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Killer Clans (Liu Xing Hu Die Jian)

Hong Kong

Il regista Chu Yuan mescola i generi e le influenze: il film è un alto esempio della tarda epoca dei wuxiapian, ancora fastosi ma sulla via del declino. Uno sguardo critico.

Hong Kong/1975/103'
Prod: Run Run Shaw
Dir: Chu Yuan
Int: Ching Li, Yueh Hua, Tsung Hua

Adattamento del romanzo di Wu Long, il film fa parte della serie di wuxiapian girati in cantonese che a poco a poco rimpiazzeranno il cinema in mandarino ad Hong Kong. Viene girato dunque in un'epoca di relativa depressione del genere, dopo i grandi successi firmati King Hu e Zhang Che e prima della rinascita attuata negli anni ottanta dalla nebulosa effimera della Novelle Vague capeggiata da Tsui Hark.

Confuso, barocco, gotico, romantico: Killer Clans oppone due diverse società segrete che si combattono a colpi di tradimenti e spie doppiogiochiste. Gli scenari sono dei più fantasiosi. I personaggi vivono in un complesso dedalo di costruzioni integralmente rifabbricate in studio: giardini dai fiori fosforescenti, foreste di farfalle plastificate, sotterranei che nascondono labirinti di grotte e cunicoli e celle segrete in cartapesta.

I valori tradizionali della cavalleria, così come le passioni che muovono gli eroi nei wuxiapian (fondamentalmente: la lotta per il potere in King Hu, la vendetta in Zhang Che) si confondono nei bagni di sangue in cui annegano i traditori così come gli eroi. Ma anche "eroe" e "malvagio" diventano categorie superflue, vaghe. Tutto si mescola, nessuno si può fidare di nessuno. Eppure, proprio in un film che mostra come il tradimento si nasconda nel cuore di ognuno, viene esaltata la lealtà al limite del fanatismo: una intera famiglia aiuta il signore a salvarsi, e, per mantenere il segreto sulla sua fuga, non esita a compiere il suicidio rituale: i due genitori avvelenano prima la prole (due bambine piagnucolanti) e poi si uccidono. Tutto ciò per salvaguardare il Maestro della setta degli eroi, dei buoni biancovestiti. Il Maestro è in fuga, e non esita ad ordinare ai suoi uomini di sacrificarsi per lui: un suo discepolo, che ha passato 15 anni in un pozzo per proteggere la via di fuga, deve gettarsi giù da un dirupo per trarre in inganno i malvagi che inseguono il Maestro. Se di tanta indifferenza e cinismo è capace il leader della setta protagonista, lascio immaginare a quali nefandezze è pronto il turpe malvagio.

Le scene si susseguono cariche di segni di violenza e nefandezze; nessuno pare immune dal sospetto, al punto che il migliore alleato del Maestro diviene proprio l'assassino inviato ad ucciderlo. Lo scambio dei ruoli, i continui voltafaccia, il relativismo assoluto dei valori, rivelano una struttura drammatica flebile. Numerosi elementi sono mescolati senza pervenire ad una unità tematica o formale; diversi generi si combinano, portando con sé caratteristiche formali e suggestioni pittoriche diverse e confuse in un caos che sfugge a qualsiasi analisi. Si possono trovare elementi degli spaghetti western (l'assassino/cacciatore di taglie), della tradizione classica del wuxiapian (il conflitto maestro/discepolo), del noir (gli omicidi cruenti), del softcore (seni esposti gratuitamente e goffamente ambrati dall'illuminazione flou), della detective story (il mistero sull'identità del traditore), del film d'orrore (le caverne, i passaggi segreti, le sale di torture). Fiammeggiante, il film mescola le tecniche rompendo ciclicamente le regole appena stabilite: zoom insistiti, fermo immagine sugli stunt, travelling veloci per le scene di combattimento...

Il mondo reale ha cessato di esistere: se infatti nella maggior parte dei wuxiapian degli anni sessanta e settanta il cavaliere si staglia sugli altri personaggi per i suoi incredibili poteri, qui non esiste nessuno che sia "normale", ma tutti possono volare, tutti padroneggiano il kung fu, la lotta tra le scuole avversarie è l'unico motore di un film/videogioco cui manca però, dei videogiochi, l'ipervelocità nei salti di livelli e la bellezza delle scene d'azione. Chu Yuan crea un mondo altro, puramente cinematografico, mosaico di altri film, altre storie, altre dinamiche, tutto immerso in un'atmosfera dai colori virati al rosso e al blu scuro.

Piace ritenere due elementi, due sequenze del film che rimandano ed echeggiano una cinematografia, piuttosto che un insieme artigianale ed imperfetto. La scena finale, in cui il protagonista se ne va con la bella dama reclusa nel bosco delle farfalle (che si è scoperto essere la figlia del Maestro). Il cavaliere lascia la sua spada, rinunciando a combattere. Finché ci sono armi, ci sarà violenza nel mondo. Questa scena ricorda da vicino la conclusione di One Armed Swordsman/Dubi dao (Zhang Che, 1967), in cui parimenti l'eroe volta le spalle al proprio maestro. D'altronde, il tema del conflitto edipico tra Maestro e discepolo è parte integrante della tradizione classica, e continua ad ispirare registi e romanzieri (si veda per esempio il recente Stormriders/Feng yun, Andrew Lau, 1998)

Infine, proprio le farfalle citate poco sopra. Esse svolazzano nel bosco fatato dove la bella progenie del Maestro vive e compone poesie. Sono fintissime, tirate di qua e di là da rudimentali fili. È probabile che siano proprio le stesse bestiole che girano nell'esordio alla regia di Tsui Hark, The Butterfly Murders/Die bian (1979). Tsui Hark le utilizzerà per dare un tocco hitchcockiano al suo film, e per avvolgere la sua complessa storia di omicidi e tradimenti (che ricorda le ambiguità di Chu Yuan) in un'atmosfera fantastica ed inquietante.

Qui, resta anzitutto il suono artificiale del battere delle loro ali.

Corrado Neri