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L'estate di Kikujirō - Kikujirō no natsu

Giappone

L'estate di Kikujirō è un film che fa ridere, ma con elementi di un pessimismo atroce, tipicamente kitaniani. Niente di nuovo, per chi ha ascoltato le voci che, quasi unanimemente, hanno accostato il film alle opere di Chaplin.

L'ESTATE DI KIKUJIRŌKikujirō no natsu

 

Regia e Sceneggiatura: Kitano Takeshi. Fotografia: Yanagishima Katsumi. Scenografia: Ozeki Tatsuo. Costumi: Iwasaki Fumio. Suono: Horiuchi Senji. Musica: Joe Hisaishi. Montaggio: Kitano Takeshi, Ota Yoshinori. Interpreti: "Beat" Takeshi Kitano, Sekiguchi Yusuke, Kishimoto Kayoko, Yoshiyuki Kazuko. Produzione: Office Kitano. Distribuzione: Bim Origine: Giappone, 1999. Durata: 116 minuti.
 

Che Takeshi Kitano faccia anche ridere, è un corollario non soltanto del suo film comicamente più esplicito, Getting any?, ma di tutto il suo cinema. È una comicità "immobile". E questo potrebbe sembrare un paradosso, dato per scontato (ma non è sempre valido) che il riso derivi dal movimento intrinseco del gag, ovvero dagli sconvolgimenti di un corpo - attoriale, immateriale, linguistico - rispetto all'ambiente circostante, contro il quale si friziona. Eppure Kitano, anche nei suoi film di mafia, sangue e proiettili, non nasconde certo che la tragicità del caso, la predestinazione e la confusione delle cose posseggano una certa idiozia comica; e lo dimostra con strumenti grammaticali noti, come il primo piano, il piano sequenza a camera fissa o l'ellissi. L'estate di Kikujirō continua su questa strada, e nello stesso tempo fa un altro passo: circonda la storia di materiali comici apparentemente comuni, ma che, al tirar delle somme, risultano terribilmente neri. Perché quando Masao e Kikujirō alla fine si salutano, non è cambiato un bel niente: Masao è ancora solo e senza madre, Kikujirō anche.

Entrambi su strade differenti e non più intersecantisi. L'estate di Kikujirō è dunque un film che fa ridere, ma con elementi di un pessimismo atroce, tipicamente kitaniani. Niente di nuovo, per chi ha ascoltato le voci che, quasi unanimemente, hanno accostato il film alle opere di Chaplin. Ma in L'estate di Kikujirō non c'è, a guardar bene, progressione. Si arriva certo a un punto in cui i due protagonisti sono messi di fronte all'oggetto diegetico del viaggio (la visione a distanza delle due madri), ma complessivamente il film consta più di accumuli, per arrivare a dire, come nelle opere precedenti, che il mondo, gli uomini (e i bambini), gli eventi non hanno più un verso prestabilito, ovvero quello che noi vorremmo dar loro. Il mondo di Kitano fa dunque ridere perché non ci si ritrova più, non si capiscono le cose e non si riesce a dare un nome agli elementi che si presentano. Si gioca e si interagisce con esso, certo, ma non lo si modifica né lo si comprende, mossi da un mondo in cui non ci sono più rapporti di causa e effetto, ma soltanto addizioni senza risultato, che non sia la confusione. Che poi è esattamente il mondo messo in scena dalla comicità cinematografica che vale, ovvero quella che dà un'idea di esso, e non si limita a rovesciarne la direzione per constatarne l'effetto. L'estate di Kikujirō è un film comico non soltanto per i personaggi o le situazioni contenuti, ma perché ci fa vedere quanto ormai la vita ci prenda in contropiede, negandoci soluzioni e sensi. Allora, non ci resta che ridere. O morire, come negli altri film del regista. Piangere non serve.

I personaggi di L'estate di Kikujirō hanno la forza di non chiedersi ragioni. E non è poco. Non agiscono, non si muovono, non cercano: ci sono, e basta. E ci scherzano sopra. Poi, come sono apparsi, scompaiono. Ed è un piccolo morire: non fisico-materiale come nei "noir" del regista giapponese, ma in ogni caso un allontanamento (il che non è altro che un ritorno da dove erano giunti, il nulla). È un'idea di mondo che lascia due sole vie di fuga, una definitiva - la morte - l'altra momentanea - il riso, liberamente scemo, grossolano, elementare. Il più naturale possibile. Quello che deriva, appunto, dall'ordine sconnesso della vita. Senza filtri, senza motivi: pessimismo distillato. L'accumulo kitaniano non è quello zuckeriano di Una pallottola spuntata, che satura e poi fa esplodere. In L'estate di Kikujirō non c'è saturazione, perché non c'è niente da saturare. Non si tratta di riempire un contenitore dai confini determinati e tirarlo fino alla catastrofe. Tanto per intendersi: non è come il ciccione di Monty Python -Il senso della vita, che continua a ingoiare fino a scoppiare. In questo caso, c'è già un corpo enorme, che viene rimpinguato fino alla lacerazione: e la metafora è diretta e limpida. Nel film di Kitano, invece, non viene dato un corpo definito, ma qualcosa di cui non si riesce a stabilire il perimetro. Dunque, non si arriva alla catastrofe.

L'accumulo non porta ad alcun risultato. Non c'è aumento di volume, perché in partenza non abbiamo nessun volume calcolabile. Gli elementi che vengono immessi, anche se numerosi, non hanno influenza sulla capacità dello spazio in cui sono posti. Le cose non si spostano di un millimetro. E sta qui tutta la tragicità e il pessimismo di un film pieno di riso come L'estate di Kikujirō: qualsiasi cosa facciano i personaggi, o qualunque personaggio si aggiunga, il mondo rimane sempre quello di prima, e gli uomini pure, disillusi, dolenti, consapevolmente soli. L'infinità della tragedia kitaniana è la consapevolezza dell'inutilità di ogni impegno e proposito a mutare la predisposizione delle cose. Masao può anche scordare il dolore di fronte all'idiozia di Kikujirō e gli altri adulti, ma è soltanto un attimo, e tutto si chiude dentro gli stretti confini, questi sì tristemente determinabili (perché brevi, o comunque misurabili), del gag. Non è una questione di ridere a denti stretti, perché quando lo si fa, in L'estate di Kikujirō, ci si sganascia. Ma è il dopo che conta, quando il film finisce e si deve pensare di cosa abbiamo riso. Non sono conclusioni felici. Come quelle a cui si arrivava quando, nei precedenti film di Takeshi Kitano, ci si chiedeva perché si doveva morire.

Pier Maria Bocchi