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Kya Dilli Kya Lahore (Che sia Delhi o Lahore, 2014): amara futilità di una tragedia

Iran

1948, una striscia isolata del confine indo-pakistano. Un soldato pakistano deve trovare i documenti di un tunnel tra Delhi e Lahore in un avamposto indiano, dove è rimasto il cuoco del battaglione. Ha inizio una schermaglia fatta più di parole che di schioppettate, debutto nella regia dell’attore Vijay Raaz, che racconta una piccola, grande storia, piena di humour e di amarezza.

Kya Dilli Kya Lahore (Che sia Delhi o Lahore, 2014):

amara futilità di una tragedia

 

Regia: Vijay Raaz; produzione: Karan Arora (Picture Thoughts Production), con  Raju Chadha (High Ground Enterprise); soggetto: Aseem Arora; sceneggiatura: Aseem Arora, Pratham S. Jolly, Manu Rishi; dialoghi: Manu Rishi; fotografia: Raaj Chakravarti; montaggio: Archit D. Rastogi; musica: Sandesh Shandilya; versi: Gulzar;  interpreti: Vijay Raaz (Rahmat Ali), Manu Rishi (Samarth Pratap Shastri), Vishwajeet  Pradhan (capitano pakistano), Raj Zutshi (Barfi Singh).

Hindi/Udu/Panjabi/col/98’

 

Trama

1948, una striscia isolata del confine indo-pakistano. In uno scontro a fuoco, dalla parte pakistana restano un capitano, ferito, e un soldato, il quale viene mandato a occupare un piccolo avamposto indiano, una baracca, dove si dovrebbero trovare i documenti relativi a un ipotetico tunnel per collegare il Forte Rosso di Delhi con Lahore, scavato dagli indiani per attaccare di sorpresa il Pakistan. Nella baracca è rimasto un solo uomo, il cuoco del battaglione. Ha così inizio una schermaglia tra i due superstiti, fatta di qualche schioppettata, ma sopratutto di parole, una serie di reciproche accuse: aver causato la Partizione, aver iniziato la carneficina, essere stati privati dei propri diritti, colpa di Jinnah, colpa di Nehru, ecc.  Dopo queste accuse - che suonano quasi ridicole in bocca a un cuoco militare e a un soldato semplice, entrambi abbastanza fifoni, ma all’occasione rissosi - i due scoprono qualcosa che cambia il loro rapporto. Il pakistano, Rahmat Ali, dopo la Partizione, era emigrato a Lahore, dalla natia e amata Delhi. L’indiano, Samarth Pratap Shastri, invece, nella stessa circostanza era emigrato a Delhi dalla natia e amata Lahore. Si crea così un legame combattuto, che resiste sia alla cattura di Samarth da parte di Rahmat, sia a quella di Rahmat da parte di Barfi Singh, il prepotente e borioso (quanto pavido) postino del battaglione indiano, sia soprattutto alla cattura di Samarth da parte dell’arrogante e spietato capitano pakistano. In questo assurdo gioco, Rahmat avrà la peggio. O l’avrà Samarth?

 

Come ho avuto più volte modo di sottolineare, la Partizione del 1947 ovvero la divisione del subcontinente indiano in due nazioni - i due pezzi di Pakistan, Occidentale e Orientale,  e in mezzo l’India – al momento dell’indipendenza dall’Inghilterra è stata la più grande tragedia di quella parte di mondo. La divisione geografica, che avrebbe dovuto sanare il problema di una convivenza divenuta ostile tra hindu e musulmani (ma è corretto dire tra le leadership hindu e musulmana), non solo non era riuscita nell’intento, ma aveva creato una profonda e difficilmente sanabile lacerazione sociale. Lo spostamento biblico di persone da una parte all’altra dei nuovi confini era stato preceduto, accompagnato e seguito da scontri, violenze e ritorsioni spaventose tra le comunità colpite da questa risoluzione: hindu, musulmani e sikh a occidente, hindu e musulmani a oriente. Un terzo dei musulmani indiani era rimasto nella nuova India, generalmente come cittadini di seconda classe, costantemente sospettati nella loro lealtà alla nazione, perché – osserva ironicamente lo scrittore Rahi Masum Raza – “nel cuore di ogni musulmano c’è una finestra aperta sul Pakistan” [1]. Oggi – come ha rilevato il Sachar Committee del 2006 – sono la comunità indiana più disagiata e spesso vittima di violenze e persecuzioni, testimoniate esemplarmente dagli eventi legati alla distruzione nel 1992 della Babri Masjid, un moschea di Ayodhya (Uttar Pradesh), e la carneficina di Godhra (Gujarat) nel 2002.

 

Se la pagina del 1947 non fosse stata scritta – sostiene lo storico Roderick Matthews – forse la storia successiva, non solo dell’India, ma anche del mondo, avrebbe preso una piega meno dolorosa e conflittuale [2].  Ma se con i “se” non si fa la storia, bisogna anche dire (sempre che sia una consolazione) che molti film basati su quella decisione storica e sul successivo interminabile conflitto indo-pakistano non sarebbero stati realizzati. Alcuni di questi sono molto belli e di forte impatto, altri molto meno; alcuni hanno lasciato un’impronta profonda, altri sarebbe meglio dimenticarli; alcuni hanno cercato di affrontare con oggettività questi difficili eventi, altri tradiscono aggressivi sentimenti anti-pakistani e, di conseguenza, anti-musulmani. La Partizione e i rapporti indo-pakistani e/o hindu-musulmani continuano ad essere soggetti cinematografici piuttosto frequentati,  comprensibilmente molto di più in anni recenti che negli anni immediatamente seguenti al 1947 (si veda, ad esempio, All’inferno e ritorno).  Nel 2014, tuttavia, è uscito questo Kya Dilli kya Lahore, decidamente diverso dagli altri.  Ben vero che l’anno prima era uscito un curioso film – War chor na yaar  (“Ma lascia perdere la guerra, amico”, di Faraz Heider, 2013) – che, sotto la maschera di una commedia satirica, tentava di togliere i veli da ambigui interessi del conflitto indo-pakistano. Qui, una giornalista televisiva, incaricata di realizzare un documentario sulla vita dei soldati al fronte, scopre una realtà molto lontana da quella immaginata: i soldati delle due parti, invece di combattersi, passano il tempo a giocare a carte ai lati del filo spinato che segna i confini, a sfidarsi a canzoni da film (indiani) e a ricette culinarie o a prendersi reciprocamente in giro, sparando qualche colpo in aria di tanto in tanto. La vicenda si complica a causa dei vari intrighi politici dei due governi, ma i loro piani diabolici sfoceranno in una risata. Benché le parti iniziali siano molto divertenti, ma anche  credibili, con il passare del tempo la vicenda finisce per assume tinte troppo caricaturali che compromettono l’intento critico del regista. Anche in Kya Dilli kya Lahore scappa qualche risata, ma invece di divertire lascia un sapore amaro.  Il film è il primo cimento registico di Vijay Raaz, attore noto anche dalle nostre parti per aver interpretato il ruolo dell’organizzatore di matrimoni in Monsoon Wedding (2001, Mira Nair). Vijay Raaz,  che è anche il soldato pakistano del film, ha saputo raccontare una piccola, grande storia storia dalla quale emerge tutta la futilità, ma anche la mostruosità di una tragedia. Kya Dilli kya Lahore, con un’ambientazione scarna e quasi privo di azione, si regge tutto sul dialogo, di cui è autore Manu Rishi, il cuoco indiano nella vicenda. Soprattutto la prima metà del film risulta molto coivolgente nel progressivo svelarsi dell’anima dei due personaggi. L’ininiziale scambio di accuse sugli eventi politici legati alla divisione del paese suona  non commisurato al ruolo dei due contendenti, ma il confronto si sposta subito su un piano meno generico e più personale, quando entrambi cominciano a raccontare qualcosa del loro vissuto. Il tempo trascorre lento tra qualche schioppettata, battute ironiche, insulti e tentativi di compromesso.  Come quando Rahmat Ali – per ironia della sorte, il nome dello studente panjabi di Cambridge che aveva coniato il nome Pakistan – propone uno scambio: una catenina d’argento e l’orologio contro i documenti sul tunnel.  Samarth, però, vuole sapere se l’orologio funziona (poi si terrà i due oggetti, ovviamente senza dare in cambio l’inesistente documentazione):

Samarth : Che ora fa adesso?

Rahmat: Le 6,30.

S: Il mio fa le 7. Il tuo mica funziona!

R: Per forza, voi siete di mezz’ora avanti.

S: Ah, lo ammetti, adesso, noi siamo avanti a voi in qualcosa !

 Ma Rahmat gli ritorce contro la battuta dopo averlo ferito al braccio: “Se vuoi vivere un po’ di più vieni con me in Pakistan, noi siamo indietro di mezz’ora rispetto a  voi”. Il momento più delicato di questa prima parte del film è quando ognuno racconta all’altro – ma in realtà rivive dentro di sé –  i momenti felici delle loro vite adolescenti  a Delhi e a Lahore, il profumo dei cibi che non hanno più potuto assaggiare, le cose che amavano fare, come in questo stralcio:

Rahmat: Fatti uno spuntino e va’ a dormire.

Samarth: Dormire un lungo sonno, stanco morto, come se avessi fatto i lavori di tutta Lahore.

R: Leggere il giornale agli anziani e avere in compenso un soldo e poi via di corsa  a Lal Kuan a comprare un aquilone.

S: Noi andavamo a corteggiare le ragazze. Ho conquistato Lajvanti, mia moglie, a furia di recitarle i miei versi.

R: Quando andavo a dormire lo legavo alla gamba della branda. La mattina però non lo trovavo più là, ma sulla cupola di Jama Masjid, come se fosse stato a chiacchierare con Allah tutta la notte.

S: I nostri aquiloni sono sempre belli sotto il nostro cielo, amico.

R: La luna si alzava sui tetti come se avesse voluto stendersi sulla mia branda. La luna di Lahore non mi ha mai degnato di uno sguardo.

S: Ti andrebbe di cambiare la tua luna con la mia?

Un po’ alla volta crescono le confidenze come cresce il desiderio profondo di vedersi in faccia, di conoscersi, di riconoscersi. Poi, una notizia alla radio interrompe l’intimità del dialogo e i due tornano ad essere “nemici” e Rahmat riesce a fare prigioniero Samarth.

 

Il secondo tempo scorre un po’ meno stringato tra le successive catture: Barfi Singh fa prigioniero Rahmat, ma anche Samarth, colpevole, secondo lui, di connivenza col nemico; Rahmat mette in fuga Barfi, quasi involontariamente, e viene poi raggiunto dal capitano pakistano. Ben presto, tuttavia, la vicenda riacquista tensione e un elemento riporta alle scene di apertura, quando il capitano pakistano, vedendo che Rahmat esitava davanti all’ordine di andare a prendere da solo il documemto dall’avamposto nemico, lo aveva chiamato muhajir, “profugo”, “rifugiato”. Il termine è usato  – spesso spregiativamente – per indicare chi con la Partizione era arrivato nel nuovo Stato, lasciando dietro a sé la Patria, come scrive Yashpal [3]. “È la tua occasione per dimostrare di essere un vero pakistano, – aveva seguitato l’ufficiale, – Altrimenti tutti sapranno che la tua è una famiglia di traditori, un peso per il paese”. A sua volta Barfi, quando telefona al comandante del battaglione, gli dice di aver fatto prigionieri un pakistano e un “mezzo-pakistano”, un refugee, come apostrofa Samarth e come in India veniva chiamato – anche qui talora spregiativamente – chi dalle zone divenute pakistane era arrivato in India. Mujahir e refugee erano visti come migranti venuti ad invadere il territorio, a rubare il lavoro, a occupare le case lasciate libere da quelli che se n’erano andati e sulle quali avevano messo gli occhi gli “autoctoni” (si legga al proposito la novella Malbe ka malik [Il signore delle rovine], di Mohan Rakesh [4]).  Torna ad emergere il tema di una Patria, lasciata spesso per costrizione, per disperazione o per paura, per trasferirsi in uno Stato che non riesce a diventare “casa”; ritorna cocente il dolore della patria/casa perduta, come si comprende dalle parole di Rahmat a Barfi: “Ho vissuto qui per trent’anni, nella vecchia Delhi, io sono di qui, signore”, ma è un dolore che Barfi e il capitano pakistano non possono, non potrebbero mai comprendere, il dolore che rende fratelli Samarth e Rahmat, fino a spingere quest’ultimo a sparare al suo capitano che sta per uccidere Samarth. Poi un altro sparo.

 

Il film è presentato da Gulzar, scrittore, poeta e regista di fama, anche lui un refugee, in fondo, essendo originario di Deena, ora in Pakistan, e venuto nella nuova India a otto anni. Suoi sono i versi delle tre canzoni del film (la musica è  di Sandesh Shandilya, cantante e autore di molte colonne sonore di film famosi).  Se mi avessi colpito al cuore, che avresti fatto da solo sul confine, senza un nemico? la solitudine ti avrebbe divorato, dicono le parole  di Kaleje men jo lag jati  (“Se mi avessi colpito al cuore”, voce di Hamid Ali Khan); mentre Jo dikhte ho vo lagte nahin (“Non sembri come appari”, voce di Saffaqat Amanat Ali) – non sei come sembri, sei un bugiardo, mi ferisci il cuore e poi metti un balsamo sulla ferita, se per caso leggo la tua pena, subito cambi tono – segna il momento in cui cadono le maschere più volte  tolte e rimesse. La più dolente e più famosa – Kisse lambe ne laqiiran de (“Sono lunghe le storie dei confini”, voci di Sukhwindar Singh, Sandesh, Rahat Fateh Ali Khan) – è in panjabi e  cita un famoso racconto popolare, la tragica storia d’amore di Ranjha e Hir: le storie dei confini, lunghe e intrise di sangue, parlano con la voce delle pallottole,  i Ranjha vagano sui confini, ma hanno i piedi tagliati e le porte delle loro Hir sono chiuse.  Di Gulzar è anche la poesia che apre la storia – Laqiiren hain toh rahne do (“Le linee ci sono, tu lasciale stare”) – che da un lato ribadisce come l’umanità sia superiore ai confini più o meno riconosciuti e comunque artificiali dei paesi, superiore alla religione, alla politica e alla guerra. Dall’altra, però, riconosce l’avvenuta divisione da cui non sembra possibile tornare indietro. Una poesia, che aggiunge ulteriore valore e senso a questa storia, amara ma non del tutto chiusa alla speranza: Le linee ci sono, tu lasciale stare / qualcuno, arrabbiato, deve averle tracciate nell’ira. / Ora fanne le linee di un campo da gioco, / vieni, giochiamo a kabaddi [5]

 

Il regista:

 

Vijay Raaz, nato ad Allahabad, aveva cominciato a recitare da studente nella compagnia teatrale del college e, in seguito, presso la National School of Drama di Delhi. Deciso a diventare attore cinematografico, si trasferisce a Bombay. Nel 2001, viene scelto da Mira Nair per la parte dell’organizzatore di matrimoni in Monsoon Wedding. Il successo ottenuto lo proietta tra gli attori più richiesti del cinema indiano. Tra i numerosi film vale la pena di ricordare, Raghu Romeo (2003, di Rajat Kapoor), nei panni di un ingenuo e improbabile eroe, innamorato di un’attrice meno ingenua e gentile di quanto appare. Un altro film, non altrettanto noto, ma molto particolare è Shabnam Mausi (2005, di Yogesh Bharadwaj), ispirato all’omonima transgender, prima ad aver ottenuto una carica pubblica, come membro dell’assemblea legislativa del Madya Pradesh. Nel film, Vijay Raaz è  Halima, la “madre” della protagonista, nel ruolo l’attore Ashutosh Rana. In Barah aana  (“Quattro soldi”, 2009, di Raja Menon), prodotto dall’italiana Giulia Achilli, Vijay Raaz è  il guardiano di un palazzo, che insieme ai suoi due coinquilini decide di dare una svolta alla loro vita da quattro soldi  (lett. “da 12 aana”,  aana = 16ma parte di vecchia rupia) con rapimenti a scopo di ricatto. Ma le cose non vanno come sperato. Nella parte di un ladro, specializzato in furti di apparecchiature musicali per automobili, che lascia sempre un biglietto da vistita con stampata una rosa e un grazie, lo troviamo in  Ek tho chance (“Un’ultima chance”, 2011), primo – e finora senza seguito – film di Saeed Akhtar Mirza dopo una quindicina d’anni di pausa. Tra gli altri film, memorabile il suo pezzo sul “risotto al corvo”  in Run (2004, di Jeevan), affermatosi come il video più visto di tutti i tempi in India. Nella parte di un cattivissimo criminale lo troviamo invece in Delhi Belly (2011), diretto da Abhinay Deo e prodotto da Aamir Khan.

Kya Dilli kya Lahore è il suo primo film da regista.

Cecilia Cossio

Note

 

[1] Rahi Masum Raza,  19772, Topi Shukla, New Delhi, p. 82, I ed. 1969; il romanzo è tradotto in italiano in  Rahi Masum Raza, 1992, Topi Shukla,  Milano, introduzione,  traduzione e note a cura di   C. Cossio.

[2]  Roderick Matthews, 2007, Jinnah’s Victory, Pakistan’s Loss. The Poisoned Legacy of Partition, 2007,  IDEAINDIA.COM, pp. 15 sgg.

[3] Yashpal, 1958, Jhuta sach (Il falso vero), vol. I, Lakhnau, p. 536; sul romanzo, in italiano, cfr. M. Offredi, 1974, Il romanzo hindi contemporaneo, Roma, pp. 144-164.

[4] La novella è tradotta in italiano in Mohan Rakesh, 1990, Il signore delle rovine e altre novelle, Milano, pp. 76-82, introduzione, traduzione e note a cura di C. Cossio.

[5] Popolarissimo gioco indiano a squadre, di origine antica e con diverse varianti. Dal 1990 è incluso negli Asian Games.