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Kalyug - L'era meccanica

India

Diretto da Shyām Benegal, il film rilegge in chiave moderna la storia del Mahabharat, ovvero la lotta tra i Pandav e i Kaurav. Le famiglie di due fratelli industriali si confrontano per la posizione di preminenza. L'ago della bilancia in questa contesa è Karan, come nel poema è Karn. Ma la rivelazione della verità sulla sua nascita si rivela psicologicamente fatale per Karan, mentre gli eventi precipitano verso un epilogo tragico e non risolutore.

KALYUG (L'ERA MECCANICA, 1981)

Regia: Shyām Benegal; produzione: Shashi Kapūr (Film Valas); sceneggiatura: Girīsh Kārnād e Shyām Benegal; dialoghi: Satyadev Dūbe; fotografia: Govind Nihālānī; scenografia: Bansī Chandrgupt; montaggio: Bhānūdās; musica: Vanrāj Bhātiyā; interpreti: Shashi Kapūr (Karan), Rekhā (Supriyā), Anant Nāg (Bharat), Rāj Babbar (Dharam), Kulbhūshan Kharbandā (Balrāj), Sushmā Seth (Sāvitrī), Vijyā Mehtā (Devkī), Amrīsh Purī (Kishanchand), Om Purī (Mhātre), Victor Banarjī (Dhanrāj), A.K. Hangal (Bhīshamchand), Vinod Doshi (Khūbchand); Supriya Pāthak (Subhadrā), Rīmā Lāgū (Kiran), Sandīp (Ākāsh Khurānā).
Hindi/colore/152'
 

 

I fratelli Ramchand e Bhishamchand sono due industriali. Alla morte del primo, Bhishamchand, che non è sposato, alleva i due figli del fratello, Puranchand e Khubchand, i quali continuano l'attività del padre e dello zio, ma ognuno per conto proprio. Puranchand muore dopo qualche anno, lasciando la moglie Savitri e tre figli: Dharam, Balraj e Bharat; sono loro a dirigere l'industria paterna. Khubchand, invalido e cieco, è sposato con Devki e ha due figli, Dhanraj, che dirige l'azienda, e Sandip, sofferente di cuore. Figura centrale della vicenda è Karan Sinh, un orfano allevato come un figlio da Bhishamchand; dopo essersi laureato a Oxford, Karan lavora con Dhanraj, che lo considera un fratello. Le due aziende concorrono per gli stessi contratti governativi, che negli ultimi tempi sono stati vinti dai Khubchand. Bharat, il più ambizioso dei fratelli Puranchand, viene a sapere casualmente dal nonno Bhisham che il merito dei successi dei cugini spetta a Karan e alle informazioni riservate che riesce a ottenere. Bharat utilizza queste confidenze per compromettere i precedenti contratti dei cugini, riuscendo ad ottenere, tramite la mediazione statale, tre macchinari di importazione di cui i Khubchand hanno assoluto bisogno. Ciò significherebbe la rovina per Dhanraj. Karan escogita diversi stratagemmi per tenere in scacco gli avversari, i quali riescono tuttavia ad avere i macchinari, grazie all'appoggio di un altro industriale, Kishanchand, la cui sorella Supriya ha sposato Dharam, pur essendo attratta da Bharat, il quale sposa Subhadra, figlia di Kishanchand. La faida a lungo nascosta tra le due famiglie viene a galla. Dhanraj rivela a Karan una verità che è venuto a conoscere per caso: i cugini sono degli illegittimi che Savitri ha avuto da uno svāmī, una specie di padre spirituale della famiglia (il marito era impotente). Karan non si dimostra turbato da questa rivelazione, né si leva a giudice di nessuno. Riesce a placare Dhanraj con una mossa che ha ideato per fermare Bharat. Fa sequestrare per alcune ore i macchinari e quando arriva la polizia, a cui i Puranchand hanno denunciato il furto, i macchinari sono nel cortile della fabbrica. Ne potrebbe seguire uno scandalo tale da travolgere Bharat e i fratelli. Sandip, il fratello di Dhanraj, non resiste alla tentazione di andare a spiare dai cugini, anche se Karan glielo aveva proibito. Viene scoperto da Balraj; dopo un inseguimento, quest'ultimo riesce a fermare Sandip che, colto da infarto, muore prima di arrivare in ospedale. Vedendo la spirale di odio in cui stanno precipitando le due famiglie, Savitri decide di tentare l'ultima carta. Va da Karan e gli confessa di essere sua madre: è lui il figlio primogenito, nato fuori dal matrimonio – sempre con il concorso dello svāmī – e accolto in casa come un trovatello, per salvare l'onore della famiglia. Karan è annientato da questa rivelazione e tenta di convincere Dhanraj a trovare un compromesso con i cugini: non può dirgli che sono suoi fratelli. Ma Dhanraj ha progettato l'omicidio di Bharat e accoglie le dimissioni di Karan come un tradimento da chi aveva sempre amato e considerato come un fratello. Karan è ora l'ago della bilancia che può decidere le sorti, non solo materiali, delle due famiglie; tenta di avvertire la madre del pericolo che corre Bharat, ottenendo solo che al suo posto venga ucciso Sunīl, figlio di Balraj. Prima che possa trovare una soluzione per rimarginare il solco di rivalità e di odio tra i cugini rivali, Karan, ritenuto colpevole della morte di Sunīl, viene fatto uccidere da Bharat: è investito da una jeep mentre sta cambiando una ruota della sua automobile. Solo allora Savitriconfessa la verità ai figli, mentre Dhanraj, distrutto, si uccide.

La vicenda è una rivisitazione del Mahabharat [il poema epico sanscrito che racconta la storia della grande guerra combattuta dai Pāndav contro i cugini Kaurav, che si conclude con la vittoria dei primi] in chiave moderna. I personaggi del film hanno tutti un corrispondente nel poema: Bhisham è Bhishm, l'antenato, e Kishan è l'"eminenza grigia" Krishn; Khubchand corrisponde al re cieco Dhritrashtr e Devki a Gandhari, mentre i cento Kaurav, rappresentati da Duryodhan e Duhshāsan, sono nel film Dhanraj e Sandip. Per quello che riguarda i Pandav, la Kunti del poema è Savitri, mentre i suoi tre figli (gli altri due Pandav erano figli della comoglie Madri), Yudhishthir, Bhim e Arjun, sono incarnati da Dharam, Balraj e Bharat. Draupdi, la moglie comune dei Pandav, ha il suo corrispettivo in Supriya, mentre Subhadra, moglie di Arjun e sorella di Krishn, mantiene lo stesso nome anche nel film e sposa Bharat. Infine, Karn il bastardo (Kanin ovvero "figlio di una donna non sposata") è Karan.

 

 

Pur seguendo la traccia del poema, l'impostazione del film appare curiosamente rovesciata. Il Mahabharat – soprattutto per la Bhagavadgita, che è un'interpolazione più tarda – viene letto talora come testo religioso–filosofico, piuttosto che come poema epico. Questo può portare ad un travisamento del contenuto: una lotta fratricida per il potere diventa la lotta per la restaurazione del dharm, della legge divina che sostiene l'universo, contro la crescente ascesa dell'ignoranza e della tenebra, in altre parole, la lotta del bene contro il male, sotto il patrocinio di Vishnu nelle spoglie umane di Krishn. I "buoni" risultano essere i Pandav, per quanto il loro comportamento lasci talora a desiderare; mentre i "cattivi" sono i Kaurav, benché – nella figura dello stesso Duryodhan, il Franti della letteratura indiana – dimostrino senso della giustizia, dell'amicizia e dell'onore. In realtà, il bene e il male sembrano più equamente distribuiti nelle due fazioni, sia nei "mediatori" – Bhīshm e Krishn – sia nei contendenti. Kalyug appare quasi come un Mahabharat alla rovescia proprio perché evidenzia questa compresenza di aspetti positivi e negativi in ogni personaggio. Il centro tematico del film non è più il dharm, ma torna ad essere il potere. Il Mahabharat rappresenta infatti, secondo il pensiero di Benegal, la fonte archetipica dei rapporti e dei comportamenti interindividuali rispetto al potere: le vie per ottenerlo, per conservarlo e per manipolarlo, e lo sviluppo psicologico dei personaggi rispetto ad esso.

Figura nodale del poema, benché non protagonista, Karn è un'immagine scomoda e difficile. In una società dominata dalle idee di casta e di purità–impurità, Karn rappresenta quasi una macchia originaria, che offusca e corrode principalmente gli eroi tradizionali della vicenda. Abbandonandolo appena nato, Kunti non ha privato il figlio genericamente di un nome e di uno status sociale, ma della possibilità stessa di avere un posto e un ruolo nella società, perché lo ha privato di un codice di comportamento. E proprio nella Bhagavadgita viene riaffermata in maniera rigorosa e rigida la quadruplice partizione castale. Dice la Gita: "È migliore la legge intrinseca che a ciascuno pertiene, anche se solo adeguatamente si riesca a praticarla, che non la legge altrui, anche se ben praticata. Migliore è la morte nel compimento della legge che ci compete, la legge altrui porta con sé pericolo"; e più avanti: "Gli atti dei Brahmani, degli ksatriyah, dei vaisyah e degli sudrah... sono distinti a seconda delle qualità che hanno origine nella natura particolare di essi" e, dopo aver illustrato quali sono le leggi intrinseche che regolano il comportamento dei quattro varn ["colori", le quattro grandi partizioni sociali della società brahmanica], conclude ribadendo: "Migliore è la legge propria,... sprovvista di qualità... che non l'altrui legge ben praticata..." Karn, come "figlio dell'auriga" e come "kanin", quale svadharm, quale "legge propria" di uno dei quattro varn potrebbe praticare? Proprio per seguire un codice di comportamento che sente suo – ma che agli occhi del mondo è pardharm, "legge altrui" anche se ben praticata – si rende legittimo oggetto di disprezzo e di scherno per i Pandav e gli eventi si ritorcono sempre contro di lui, anche quando il suo agire è esente da colpe. Per questa ragione, il valore morale della sua lealtà a Duryodhan, che pure intuisce destinato alla sconfitta, è superiore all'etica di Arjun. Arjun si lascia convincere a uccidere parenti e amici in nome di un fine superiore, che è poi il potere, e in ossequio al proprio svadharm; mentre Karn non accetta di avere il posto che gli spetta nella società, accanto ai sicuri vincitori, in cambio di un tradimento, anche se tale tradimento gli verrebbe tranquillamente "rimesso". Non è un eroe perfetto; come negli altri personaggi, anche in lui convivono bene e male. Ma, a differenza degli altri eroi del poema, a differenza soprattutto di Arjun – lo kshatriy [guerriero] perfetto che obbedisce al suo svadharm anche se contrario alla sua volontà e ai suoi sentimenti – Karn è un individuo ed è perciò libero nel suo agire. Tuttavia, proprio la sua libertà di individuo fa di lui uno "spostato" in un mondo di dividui [la cui natura personale rimane fluida e aperta, fondandosi sui rapporti con altre figure, contrapposta alla natura individuale, che è permanente e chiusa].

Rispetto al Mahabharat, nel film la figura di Karn/Karan acquista un peso determinante, diventando il centro intorno a cui gravita la vicenda e indirizzandone l'evoluzione e l'esito. L'antagonismo vero e proprio dovrebbe riguardare Bharat e Dhanraj, ma solo Karan può assicurare la supremazia di uno dei due. Dhanraj ha per Karan l'affetto che si può avere per un fratello maggiore, unito a un rispetto che rasenta la venerazione per la sua intelligenza, la lungimiranza e la capacità di centrare sempre l'obiettivo che si prefigge: con lui a fianco, Dhanraj si sente certo di battere i cugini. Ma lo sa anche Bharat ed è per questo che fa un piccolo tentativo per tirarlo dalla sua parte. Da un lato, ciò acuisce in Dhanraj il rancore verso Bharat, che sfocerà poi in un odio mortale; dall'altro, accentua l'ostilità di Bharat verso Karan: anche questo sentimento diventerà odio mortale.

I fratelli di Bharat non hanno verso Karan lo stesso atteggiamento: Dharam, mite e introverso, critico della spregiudicatezza di Bharat, per Karan ha un grande rispetto, se non simpatia, per le sue capacità; Balrāj, materialista ma bonario di carattere, non gli manifesta una particolare ostilità, almeno fino alla morte del figlio. Solo Dhanraj e Bharat, nelle due famiglie, appaiono divorati dal bisogno di potere; nel caso di Dhanraj, si tratta di un potere personale che diventa autoaffermazione contro i cugini e soprattutto contro il più pericoloso, Bharat. Nel caso di quest'ultimo, invece, il fine che lo spinge in un primo momento è la supremazia della propria famiglia rispetto alla famiglia rivale: il potere non ha, cioè, un carattere personale. In seguito, la conquista del potere diventa autoaffermazione contro Karan. Gli altri vengono attirati dalla forza gravitazionale di queste due diverse spinte.

Rispetto al potere, Karan è indifferente, perciò è sempre lucidamente consapevole delle vie da percorrere per conquistarlo. Il potere in sé non lo riguarda, se non nella misura in cui, facendo pendere la bilancia a favore di Dhanraj, riesce a tenere in scacco Bharat. Non si tratta di una ragione di vita, a differenza di quanto accade nel poema: tutto si mantiene sul filo di un gioco, tutt'altro che leale, ma non più di questo. Questo gioco diventa mortale solo quando in Bharat l'ostilità per Karan si trasforma in ansia di furiosa rivalsa e infine in sete di vendetta. Solo allora, atterrita dai sentimenti che legge in Bharat, Savitri cerca di intervenire; ma il suo intervento non fa che affrettare la tragedia. Nel poema, Kunti tace quando dovrebbe parlare e parla quando è troppo tardi; come lei, tacciono coloro che conoscono la verità. Anche nel film, il silenzio colpevole e la rivelazione tardiva della verità precipitano gli eventi verso un epilogo tragico e non risolutore.

Conoscere la verità si rivela psicologicamente fatale per Karan e lo spinge all'autodistruzione. Prima di sapere, tutto ciò che aveva e che era lo doveva alla generosità di una grande famiglia che lo aveva allevato come uno dei suoi: la gratitudine dava a Karan il potere di dominare gli eventi. Quella generosità ora rivela un volto più meschino, compensazione di ciò che era un suo diritto – almeno quanto lo era degli altri tre fratelli carnali – e di cui era stato deliberatamente privato, per diventare agli occhi del mondo e dei suoi stessi consanguinei un bastardo. Ogni suo comportamento d'ora in poi equivale a un tradimento: o verso Dhanraj, il solo che l'abbia amato come un fratello e rispettato, o verso i fratelli di sangue, verso Bharat che l'ha sempre disprezzato, invidiato e odiato. Devastato da questo dissidio interiore, Karan perde la lucidità e la freddezza che lo rendevano inattaccabile e soccombe, come accade al Karn del Mahabharat, che "dimentica" la formula per ottenere l'arma fatale nel momento del duello con Arjun. Come nel poema, anche nel film, il fine agognato (il potere) segna al tempo stesso la fine per i vincitori, precipitandoli in una sorta di entropia dell'anima.

Il potere è il motore della vita di quasi tutti i personaggi ed impronta di sé ogni altro rapporto, compresi i legami affettivi e familiari, aspetto che si evidenzia soprattutto attraverso i personaggi femminili. Questi sono talora creature quiete e gentili, esseri senza voce che vivono all'ombra dei mariti, come nel caso di Vibha, moglie di Dhanraj, e di Kiran, moglie di Balraj. Quest'ultima rivela nel privato una natura sensuale: il suo corrispettivo nel Mahabharat è Hidimba, l'appassionata moglie rakshasi (demonessa) di Bhim. Questa passionalità si esplica quando si trova sola con Balraj, di cui asseconda lietamente ogni desiderio. Davanti ai familiari e in pubblico, anche Kiran tende a mimetizzarsi e a sparire.

Ben diversa da loro è Supriya, che regna vigile su tutti i componenti della famiglia. Moglie lo è solo di nome: il matrimonio con Dharam è stato un'esperienza insoddisfacente per entrambi. Dharam, debole di carattere, di natura gentile e spirituale, non può reggere il confronto con la fredda e determinata ambizione di Supriya, che non accetta un ruolo subalterno come le altre donne della casa, né si accontenta di essere una moglie adorata e rispettata. Questo personaggio – molto efficacemente disegnato dall'interpretazione di Rekha, quasi solenne nel suo fascino insolitamente gelido – è la negazione del femminile indiano: né si identifica nell'essere tutto sensi e niente cervello, rovina delle aspirazioni sublimi dell'uomo, né è la pativrata [la sposa che costantemente venera lo sposo come un dio] cantata dai poeti. Supriya non riconosce la posizione che le sarebbe assegnata nell'ambito della famiglia, rifiuta di confondersi nel branco delle donne per comparire invece – lei sola – al fianco e spesso davanti ai "suoi" uomini, per i quali comunque non nutre un vero trasporto amoroso o carnale. Come Bharat, anche Supriya è guidata dalla sete di potere, l'unica vera passione che li anima e li accomuna. L'amore – per entrambi – è solo una parentesi di riposo, mentre il sesso è, nel migliore dei casi, un momento di piacere; più spesso, è un mezzo per arrivare a una meta. Per queste sue anticonvenzionali caratteristiche di individualità, al di fuori del sistema delle norme, il personaggio di Supriya si avvicina a quello di Karan.

Come Supriya è guidata dall'ambizione – una spinta che annulla ogni altro sentimento in lei – Subhadra è guidata e perduta nell'amore per Bharat, totalmente estranea al meccanismo che regola i rapporti delle due famiglie, di cui non avverte le tensioni, se non quando evolvono in dramma. Nella spirale di odio che coinvolge tutto e tutti, resta soffocata anche la sua spontaneità, la sua freschezza e le sue illusioni. Dopo la catastrofe, mentre il romantico eroe dei suoi sogni giace sul letto, ubriaco e distrutto, Subhadra rimane paralizzata e annichilita da un evento più grande di lei: si lascia passivamente mandare fuori dalla sua camera da una fredda e sicura Supriya, venuta a raccogliere le rovine di Bharat.

Accanto a queste figure femminili, che rimandano l'immagine composita della "moglie", prendono forma e spessore le presenze silenziose e sofferte delle "madri", Devki e Savitri. Apparentemente fragili e remissive nei confronti degli uomini della famiglia, esse rivelano uno sguardo capace di penetrare i recessi più torbidi della mente dei loro figli, senza tuttavia riuscire a trovare la determinazione e il coraggio per intervenire tempestivamente. Così Devki, dopo aver perduto il figlio minore, assiste impotente al progressivo degrado psicologico di Dhanraj, incapace di trovare una via per arrivare al groviglio di odio, frustrazione, delusione e dolore che sta lentamente soffocandolo. La stessa debolezza di fondo si ritrova nel personaggio di Savitri, anche lei consapevole del cancro che corrode dall'interno Bharat. Il suo maldestro e patetico tentativo di rimettere la soluzione nelle mani di Karan risulta la scelta più infelice, più tragica e più crudele per le due famiglie.

Kalyug è un film d'interni, che sono a un tempo fisici e psicologici. Ne deriva un ritmo lento e dilatato, in cui coesistono due piani narrativi, spesso in collisione. A una lotta psicologica violenta e senza regole, risponde un dialogo pacato e anche frivolo, creando un'atmosfera irreale e carica di una tensione che a tratti ha connotati isterici, per ricomporsi in un altro instabile equilibrio, fino al crollo finale. Questa cupa e progressiva discesa all'inferno viene rischiarata per un attimo dalla luminosa freschezza di Subhadra, un ruolo in cui si affaccia sugli schermi indiani Supriya Pathak, destinata a diventare una delle attrici più presenti nel cinema hindi, soprattutto in quello "parallelo". Tra le prove migliori va annoverata quella di Shashi Kapur, calibrato ed intenso come raramente ha avuto modo di essere, efficace nel contrasto con i freddi isterismi del Dhanraj di Victor Banerjee e la vigorosa asprezza di Anant Nag nel ruolo di Bharat. L'interpretazione è uno degli aspetti più curati del film, anche perché l'azione è interamente affidata al dialogo – sia verbale che mentale – che determina l'evolversi dei rapporti tra i personaggi. Quanto alla lingua del film, si tratta di una parlata particolare, con una struttura sintattica hindi e un lessico in buona parte inglese o con frequenti passaggi da hindi a inglese in uno stesso discorso. È una hindi usata abbastanza spesso in ambiente metropolitano, intellettuale o alto–borghese, molto efficacemente riportata, ad esempio, in un romanzo di questi anni, Lekin darvaza (Ma la porta, 1982) di Pankaj Bishth. A proposito di questa lingua e di Kalyug, il regista Manmohan Desai [1936-94, il più famoso regista del cinema popolar-commerciale] ha commentato una volta, con una punta di malignità: "Mi piacerebbe rivedere quel film, ma con i sottotitoli in hindi!"

Cecilia Cossio
da Cecilia Cossio, 1993, Shashi Kapur. Una stella coperta da una nube, Cesviet, Milano, pp. 108-117.