Asiamedia

Koroshi

Giappone

Kobayashi è riuscito a costruire un film perfetto, interamente ricamato da ellissi taglienti, tempi scanditi al centesimo di secondo, cura estrema della fotografia, lavorando su una sceneggiatura perfetta quanto a precisione e semplicità.

KOROSHIdi Kobayashi Masahiro

Masahiro Kobayashi è un piccolo giapponese che ha ormai superato la quarantina. I suoi capelli brizzolati, di media lunghezza, il suo capellino Nike perennemente sul capo (per nascondere una precoce calvizie?) ce ne offrono la conferma. Il viso mostra uno sguardo attento, gli occhi come due spilli, pronti a brillare, accompagnano un naturale spirito di curiosità. Insomma, Kobayashi ci ricorda un Pat Morita meno zen, e certamente a suo agio negli abiti occidentali che indossa. Spirito occidentale che emerge anche da questo suo ultimo lungometraggio, a lungo applaudito dagli spettatori del Noga Hilton, sede delle proiezioni della Quinzaine des realisateurs. Koroshi (Film noir) si presenta – stando alle dichiarazioni di Kobayashi –come un anomalo noir influenzato dal cinema di Jean-Pierre Melville. In realtà, quello a Melville ci appare come un vero e proprio omaggio, vista la dedica che svetta al termine dei titoli di coda.

Strana è anche la storia del progetto. Al punto che vale la pena riportarla. Un produttore rimane colpito dal precedente lavoro di Kobayashi: La route des petits voyous, presentato a Cannes nel 1998. Decide quindi di contattare il regista. Questo produttore – Seiichi Ono –è anche un accanito fan della rock star nipponica Ishibashi Ryō, presente tra l'altro nel cast di The Crossing Guard di Sean Penn. Seiichi Ono prende la decisione: chiede a Masahiro Kobayashi di scrivere un soggetto in cui il protagonista sia la rock star. Ecco che cosa ricorda il regista: "Proprio a partire dal mio protagonista ho tentato di immaginarmi un personaggio diverso da quello che avevo in mente. Ishibashi Ryō possiede una presenza fisica, un modo di muoversi e di recitare che mi facevano ricordare Gabin, Ventura. Proprio per questo, Koroshi è diventato un omaggio agli eroi dei film polizieschi francesi degli anni '50". Non conosciamo a fondo il rock nipponico, ma è certo che Ishibashi Ryō, più che a una rock star, somiglia a un impiegato, ruolo che, in effetti, egli interpreta in questo film.

Ci troviamo in Giappone. È inverno. La neve cade copiosa. Di prima mattina, un uomo saluta la moglie e parte per recarsi al lavoro. Qualcosa non va: invece di arrivare a destinazione, l'uomo si ferma in una sala giochi. Vi passa l'intera giornata, concedendosi una pausa per il pranzo, all'interno dell'automobile. Le giornate successive si susseguiranno in questo modo. Kobayashi è bravo nel mostrarci i gesti reiterati, l'itinerario che non cambia mai, il parcheggio vuoto, la neve che scende, le pause pranzo, e il ritorno a casa, quando si fa notte: è certo, pensiamo noi, quest'uomo ha perso il lavoro. Quest'uomo ammazza il tempo, restando immobile e sfaccendato. Unico sintomo del tempo che scorre, la neve che scende, e le eliche di un generatore d'energia a scandire il ritmo, come fossero un metronomo. Poi qualcosa cambia. Un colpo di genio: capita che un giorno la sala giochi sia chiusa. Mentre il nostro uomo torna alla sua auto, egli assiste a un omicidio: un uomo viene freddato davanti ai suoi occhi. Un segno del destino: la sala chiusa, e improvvisamente... ecco arrivare una proposta di lavoro. La condizione è questa: di di-ventare un killer... Non è facile calarsi nei panni di un giustiziere. Bisogna fare pratica. Per questo, il nostro amico si procura una dozzina di videocassette, tutti classici del genere: da Callaghan a Melville (un televisore – fuori campo –le trasmette). Arriva il tempo del primo omicidio. A fatica, egli riesce nel suo scopo. Lentamente, egli comincia ad apprezzare la sua nuova vita ("un lavoro come gli altri", lo definisce). La vita sembra sorridergli, ora. Anche i rapporti sessuali con la moglie segnalano un'inaspettata impennata del desiderio. Ma le cose non saranno così semplici...


Koroshi è una delle piacevoli sorprese di questo festival tutto di marca orientale. Kobayashi è riuscito a costruire un film perfetto, interamente ricamato da ellissi taglienti, tempi scanditi al centesimo di secondo, cura estrema della fotografia (pur a colori, il film appare interamente costruito sulle tonalità bianche e nere), lavorando su una sceneggiatura perfetta quanto a precisione e semplicità (il termine semplice non si addice alla banalità, anzi, alcuni snodi della sceneggiatura sono resi con stupefacente coscienza cinematografica). Una vera gioia per gli occhi, insomma. Dosando i dialoghi e i tempi morti, Kobayashi ha circoscritto il percorso esistenziale di un personaggio che sentiamo "vicino", facendoci capire come il cinema possa ancora raccontare storie non banali, pur se minuscole, esili, capaci di trovare nella loro fragilità la stessa forza. (...)

Rinaldo Censi