Asiamedia

Jom‘e

Iran

Al suo esordio cinematografico, Hasan Yektâpenâh, già assistente alla regia di ‘Abbâs Kiârostami e Ja‘far Panâhi, porta sullo schermo la solitudine e l'emarginazione di un bracciante agricolo afghano emigrato in Iran.

JOM'Edi Hassan Yekpatanah

 

Non c'è dubbio. Esiste una liturgia del cinema iraniano, così come esiste una poesia di quel cinema. E, naturalmente, i due elementi sono contigui tra loro. La liturgia del cinema iraniano si esplica nel lavoro sui paesaggi, nel ruolo che il territorio assume in quel cinema (preponderante, come non avveniva dai tempi di John Ford), nella presenza di bambini che vivono la propria educazione sentimentale alla vita e che al tempo stesso giustificano le ripetute dichiarazioni d'amore da parte di tutti i più importanti registi di quel paese nei confronti del neorealismo italiano. La poesia, ovviamente, si poggia sullo stesso sguardo ma riesce a trasformare in tensione narrativa quello che altrimenti potrebbe essere solo esotismo da esportazione, buono soprattutto per il mercato occidentale attratto da ciò che è lontano purché sia riconducibile ai canoni estetici e alla filosofia dell'Occidente stesso.

Jom'e, diretto da Hassan Yekpatanah, rientra sicuramente nel cinema iraniano che vale la pena di essere visto. Il regista viene infatti da una gavetta di lusso (è stato assistente di Abbas Kiarostami e di Jafar Panahi, rispettivamente per Il gusto della ciliegia e per Lo specchio), e con il suo film si porta via l'ex aequo della Caméra d'or. Racconta una storia di campagna, che vede il protagonista lavorare in un paesino sperduto facendo il giro delle varie fattorie per raccogliere il latte. Non è iraniano, è afgano, ma non soffre particolarmente il fatto di non trovarsi tra la sua gente e la naturale diffidenza da parte dei contadini. Ma il tran tran quotidiano risulta alterato per sempre quando il giovane si innamora di una ragazza iraniana.

L'elemento più interessante del film è la delicatezza con la quale vengono raccontati i sentimenti: gli sguardi e i fuori campo diventano una sorta di pudore primario, che ben si accompagna alla storia semplice che il film vuole narrare. Anzi, i tratti asiatici sul volto del giovane Jom'e acquistano via via un'intensità che nelle prime scene la macchina da presa non è in grado di regalare; a dimostrazione che lo sguardo del regista sa modificarsi ed è capace di modificare la storia che viene raccontata. Anche il ritmo narrativo cambia: quando l'equilibrio dei fatti viene modificato, spariscono i campi lunghi e l'incedere diventa molto più nervoso. Un esordio che fa pensare al fatto che dovremo tener d'occhio un altro regista di quel paese, e che ci fa riflettere sull'incapacità crescente di raccontare nel cinema occidentale.

Stefano Della Casa
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