Asiamedia

Il vettore orizzontale dell'esistenza umana

Giappone

Conversazione con Suzuki Seijun, Venezia 2001, in occasione della proiezione del film Pistol Opera.

IL VETTORE ORIZZONTALE DELL'ESISTENZA UMANA Conversazione con Suzuki Seijun, Venezia 2001

Pistol Opera segue, seppure a distanza di dieci anni, la sua ormai celebre trilogia (Zigeunerweisen, Kageroza, Yumeji) dedicata al periodo Taishō (1912-1926). In particolare in Kageroza, lei aveva effettuato un'insolita lettura in immagini del complesso mondo di Izumi Kyōka, recuperando di questo scrittore soprattutto l'assetto narrativo, proponendo cioè gli elementi strutturali per ellissi e obliterazioni, per poi svelarne tutti i tasselli in un finale unicum visionario. Uno stile che sembrerebbe riproporsi intatto anche in questo suo nuovo film.
Idealmente, Pistol Opera si colloca alla fine del periodo Shōwa (1926-1988). In effetti, però, anche se l'intenzione non era quella, mi rendo conto che in fin dei conti continuo a proporne varie costanti. Il mondo esplorato da Izumi Kyōka, in sostanza, si basa sulla ricerca di elementi in grado di rappresentare al meglio i personaggi muliebri, soprattutto da un punto di vista estetico. Per esempio, anche se il personaggio femminile viene assassinato, in che modo se ne può esprimere la bellezza senza mostrarne la sofferenza? È una caratteristica nota come una delle peculiarità di questo scrittore, ma di sicuro ne sono stato influenzato.
 

Sempre in attinenza con Izumi, anche la sofisticatezza delle sue opere è preponderante, seppure a volte usata con ironia.
(Ride) Eh sì, scivola anche nella parodia. Mi interessa molto cogliere l'estetica che filtra da ogni specifico periodo: quella peculiare di Taishō, per esempio, o quella che si sviluppa in Shōwa. È un'estetica sofisticata perché appartiene a uno sviluppo storico preciso, di un determinato periodo. Inoltre, la ricchezza degli elementi visivi di queste epoche si presta in modo ideale al cinema, cioè al mondo dello sguardo.

Icone occidentali e giapponesi si sovrappongono senza apparente nesso: gli stivali indossati sotto il kimono, il killer occidentale che risponde agli stereotipi nipponici sugli americani...
Quell'occidentale mi è capitato di incontrarlo per caso mentre lavoravo alla ricerca delle location, in realtà non è un attore professionista. Era perfetto proprio perché sembrava modellato sui luoghi comuni verso gli occidentali, per esempio nella sua possenza fisica. Però, nonostante comprendesse il giapponese, non riuscivo a fargli capire cosa intendevo fare io, direi anzi che era del tutto negato.

Cosa significa il fatto che non prova dolore?
A quanto pare, esistono davvero delle persone che non provano il dolore. In questo caso, in qualche modo è parodico di un cliché di giapponesi che non provano dolore psicologicamente.


Nei suoi film, spesso utilizza come attori personaggi famosi di altri campi. Per esempio, Watari Tetsuya in Il vagabondo di Tokyo, in Yumeji il cantante Sawada Kenji e l'attore di kabuki Bando Tamasaburō. In Pistol Opera, infine, le due interpreti sono in realtà due famose modelle.
A dire il vero, nel caso di Il vagabondo di Tokyo, Watari era soprattutto un attore. In quel periodo, alla Nikkatsu, ad alcuni attori veniva richiesto di cantare, era un vincolo imposto dalla casa di produzione. Anche Watari aveva dovuto accettare, volente o nolente, e suo malgrado era diventato molto famoso come cantante. Comunque, non c'è un motivo preciso per cui ricorro a persone che provengono da campi differenti da quello cinematografico. Per esempio, Bandō è stato scelto attraverso delle conoscenze del produttore, per un motivo direi di matrice politica. D'altra parte, però, trovo che sia interessante che un attore, provenendo da altri campi, possa apportare alla propria recitazione parte di quelle esperienze. Nel caso di Bandō, per esempio, l'influsso teatrale nella recitazione in Yumeji potenzialmente era in grado di infondere un senso e un'estetica differenti rispetto a quelli concepiti per il film.

Lei ama scucire la linearità del racconto inserendo interferenze o ricorrendo a variazioni totali di scena.
Perché non mi interessa un'armonia di facile fruizione, trovo più interessante un disordine che è proprio del sentire. Ciò vale anche per la base musicale: trovo interessante che vari anche all'interno dello stesso film, come è normale nel corso della vita. Direi quasi che aiuta a non far annoiare lo spettatore (ride).

Ci sono molte attinenze con il mondo dei manga, soprattutto nelle ampie parentesi di apparente nonsense.
No, è il contrario, sono io il precursore dei manga (ride). Prendiamo il nonsense: non è così improbabile, il mondo intero non ne è forse costituito?

In Pistol Opera ripropone il tema della morte irrisa già dalla prima scena in cui il killer, appena assassinato in cima alla stazione di Tōkyō, conclude la vita con un sorriso amaro. Quale significato?
In molti miei film, così come in Pistol Opera, si parla di assassini, di gente che tradisce la natura e vive a un passo da entrambe la vita e la morte. Ma è proprio questo loro aspetto che li rende affascinanti, proprio perché in noi questa caratteristica manca e la morte, nel quotidiano, ha delle connotazioni decisamente meno affascinanti di quelle di un assassino che si espone a una fine tragica. La morte in questi personaggi assume anche un aspetto ludico, a volte più vicina a un gioco di finzione, altre decisamente più reale.

Ricorrono anche, come nella trilogia Taishō, molti elementi di matrice teatrale, per esempio maschere di kabuki o spettacoli di butō, tutti però alterati dalla forma originale e dalla violenta valenza visiva.
Se mi chiede perché utilizzo immagini teatrali, per me è difficile rispondere. Credo che il cinema giapponese in sé nasca dal teatro, soprattutto dal kabuki, e che tuttora ne conservi molte caratteristiche. Del resto, il cinema si compone di varie contaminazioni, e non solo teatrali. Possono esserci delle correnti artistiche che vi confluiscono, così come letterarie. Le contaminazioni diventano parte attiva e dotata di una personalità propria perché si rivelano in una grammatica differente. L'importante, per me, è riuscire a offrire agli spettatori degli elementi abbastanza forti da non passare inosservati, qualcosa in grado di lasciare dei segni che perdurino anche dopo la fine della proiezione.

È la prima volta che ricorre al computer graphic?
Sì, è la prima volta. Non avrei potuto rendere in modo così forte la prima scena, quella della stazione di Tōkyō, senza l'aiuto del CG. Ho potuto giocarci molto, anche se tendenzialmente resto un artigiano dell'immagine e continuo a preferire la manualità alla tecnologia.

Nel film ricorre l'immagine (in parole, nei movimenti) di un percorso che si sviluppa su un asse ideale tracciato orizzontalmente da sinistra a destra.
È il movimento che compie la vita. Mi interessava mostrarne il fluire e il vettore prevalentemente orizzontale dell'esistenza umana. Con la stessa immagine utilizzo il treno che si muove da sinistra a destra, o la corsa del cane. Nello spazio tracciato da quel movimento, proprio come nella vita, ci saranno molte cose che accadono e si sviluppano.

Lo stesso arco temporale rappresentato dalle tre generazioni femminili, cioè la bambina, la protagonista e l'anziana donna?
Sì, ma in questo caso l'unico personaggio che sopravvive è viceversa quello della donna più anziana.

La galleria degli orrori è strutturata come un anomalo circo.
Il circo in Giappone, in origine, è di derivazione occidentale, ma esistono dall'antichità molte forme di spettacolo autoctone che se ne avvicinano e che mi affascinavano già da quando, bambino, assistevo alle loro performance. Queste arti nel mio paese erano in particolare legate all'idea dei fantasmi e del terrore, oltre che delle aberrazioni fisiche, il che le differenzia dal circo di classica concezione occidentale.

In una scena, vediamo una parete bianca con su dipinti i volti di quanti hanno avuto un posto di rilievo nella storia umana.
Non l'abbiamo dipinta noi, l'abbiamo trovata già così. È stato proprio un caso: ci trovavamo a Ashikawa dove esiste una nota scuola di pittura. A quanto pare, quei murales sono opera degli studenti di quella scuola. Sono davvero molto belli, è stata una fortuna poterli inserire nel mio film.

Ci spiega il significato del sogno legato allo scrittore Mishima e dell'impossibilità di ricucirne il capo?
Quel sogno l'ha fatto davvero una persona, un mio conoscente, l'idea mi è venuta proprio dal suo racconto. Io ho fatto in modo che nel film a sognarlo fosse però una donna, perché ritengo che le donne provino i sentimenti e le sensazioni con più incisività e forza rispetto agli uomini.

È plausibile legare a questo sogno anche l'immagine del fungo atomico di una delle scene successive?
A dire il vero, l'idea iniziale per quella scena era di ricreare una situazione che facesse pensare più alla Divina Commedia di Dante che non all'esplosione atomica, ma per una questione di budget ho dovuto rinunciarvi.

La contraffazione, l'alterazione, la stilizzazione, sono elementi ricorrenti in parte del nuovo cinema giapponese, nell'opera di giovani registi che in modo evidente si ispirano a lei. E' un modo di creare ansia per quanto non si conosce o quale scopo?
(Ride) Quelle scene le capisce solo chi le ha riprese, non certo chi le vede, solo chi le ha ideate sa cosa rappresentano.

A quale tipo di pubblico pensa di indirizzare Pistol Opera?
Premetto che la scelta di pubblico ora diventa di competenza di chi ne curerà l'aspetto pubblicitario, ma penso che come aspetto visuale e velocità delle scene potrebbe far pensare a un pubblico giovane, anche se dalle retrospettive che mi sono state dedicate si è notato che l'affluenza di pubblico alle proiezioni dei miei film era tutto sommato molto varia come fasce d'età.

Un accenno alla sua ormai emblematica decostruzione di generi filmici?
Beh, direi piuttosto che mi piace soprattutto decostruire i cult.

Maria Roberta Novielli