non a caso Tony Rains imputa a Tsui l'aver spinto il movimento tra le braccia dell'industria), è pur vero che il genere, nonostante il monopolio esercitato su di esso dai fratelli Shaw, non era stato mai stato messo in discussione come patrimonio mitologico ed estetico ma solo rifiutato nelle modalità produttive attraverso le quali era stato sino ad allora praticato. Non è un caso che un capolavoro misconosciuto come Sword di Patrick Tam, realizzato nel 1990, ruoti non solo intorno alla funzione mitopoietica della spada (proprio come il film di Ang Lee) ma ripensi la tradizione del genere alla luce delle nuove urgenze formali e stilistiche sorte con la New Wave. Tam, regista nel cui cono d'ombra è cresciuto Wong Kar-wai, rielabora il genere attraverso la sua profonda conoscenza della cultura giapponese e radicalizzando quella fascinazione per lo spazio vuoto che il tardo King Hu aveva sviluppato con immenso acume formale. Anche Tam però, soprattutto nel finale, non può trascurare l'influenza dell'estetica del sangue di Zhang Che (mentore di John Woo) che al wuxiapian, soprattutto con la trilogia dello spadaccino monco (cui Tsui Hark avrebbe reso omaggio con The Blade), ha impresso la sua impronta indelebile (complice Lau Kar-leung e il suo genio coreografico).

Ma il 1990 è anche l'anno di Swordsman, primo capitolo di una trilogia voluta da Tsui Hark che avrebbe dovuto sancire il ritorno di King Hu dietro la macchina da presa. Ma tra King Hu (nato a Pechino il 1931 e scomparso il 14 gennaio del 1997 a Taipei) e Tsui Hark si scatenano ben presto conflitti insolubili che conducono all'abbandono del set da parte dell'anziano maestro. Nonostante la regia del film sia accreditata a ben cinque registi (King Hu, Ching Siu-tung, Tsui Hark, Ann Hui On-wah, Raymond Lee Wai-man e Andrew Kam Yeung-wah) il successo del film è tale che della serie vengono messi in cantiere altri due episodi. Swordsman 2 è probabilmente l'apoteosi del genere. Interpretato da Jet Li, il film è un delirio di eleganza coreografica che sancisce una volta per tutte il genio di Ching Siu-tung (senza contare tutto il sottotesto che ruota intorno alle questioni delle identità sessuali). Se dunque Tsui Hark rivitalizza il wuxiapian come una sorta di risposta autoctona allo strapotere dello spielberghismo, Wong Kar-wai, nel 1993, attraverso Ashes of Time decide di fare i conti con la propria formazione culturale costruitasi in parte sull'ascolto di fluviali drammi marziali radiofonici. «In Ashes of Time ho cercato non solo tutto quello che avevo compreso visto e letto in materia di kung fu, ma ho anche tentato una sintesi dei differenti stili di scrittura e di messa in scena. Sono due gli scrittori che hanno avuto su di me un'enorme importanza: Jin Yong (autore de L'arciere valoroso, 1958) naturalmente, ma anche Gu Long, uno scrittore taiwanese dalla scrittura più moderna in contrasto con lo stile tradizionale di Jin Yong. Per quanto riguarda le sequenze di combattimenti, alcune le ho girate nello stile dei film di arti marziali giapponesi, altre si ispirano a Zhang Che, celebre per i suoi duelli di "un solo giusto contro cento alla conquista del potere", altre ancora le ho realizzate inserendo degli elementi di kung fu fantastico in cui i combattenti volano per aria».

Modernista e critico l'approccio al genere di Wong, sincretico e spettacolare quello di Tsui Hark che comunque ben delinea le differenze tra King Hu e Zhang Che, i maggiori esponenti del wuxiapian: «King Hu era senz'altro un regista molto più sofisticato nel senso che attribuiva molta importanza alla storia. Dedicava molto tempo allo studio dei dettagli, dei costumi d'epoca, addirittura all'analisi della mentalità dell'epoca nella quale ambientava i suoi film. Al contrario Zhang Che è una persona molto romantica. Ha infuso nei suoi personaggi un atteggiamento più semplice, più moderno. Questa, secondo me, è la differenza fondamentale tra King Hu e Zhang Che. King Hu è come uno studente molto sofisticato, mentre Zhang Che è una persona più diretta, più viscerale, autoindulgente. Un regista romantico. È come se lavorassero l'uno contro l'altro pur frequentando i medesimi territori. Per quanto mi riguarda, li amo entrambi perché il loro lavoro ha significato moltissimo per me e per tutti i registi di Hong Kong. L'influenza dello stile di King Hu è evidente ancora oggi in moltissimi film». Tra l'altro le differenze di stile dei due maestri andrebbero indagate anche nel lavoro coreografico svolto da Hung Jing-yie per King Hu e da Lau Kar-leung per Zhang Che. Se il primo è riconosciuto universalmente come un pioniere nell'utilizzo dei trampolini elastici (evidente in A Touch of Zen) oltre che per aver interpretato il sanguinario Big Boss di Il furore della Cina colpisce ancora, che impegna Bruce Lee nel drammatico finale del film di Lo Wei, il secondo rappresenta senz'ombra di dubbio la quintessenza del modernismo tradizionalista del cinema di arti marziali. Sono loro infatti i precursori dei vari Ching Siu Tung e Yuen Woo-ping e di ciò che infiamma (attraverso la mediazione Matrix) gli schermi Usa. Ed è in questo rapporto fecondo con la propria tradizione che il cinema di Hong Kong (passato dal classicismo direttamente alla sua fase postmoderna) è riuscito a incarnare con lucida (in)consapevolezza uno degli snodi più entusiasmanti delle metamorfosi dell'immaginario collettivo contemporaneo. Come spiegarsi d'altronde la presenza ne La tigre e il dragone di Chang Pei-pei, definita a suo tempo «regina del wuxiapian» e probabilmente una delle migliori attrici di arti marziali di tutti i tempi, se non come il persistere dell'irriducibile modernità della tradizione del cinema di arti marziali hongkonghese?

Note
Silvio Alovisio, Carlo Chatrian (a cura di), Le ceneri del tempo. Il cinema di Wong Kar-wai, TraccEdizioni, Piombino (Li), 1997, p.50.

Giona A.Nazzaro, intervista inedita con Tsui Hark.

Giona A. Nazzaro