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Kamei Fumio: il Giappone attraverso il realismo del documentario

Giappone

Uno dei precursori, nonché forse il massimo esponente del genere documentario (o "cultura cinematografica"), racconta la società giapponese del suo tempo sotto una lente di cruda realtà.

Tatakau heitai e Nihon no higeki, due documentari del regista Kamei Fumio, furono realizzati in periodi molto lontani tra loro (il primo fu realizzato sotto il governo giapponese nel 1938 e il secondo con l’aiuto delle forze d’occupazione americane nel 1946) ma subirono entrambi la violenza della censura. 

Fin dall’introduzione del cinema, l’autorità statale aveva sempre tentato di avvalersi della censura per controllare il mezzo cinematografico, come dimostrano ampiamente il Katsudō shashin torishimari kōgyō kisoku (Regolazioni per la rappresentazione degli spettacoli cinematografici) del 1917 e il Katsudō shashin firumu torishimari kisoku (Regolamento per la censura cinematografica) del 1925. Queste disposizioni standardizzavano le misure censorie e consentivano al Ministero degli Interni e alla polizia di vietare la proiezione di un film se questo offendeva la moralità o l’ordine pubblico: naturalmente, l’ambiguità di questa terminologia dava ampio margine d’intervento ai censori.

L’atteggiamento dello stato nei confronti del cinema mutò anche in seguito alle vicende storiche che caratterizzarono il primo periodo Shōwa: le autorità iniziarono a vedere nel cinema non solo un mezzo di puro intrattenimento da censurare, ma uno strumento in grado di costruire il consenso.

Se l’invasione della Manciuria nel 1931 aveva suscitato una reazione alquanto blanda  nel mondo del cinema, fu l’incidente di Shanghai del 1932 (in cui tre soldati giapponesi si sacrificarono trasformandosi in pallottole umane) a divenire il primo evento mediatico: in soli tre mesi ben sei pellicole parlarono di questo gesto militare.

Lo stato comprese sempre più che il cinema poteva avere un ruolo nella fabbricazione del consenso dopo l’incidente cinese del 7 luglio 1937, sponsorizzando addirittura documentari e film a soggetto.

Nel 1939 per piegare totalmente il cinema alle esigenze di guerra, il governo introdusse la Eigahō, che stabiliva nel dettaglio cosa andasse rappresentato, rendeva obbligatorie la proiezione di bunka eiga (film culturali) e cinegiornali e controllava attraverso un sistema di licenze tutte le persone che lavoravano nel cinema. 

Il passo successivo compiuto dallo stato fu la  fusione delle società cinematografiche nel 1941: quando il Giappone attaccò gli Stati Uniti a Pearl Harbor, il cinema era già sceso in guerra da tempo.

In questo clima di militarismo l’unica figura che si ritagliò una nicchia di dissenso e fu per questo censurato fu Kamei Fumio. Nato  nel 1908 a Fukushima, dopo aver studiato cinema in Unione Sovietica, andò a lavorare alla Tōhō, una casa di produzione specializzata nella creazione di documentari di guerra che esaltassero il valore dei soldati. Anche i primi film di Kamei furono documentari di guerra, in cui però il regista riusciva a dare una diversa percezione della guerra e a far risaltare il lato umano delle persone in essa coinvolte, fossero essi soldati giapponesi o civili cinesi.

Shanhai e Pekin sono due esempi dello stile particolare del regista: in essi la guerra è lontana, ricordata solo da un elmo vuoto abbandonato a terra o dal volto preoccupato dei contadini cinesi che guardano la cinepresa.

Anche Tatakau heitai, il capolavoro di Kamei, presentava queste caratteristiche: il film era stato finanziato dal governo giapponese per celebrare la conquista della città di Hankou, ma l’abilità del regista porta il film ad avere l’ effetto contrario.

Le didascalie del film rispondono pienamente alla retorica di guerra, ma le immagini ci mostrano non degli eroi ma degli uomini stanchi, impegnati in azioni quotidiane e poche volte in battaglia.

Anche il nemico è raffigurato con profonda intensità. Se nei film a soggetto e nei cinegiornali esso non era quasi mai rappresentato, in Tatakau heitai egli compare attraverso i primi piani dei contadini cinesi e di un soldato catturato.

Un film così sperimentale e umano non si addiceva però al nuovo assetto del cinema giapponese, che doveva esaltare la guerra senza descriverla con realismo. Il film fu censurato e divenne un maboroshi no eiga fino a quando non fu ritrovato nel 1965.

Anche nei documentari successivi Kamei si rifiutò di piegarsi alla propaganda di guerra, preferendo illustrare le difficoltà dei contadini come nel film Kobayashi Issa (1940). 

Inviso alle autorità, fu arrestato nel 1940 con l’accusa di aver infranto la “Legge sul mantenimento dell’ordine pubblico” e rimase in carcere per due anni; dovette aspettare la fine del conflitto mondiale per tornare a lavorare.

L’arrivo delle forze d’occupazione americane nel 1945 fu avvertito da Kamei come una liberazione: a differenza dei suoi colleghi,  egli non aveva mai contribuito alla propaganda di guerra e credeva di ottenere quella libertà d’espressione che il governo giapponese gli aveva negato.

In realtà, le autorità americane non fecero altro che sostituirsi al sistema di censura preesistente. Come già pianificato durante la guerra del Pacifico, lo SCAP creò due istituzioni per controllare i mezzi d’informazione, il CIE (Civil and Education Section) e il CCD (Civil Censorship Detachment).

Il  CCD era formato in maggioranza da militari ultraconservatori e aveva il compito di autorizzare la proiezione dei film, mentre il CIE era formato per lo più da New Dealers che volevano rieducare il Giappone ai valori della democrazia e avevano l’incarico di esaminare preventivamente le sceneggiature e consigliare ai registi i temi da trattare.

Il primo documentario di Kamei del dopoguerra, Nihon no higeki, fu appoggiato proprio dal CIE e dal suo responsabile David Conde, che voleva un documentario che mostrasse  i responsabili della politica espansionistica che aveva portato il Giappone in guerra.

Poiché la Nichiei, la casa di distribuzione per cui Kamei lavorava nel dopoguerra, non aveva sufficiente denaro, il regista usò i cinegiornali di guerra, i giornali e le foto per raccontare la storia del Giappone negli ultimi quindici anni.

Il film inizia con il memoriale Tanaka, un documento (probabilmente un falso) del 1927 che indicava come il Giappone poteva conquistare il mondo attaccando prima la Mongolia e la Manciuria: le vicende storiche descritte in seguito mostrano come la guerra di conquista si sia mossa esattamente secondo le direttive di questo documento. 

Il film di Kamei è un’opera di forte denuncia: tutti i politici, i magnati e i militari che inneggiano alla guerra sono raffigurati mentre tengono dei discorsi. Nello stesso tempo, il documentario sottolinea lo sfruttamento della classe operaia e dei contadini, offrendo un’analisi marxista della storia giapponese.

Il punto più critico dell’intero documentario è però la raffigurazione dell’imperatore. In una dissolvenza Kamei presenta Hirohito prima in abiti militari e poi in abiti borghesi, mentre la voce di commento suggerisce che non bisogna credere alle persone che si sono convertite al pacifismo e che bisogna punire i responsabili della guerra.

Il CIE fu entusiasta del film nonostante le dure accuse rivolte all’imperatore, mentre il CCD richiese dei tagli senza però toccare la scena dell’imperatore.

Il primo ministro conservatore Yoshida Shigeru, durante una proiezione privata del film nella sua residenza a cui erano presenti anche degli ufficiali americani, s’infuriò e chiese che il film fosse vietato perché avrebbe creato dei disordini a causa della sua critica all’imperatore.

Il CCD ascoltò le parole di Yoshida, riesaminò il film (fatto che non aveva precedenti nella storia della censura giapponese) e ne decise la confisca, eliminando anche qualsiasi accenno alla vicenda presente nei giornali. 

La sensibilità artistica di Kamei Fumio fu quindi messa a tacere per ben due volte, in due contesti storici lontanissimi eppure così vicini nel limitare la libertà d’espressione.