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Kairo

Giappone

Kiyoshi Kurosawa si conferma come uno dei più abili artefici di storie di fantasmi. Kairo prosegue la strada intrapresa con Korei, amplificandone la portata e l'intensità.

KAIROdi Kurosawa Kiyoshi

Kiyoshi Kurosawa si conferma come uno dei più abili artefici di storie di fantasmi. Kairo prosegue la strada intrapresa con Korei (visto a Locarno l'anno scorso) amplificandone la portata e l'intensità. Il fantasma per Kurosawa non ha nulla del ritornante, che insieme alle fattezze recupera anche la banale psicologia. Il fantasma è il vuoto lasciato da chi ci stava attorno. Non è il fin troppo carnale essere che ossessionava il cinema americano anni Sessanta (cui Kurosawa guarda con affetto), ma è l'assenza di ogni possibile presenza. È l'ansia che taglia il respiro. Il corpo dell'assente si dà solo in visioni periferiche, di scorcio e per brevi attimi. Oppure si realizza a pieno nel nulla del digitale. È questa la vera dimensione parallela istituita dal film, che a poco a poco invade – sostituendosi al "pericolo rosso" della serie B americana – il nostro orizzonte.

Come accadeva in quei film di fantascienza, lo svelarsi della trama e della sua simbologia (un virus contenuto in un software, che modifica il comportamento delle persone inducendole al suicidio) è poca cosa rispetto alla forza della rappresentazione. Kurosawa non è autore da lanciare moniti al mondo, i suoi messaggi sono iscritti nelle nostre paure che ci fanno leggere nei suoi film di genere percorsi catastrofici verosimili. Tutta l'abilità del regista sta nello sviluppare atmosfere terrificanti partendo da pochissimi elementi. Una casa-laboratorio-serra in cima ad un grattacielo, un programma che vive di vita sua, un gruppo di giovani che uno dopo l'altro scompaiono. Il cinema di Kiyoshi Kurosawa, quando è al suo meglio, tende ad un'assoluta semplicità: oppone corpi e luoghi in una gara ad eliminazione tanto drastica quanto inevitabile. Quasi ogni sequenza rinnova la lotta dell'uomo nei confronti della forza intrusiva dello spazio che sta abitando. In Kairo l'uomo lotta per non essere inghiottito dalle forme inorganiche che lo circondano. Ciò nonostante, alla fine, sarà il luogo a sopravvivere all'uomo.

È la poesia desolata degli spazi abbandonati, della città vuota, ripresa come se la periferia fosse diventata la regola. Immagini in cui il surreale si aggiunge all'onirico, creando un effetto di raddoppiamento del tutto singolare. Dall'altra parte,in funzione di resistente, sta la solitudine dell'incipit-conclusione (tutto il film è racchiuso in lungo flashback). È l'uomo solo con se stesso, abbandonato dai suoi cari e circondato dal nulla, a costituire la vera visione orribile. Non c'è spettacolo più tremendo dell'essere, ridotto ad effige che si scioglie in una macchia d'umidità sul muro. In questo processo d'annullamento Kairo tocca il punto più profondo dell'orrore urbano. Le fughe delle giovani di fronte alla danza macabra della nera figura che le pietrifica sono fughe da sé, dall'isolamento che il fantasma ci rivela, per andare a cercare, in un posto vicino-lontano, una mano amica cui appoggiarsi (quest'etica della solidarietà è il dato su cui convergono altri film apocalittici visti recentemente: vedi per tutti il cult movie, Battle Royale di Fukasaku Kinji). In questo senso si spiega anche il cammeo concesso a Yakusho Koji, icona del cinema di Kurosawa, capitano di una nave incaricata di raccogliere ai quattro angoli del mondo i dispersi e di fare resistenza, finché si può.

Carlo Chatrian