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La poetica dell'intimo - IL CINEMA DI KAWASE NAOMI

Giappone

Kawase Naomi, ovvero il cinema come assoluto bisogno di filmare, come atto che reintroduce alla vita. Dai filmati sperimentali in super8 ai più maturi Moe no Suzaku (Suzaku, 1997) e Hotaru (Lucciole, 2000), l'evoluzione di un linguaggio poetico che nasce dal pudore estremo con cui la mdp, mossa da un occhio mobile e inquieto, ritrae la vita.

LA POETICA DELL'INTIMOIl cinema di Kawase Naomi

 

Per Kawase Naomi, il cinema è una questione personale. Direi di più, una questione di vita o di morte. È questo che ne fa la sua forza, dando a chi lo vede la convinzione di assistere a qualcosa di necessario e di vitale. Questo assoluto bisogno di filmare, come un feticcio complementare del vivere e al tempo stesso come un atto che reintroduce alla vita, si ritrova sino dall'inizio nei suoi film sperimentali, al tempo della scuola d'arte in cui fece le sue prime esperienze con la macchina da presa (il titolo del suo primo lavoro in super8, la cui traduzione dal giapponese suona più o meno così: "Metto a fuoco le cose che mi interessano" sembra illuminante, nella sua enunciazione di un lavoro a venire), ma viene fuori in tutta evidenza nei due documentari con cui la regista giapponese si è imposta all'attenzione internazionale nel corso degli anni 90, Ni tsutsumarete (Abbracciando, 1992) e Katatsumori (Lumaca, 1994). Braccando in entrambi i casi dei soggetti essenziali - la ricerca del padre, che non ha mai conosciuto, e il rapporto con la nonna, che l'ha cresciuta - la cineasta si immerge (e ci immerge) in un tourbillon di immagini e suoni, che sfuggono a ogni logica precostituita, ma si piegano al senso imposto da un montaggio poetico. La forma scelta è quella del collage: si passa dalle cose della vita quotidiana alle persone, dalla memoria contenuta nelle fotografie ai luoghi che ancora ne conservano il fantasma, dai desideri incerti, che ondeggiano nel vuoto dell'inquadratura, alla concretizzazione sonora della verità. La macchina da presa di Kawase, incollata a un occhio mobile e incurante della composizione estetica, si muove in maniera sporca e talvolta quasi banale, nell'attesa che il vero tema che abita il suo lavoro (la stoffa di cui è fatta la vita) prenda forma e si manifesti sullo schermo (anche sotto forma di fantasma, appena evocato e subito distante). Nei due film il miracolo avviene quasi inavvertitamente, sorgendo spontaneo dall'accostamento di immagini e suoni, nella flagranza di un'intimità (e nella distanza, che l'autrice si sforza di mantenere rispetto alle cose del mondo), che è la forza del suo cinema. Qui l'organico e l'inorganico convivono e sono l'uno il ricettacolo dell'altro, mentre la natura indica la via e impone il suo ritmo pacificante alle ansie del cuore. Sovente si ha l'impressione che Kawase si domandi "Perché filmo?" e cerchi nell'atto stesso del suo filmare la risposta. In questo procedere a tentoni, allo stesso tempo cocciuto e esitante (come spesso è di chi procede con il cuore e con la mente in tumulto), i momenti, in cui tutto si fonde in un abbraccio, sono di una forza emotiva da lasciare senza fiato. Essi stanno disseminati lungo il corso delle pellicole, anche se per ragioni di climax alcuni sono più evidenti di altri.

Per esempio è quasi inavvertibile in Ni tsutsumarete l'immagine (ai limiti del subliminale) di una foto ingiallita della madre con lei bambina, che si staglia e subito sfuma in dissolvenza, mentre si parla del padre e si mostrano vecchie lettere (segno di un'unione, incompiuta e irrealizzabile, viva nel fuori campo, nella vicinanza dell'affetto e nella lontananza dei corpi); così come si fa caso a malapena - e nel corso di ripetute visioni del film - a frasi pronunciate fuori di ogni logica (quasi associazioni inconsce): come quando, visualizzando una strada di Kobe, la voce dice "Nell'estate del 1968, durante una calda e umida estate come questa, i miei genitori erano qui" e noi colleghiamo la frase alla data di nascita di Kawase (30 maggio 1969, detta in precedenza nel film) rendendoci conto con un brivido che la cineasta sta rievocando - senza dirlo - il momento del suo concepimento. Questo desiderio di "nominarsi" - di darsi un nome e, con questo, la certezza di esserci (spesso Kawase si chiede "Chi è Naomi in cerca del suo passato?) - evidente non solo nel sonoro, ma anche nel contrasto fra la compostezza della fotografia (regno dell'equilibrio e del compiuto) e il movimento ansioso della cinepresa (in cerca di sicurezze), fra immagini di lei che cerca e altre di lei bambina (una ricerca condotta fondendo uomini e cose, filmati sempre alla stessa distanza, ovvero in dettaglio, quasi fosse una precisa volontà di penetrare l'anima del mondo), trova una concretizzazione nel finale, dopo che la voce ha scandito i luoghi abitati da un genitore sempre in movimento, quando il contatto ha luogo, ma Kawase preferisce lasciarlo fuori campo, filmando il vuoto e sovrapponendovi la registrazione di una chiamata telefonica nella quale si incrociano, incerte e sorprese (quasi attonite, nella loro commozione) le voci di padre e figlia.

Allo stesso modo in Katatsumori Kawase filma la nonna e il suo rapporto con lei, in un'intimità racchiusa fra casa e giardino. Qui il tempo di persistenza delle immagini è alto e la cineasta è sempre presente nelle inquadrature con la sua ombra, la sua voce e i dettagli del suo corpo (mani, viso, piedi), in una prossimità, che è non solo segno di parentela ma anche di amore profondo. Si veda anche qui il momento sublime in cui si rivela il tutto. La nonna, con cui Kawase gioca in una rispondenza non solo verbale ma anche visiva (la vecchia signora talvolta la filma, come un rimando dell'atto di essere filmata), viene inquadrata da lontano, attraverso il vetro di una finestra, mentre lavora nell'orto. La sua voce si incide sulla colonna sonora, in un oversound fuori dal tempo e dallo spazio. Dopo averle detto che aspetterà con comodo di vedere i suoi figli (in fondo, lei ha ancora da vivere gli anni che le hanno lasciato i fratelli, morti molto più giovani di lei), ricorda l'infanzia e la giovinezza della nipote ("Naomi, sei una ragazza dal carattere forte. Sono contenta che tu sia cresciuta bene. Hai studiato molto e ora insegni nella stessa scuola di fotografia da cui sei uscita") e poi improvvisamente mormora: "Non so come chiedertelo... mi vuoi bene, come io ne voglio a te? Non mi dici mai niente...". Le parole sono accompagnate dal gesto di Kawase, che sul vetro ne accarezza la silhouette. Subito dopo il montaggio, di un pudore estremo, passa oltre, bloccando l'emozione al suo nascere.

Questo procedimento, questo tentativo di riconciliazione di corpo e anima col passato, è ulteriormente evidente nei film successivi della regista giapponese. A partire da Somaudo monogatari (Il paese aperto, 1997), dove la vita di una piccola comunità di montagna è raccontata attraverso un accostamento quasi tattile a uomini e cose. Kawase filma personaggi isolati dal mondo: non solo per ragioni geografiche, ma anche perché la vita si è incaricata di spogliarli lentamente di ogni speranza. Tuttavia essi vivono nel loro ambiente in una contiguità con la natura che è la loro salvezza. In fondo per Kawase, senza questo cordone ombelicale con la terra, l'uomo resta privato del suo equilibro e non è più niente. Non è un caso se il film successivo Moe no suzaku sviluppa questo tema, partendo da un soggetto quasi simile, ma secondo i moduli della fiction, che permette di amplificarne la portata in termini di metafora - anche se la regista non si affida del tutto alla fiction, ma usa i corpi e i volti delle persone del luogo (tutti attori non professionisti) attuando la pratica documentaria di non incominciare a girare fino a che la troupe non si è del tutto inserita nella comunità. Qui l'isolamento e la rottura di un equilibrio antico sono evidenziati sia dalla storia di una galleria mai compiuta (che avrebbe dovuto mettere in contatto il paese, chiuso fra le montagne, con il resto del Paese) sia dalla fuga-emigrazione cui sono costretti prima o poi tutti gli abitanti del villaggio. Film zen sul vuoto che sottende ogni vita, sulla fragilità delle speranze e delle emozioni umane di fronte all'esistenza (ma anche sulla loro resistenza, sotto forma di ricordi, di nostalgia) Moe no suzaku, attraverso l'uso del medio tele e di movimenti di macchina ridotti all'essenziale, si avvicina e al contempo si tiene distante dal soggetto filmato (procedimento usuale di Kawase), rievocando così il peso della memoria, allo stesso tempo presente e irraggiungibile.

Anche il documentario successivo non si discosta da questa "tecnica dell'intimità", nel momento in cui alla base del progetto c'è la proposta, fatta a un giovane fotografo giapponese, di seguirlo nel corso del suo lavoro con due modelle, l'una di origine cittadina e l'altra provinciale. Il complesso triangolo amoroso che si instaura fin dall'inizio (lei, il fotografo e le due modelle), filtrato dalla presenza di una macchina da presa che segue i movimenti del cuore, fa sbilanciare il film di fronte alla vertigine dell'indiscrezione (quando la cinepresa coglie, con gelosia e impotenza voyeuristica, il nascere di un sentimento fra il fotografo e una delle due ragazze) e rimette in causa la cineasta stessa, costretta a rivelarsi dalla ribellione degli interpreti. Film di una pericolosità raramente vista sullo schermo (quanti altri cineasti avrebbero il coraggio di arrivare a un simile coinvolgimento personale?) Mange-kyo (Caleidoscopio, 1999) è anche - come già avvenuto in precedenza nella cinematografia di Kawase - il banco di prova documentario per un successivo lavoro di fiction, che ne replica la struttura amplificandone la portata. Anche Hotaru (Lucciole, 2000) si gioca infatti sui temi della presenza e dell'assenza, della memoria e del futuro, della ferita antica che oppone l'uomo alla donna, ponendo la domanda per tutti fondamentale: "Come fare, per ricominciare?". Così Kawase filma la riconciliazione possibile, dopo le sconfitte inferte dalla vita, in un'incertezza che non è soltanto della storia, ma anche dei ruoli maschile e femminile - una ballerina di night e un vasaio, colti al volgere delle rispettive esistenze - che si travasano le reciproche qualità (a partire dalla scelta degli interpreti: una donna dall'irruenza molto maschile e un uomo di paziente e elegante femminilità). Il gioco è quello della memoria, già affrontato nei precedenti film, con una finestra sul passato che si apre a rimandi presenti di divisioni, lontananze, lutti. Il finale è tabula rasa, ovvero accettare di abbandonare il passato, fatto di ricordi immateriali e di oggetti feticcio, per affrontare il domani, in una rispondenza casuale della vita che ricorda gli atomi di Eraclito, come lucciole o scintille nella notte buia. Nelle pratiche materiali e in quelle spirituali, gli uomini non fanno che addizionare le cose, nell'infantile desiderio di possederle "per sempre, felici e contenti". La vita, nella sua logica cieca, agisce invece in senso contrario, sottraendo l'effimero del mondo. Il punto d'incontro sta nel vivere gli eventi, nel momento stesso in cui si rivelano ai nostri sensi. In fondo è quello che fa Kawase, col suo cinema, sin dall'inizio. Allora, punto e a capo: ritorno al futuro.

Luciano Barisone