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L'imperatore e l'assassino - CH'IN

Cina

Dall'autore di Addio mia concubina, Chen Kaige, il film Ch'in del 1999 rappresenta un nuovo capitolo di un cinema dedicato alla Storia e al suo ineluttabile destino.

Titolo originale: Ch'in. Regia: Chen Kaige. Sceneggiatura: Wang Peigong, Chen Kaige. Fotografia: Zhao Fei. Montaggio: Zhao Xinxia. Musica: Zhao Jiping. Scenografia: Ti Juhua. Costumi: Mo Xiaomin. Interpreti: Gong Li (Lady Zhao), Zhang Fengyi (Jin Ke, l'assassino), Li Xuejian (il re di Qin, primo imperatore), Sun Zhou (il principe di Yan), Lu Xiaohe (il generale Fan Yuqi), Wang Zhiwen (il marchese), Chen Kaige (il primo ministro Lu Buwei), Gu Yongfei (la regina madre), Ding Haifeng (Qin Wuyang). Produzione: Chen Kaige, Shirley Kao, Satoru Iseki per New Wave Co./Beijing Film Studio. Distribuzione: Medusa. Durata: 163'. Origine: Cina, 1999.

Nel III sec. a. C. il re di Qin sta portando lentamente ma risolutamente avanti il processo di unificazione della Cina. Persuasa dalle parole del futuro imperatore, che vorrebbe portare a termine il proprio progetto per il bene comune del popolo preservandolo il più possibile da spargimenti di sangue, la sua amante Lady Zhao decide appoggiarlo nell'impresa. Resasi tuttavia conto della reale crudeltà del sovrano, Lady Zhao architetta un complotto assieme al re di Yan e al sicario Jing Ke, che da tempo ha sospeso l'attività e che nel frattempo si innamora, ricambiato, della donna. Il complotto tuttavia fallisce e nel 221 a. C. la Cina diventa un unico impero

(...) Come già avveniva in Addio mia concubina, film con il quale le analogie si fanno numerose e profonde, e nonostante le sontuose e magnifiche scene di battaglia, l'attenzione e l'interesse ruota tutto attorno ai singoli protagonisti di questo dramma storico, come ben sottolineano i capitoli che scandiscono il film. Ancora una volta la Storia e il suo ineluttabile destino, pur costantemente presenti, vengono evocati come entità metafisiche e superiori, ritornello ossessivo e martellante a cui gli individui tutti, a qualsiasi rango appartengano, devono piegarsi, piuttosto che oggetto dell'immediato interesse dell'autore. Contrariamente ai grandi eroi tragici dello Shakespeare più maturo, a cui lo stesso Kaige fa esplicito riferimento, da Otello a Re Lear, e analogamente invece all'Ivan di Eisenstein, il dramma del re di Qin, futuro primo imperatore della Cina, non risiede tanto nella sua cecità, nell'incapacità cioè di leggere la realtà che lo circonda senza esserne prima sopraffatto, ma paradossalmente nell'esserne, suo malgrado, fin troppo lucidamente consapevole, nella sua eccessiva capacità di leggere nella Storia. Esattamente come Ivan, allora, anche il re di Qin, come ci viene ricordato sin dalla sequenza d'apertura, sa che, in una visione a lungo termine, il bene del suo popolo non può che risiedere in una Cina finalmente unita, meta perseguita non per ambizione personale o sete di potere, ma perché così sta scritto, anche se ciò imporrà perdite mai più recuperabili sul piano personale ed enormi fiumi di sangue su quello umano. La tragedia nasce allora da questo piegarsi ad una volontà superiore a cui non è dato sfuggire, alla maschera che definisce il nostro ruolo (qui quello di guida politica, in Addio mia concubina quello di donna che dal teatro non può che trapassare nella vita), marchiata a fuoco sul volto. Il ritorno del gioco speculare, allora, tutto costruito sulla figura del doppio (in questo caso l'assassino come chiaro alter ego dell'imperatore), arriva a svilupparsi lungo un percorso incrociato e ribaltato, in cui al destino di redenzione del primo si affianca e succede quello di dannazione del secondo.

Ciò che tuttavia manca a L'imperatore e l'assassino per diventare la grande tragedia umana e storica che avrebbe potuto essere è, come si è anticipato, l'eccesso decorativo ed estetizzante a cui è sottoposta la messa in scena, dove tutto rimane rigorosamente sullo sfondo, per cui, nonostante il largo dispendio di mezzi e l'uso massiccio di luci contrastate, Kaige non si avvicina nemmeno lontanamente all'uso memorabile che Eisenstein fece dello spazio, degli elementi scenici, del volto degli attori. Questi, in realtà, non faceva che portare avanti la grande lezione linguisticoespressiva appresa nel cinema muto e ad essa adeguarvi la parola, laddove Kaige sobbarca quasi esclusivamente quest'ultima dell'arduo compito di esprimere il dramma introspettivo dei personaggi, condannando simboli e caratteri del proprio film a involuzioni contorte e poco credibili, mentre agli spettatori non rimane che la noia.

Nico Guidetti