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Il ritorno dei mutanti

Giappone

Incontro con Tsukamoto Shin'ya, Venezia 1997.

A soli quattordici anni - e con una 8mm - incomincia l'attività di Tsukamoto Shin'ya, oggi probabilmente tra i giovani autori giapponesi più noti in Occidente.

IL RITORNO DEI MUTANTI Incontro con Tsukamoto Shin'ya, Venezia 1997

 
Tsukamoto Shin'ya in un recente incontro presso l'istituto giapponese di cultura

A soli quattordici anni - e con una 8mm - incomincia l'attività di Tsukamoto Shin'ya, oggi probabilmente tra i giovani autori giapponesi più noti in Occidente. Figlio di un grafico pubblicitario, sin dall'inizio Tsukamoto considera il mezzo filmico uno strumento trasversale, in grado di avvicinarlo alle più disparate esperienze artistiche. Al momento della laurea in arti figurative, con specializzazione in pittura a olio, ha già girato sette film con la sua 8mm e costituito un proprio gruppo teatrale di cui, oltre che regista, è anche attore e sceneggiatore. Con questo gruppo egli mette in scena opere "underground", ispirate ai grandi movimenti scenici del periodo, come quello di Terayama Shuji, cui abbina, a soli diciannove anni, la costruzione di un "cinematografo mobile", un tendone itinerante in cui proietta i propri film. Affascinato dai vari Gamera e Ultra Q, l'adolescente Tsukamoto divora ogni genere di film, esperienza necessaria per capire ciò che non vorrà mai realizzare. Dopo la laurea, lavora per quattro anni in uno studio pubblicitario, dove si occupa in particolare di montaggio. Ben presto tuttavia riemerge la necessità di realizzare qualcosa in proprio. Così limita l'impiego a un semplice part-time e ricostituisce un gruppo teatrale, che chiama, dall'immagine di esseri mostruosi che si aggirano per la città con le sembianze a metà tra pesci e insetti, Kaijū Gekijo (Teatro dei mostri marini).
 

Nel 1986 gira Futsu saizu no kaijin (Mostri di dimensione normale) da cui nasce in parte l'idea del futuro Tetsuo. Con il successivo Denchū kozō no bōken (Le avventure del ragazzo del palo elettrico) vince il Gran Premio al Pia Film Festival. Nel frattempo avvia le riprese di Tetsuo, con cui vince il Gran Premio al Fantafestival di Roma. Tetsuo è un film shock per le giovani generazioni, allora affascinate dalla dimensione cyberpunk di Tōkyō, già più volte rappresentata dalla letteratura e dai manga. Nel film, caratterizzato da un'estrema libertà di movimento della macchina da presa, si succedono scene veloci e violente, dove Tsukamoto sapientemente calibra il mutare dei corpi. Attraverso i toni del bianco, del nero e soprattutto del grigio, il metallo fuso con la carne invade ogni spazio dell'immagine, abolendo il confine tra onirismo e realtà. Il procedimento tecnico veicola un messaggio di totale rifiuto della società dei "colletti bianchi", dove il sentimento si assoggetta al sociale - come avverrà poi anche in Tetsuo II e in Tōkyō Fist. La sinuosità erotica formale dei manga, a cui Tetsuo sembra guardare, si anima in effetti di una spigolosità che la rende stridente. Se nelle opere di Tsukamoto si ritrovano numerose analogie con i vecchi mostri del cinema giapponese e, in un certo senso, anche con il noto Akira di Ōtomo Katsuhiro, emerge però una concezione devastante dello spazio, che impone una nuova realtà della forma.

Grazie al successo internazionale di Tetsuo, la casa di produzione Shochiku offre al giovane regista la possibilità di girare un nuovo film, Hiruko, con un budget elevato e interpreti famosi, tra cui il cantante Sawada Kenji e il regista-attore Takenaka Naoto. Questo film è l'occasione per misurarsi con un soggetto familiare, quello delle opere per ragazzi che erano servite da riferimento ai suoi primi tentativi registici. In quest'occasione il genio visionario di Tsukamoto deve in qualche modo assoggettarsi alla logica della major, tanto che Hiruko risulta un film anomalo rispetto alle altre opere. Dopo quest'esperienza, Tsukamoto torna alla totale indipendenza con Tetsuo II - Body Hammer, un seguito di Tetsuo, girato a colori. Anche qui, come già nel primo episodio, l'utilizzo di squarci di luce sul buio dell'ambiente, metafora della lotta, diventa predominante. Soprattutto in virtù dell'utilizzo di un blu metallico in cui corpi e materia si amalgamano e si dissolvono. È la stessa tinta usata per il successivo Tōkyō Fist, in cui la carne diventa più marcatamente rossa, colore dalle valenze erotiche e dalla forza devastante. La boxe, tessuto narrativo del film, è nella metafora il linguaggio primordiale con cui l'uomo si afferma sul suo habitat, oltre che unico mezzo per ridefinire il corpo e ritornare al sentimento.

Tsukamoto sta attualmente terminando le riprese del suo ultimo film, Bullet Ballet, un seguito dei due Tetsuo, dove la lotta tra l'uomo e la città si estende a quella tra due generazioni di "mutanti". La storia è ambientata nella Tōkyō di fine millennio, diventata ormai un'enorme "cyberspazio" in cui gli esseri umani vivono come ombre, incapaci di ogni sentimento. In questo scenario apocalittico la violenza viene usata come strategia per testare la fragilità umana. Con Bullet Ballet Tsukamoto torna al bianco e nero del primo Tetsuo, il tono adatto - a suo dire - per tradurre il carattere "traslucido" dei personaggi e dar così forma ai corpi, al di là della loro consistenza mortale. Di quest'ultimo film e del suo cinema in generale parliamo con l'autore, in occasione della sua trasferta veneziana, in qualità di giurato.

Già dal primo Tetsuo, al centro di quasi tutte le tue opere sta la trasformazione del corpo in direzione della metropoli, in cui le storie sono ambientate.
Io sono nato nel 1960. Sono cresciuto quindi in un clima di estrema dinamicità e attivismo. Nel dopoguerra Tōkyō era ridotta a un cumulo di macerie. Una città devastata dal fuoco, in cui non c'era più nulla dei segni del passato. La sua ricostruzione è avvenuta per gradi: mentre si ergevano gli enormi edifici, io crescevo con loro. La ricostruzione in sé è stata effettuata dalla generazione dei miei genitori: forse per questo, fino all'età di trent'anni, mi sono sentito protetto dalla città, un po' come se fosse mia madre, una città-sorella con cui, appunto, ero cresciuto. Avevo invece paura della campagna in cui vivevano i miei nonni, dove tutto era oscuro. Così a ogni mio ritorno a Tōkyō, mi risollevavo all'odore del gas dei tubi di scappamento. Sì, avevo paura della natura. Dopo i trent'anni, però, ho cominciato a considerare Tōkyō sotto una luce differente: un crocevia per gente giunta da ogni direzione, con nient'altro che cemento. Allora trascorrevo la maggior parte del tempo in casa: lavoravo per lo più con il fax o nei paraggi della mia abitazione e il mondo mi giungeva attraverso i notiziari televisivi o dai giornali. In pratica vivevo con la sola mente, quasi senza utilizzare il corpo. Di qui l'immagine della città che si restringe e al suo interno gli esseri umani, ormai inscatolati in stanze esigue, che operano solo attraverso i computer. Il cervello va ingigantendosi man mano che il corpo si riduce. Tetsuo nasce da quest'immagine terribile: dei corpi ormai ridotti al solo cervello e una città sempre più forte. L'uomo si rende conto di dover lottare contro di essa, utilizzando il proprio corpo, e fa in modo che la carne si trasformi parzialmente in ferro, per affrontare ad armi pari il suo avversario, per "sferrare un pugno" alla città. Il messaggio è quindi di speranza: che la città venga distrutta non da guerre o da ordigni meccanici, ma dal corpo degli esseri umani.

È un po' ciò che si riscontra anche in Tōkyō Fist.
Sì, anche se con Tetsuo, girato con uno stile a metà tra il manga e la fantascienza, potevo permettermi un messaggio più diretto di quanto abbia fatto con Tōkyō Fist. Il tema è però identico: la città opprime fino a ridurre e gradualmente eliminare le relazioni tra i corpi. I due protagonisti hanno dapprima intenzione di sposarsi, poi si rendono conto che in futuro dovranno sempre vivere in quella città, invecchiarvi, per ritrovarsi, un giorno, senza sapere come, in una stanza d'ospedale legati alla vita da una rete di tubi. Perciò si ribellano al proprio destino cercando di ridefinire il corpo, attraverso il piercing, la boxe, il contatto.

L'erotismo ricorre nei tuoi film, a volte in maniera sotterranea, ma è sempre esteticamente essenziale. Nella rappresentazione erotica dei corpi sottolinei spesso il carattere androgino di alcuni personaggi, in particolare quello interpretato da Fuji Kahori in Tōkyō Fist.
Sì, credo che l'erotismo sia una componente essenziale dei miei film, in particolare in Tetsuo II. Però ho la sensazione di averlo reso più implicito di quanto avessi inizialmente inteso fare. Mi ripropongo sempre di esaltare l'aspetto erotico in ogni mio nuovo film, ma al momento di avviare le riprese, questo passa quasi in secondo piano rispetto al resto. Da Tetsuo a Tōkyō Fist ho perso molto in termini di pulsione erotica. So di doverla recuperare, un po' perché il pubblico preferisce assistere a scene erotiche, un po' perché effettivamente eros e carne sono connessi. Per quanto riguarda la scelta di Fuji in Tōkyō Fist, cercavo una donna che non fosse solo "femminile", ma che avesse anche l'energia necessaria per combattere un uomo.

Il che sottolinea ancora di più il legame "maschile" tra i personaggi dei tuoi film.
È vero, ma sono soprattutto personaggi di "un altro mondo". E la Fuji doveva essere capace di sostenere un'esplosione, al di là della sua femminilità o virilità.

Hai dichiarato in diverse occasioni di essere più a tuo agio in ambiti di fantascienza.
Certo, anche se Tōkyō Fist non rientra in questo schema. Preferisco la fantascienza perché permette l'utilizzo di un linguaggio in grado di supportare la mia visione della città. È il genere in cui la "serie di film su Tōkyō" (come io spesso definisco la mia opera) può essere sviluppata nella maniera più completa. La fantascienza è il mezzo per restare più neutri rispetto alla realtà.

Quanto è determinante la presenza di una città come Tōkyō?
A dire il vero, non penso di essere semplicemente un "regista giapponese", né tanto meno di avere la "coscienza" di essere giapponese. Però non conosco neanche gli altri paesi. Quindi non ho alcuna specifica coscienza nazionale. In Giappone ci vivo e basta. Per quelli della mia generazione non ci sono state esperienze storiche o politiche particolari, come grandi guerre o movimenti studenteschi. Diversamente, queste sarebbero diventate il tema dei miei film. Invece, visto che mi mancano punti di riferimento tangibili per la mia nazionalità, il tema diventa proprio la mancanza di tale coscienza. Poi, però, quando presento i miei film all'estero, tutti dicono che dalle mie opere è evidente la mia matrice nipponica. Così un po' per volta questa fatidica coscienza me la sto formando davvero, tanto che adesso preferisco girare film nel mio paese e nella mia città.

Dalla "downtown" di Yamada Yōji alla metropoli cyberpunk dei tuoi film, giungono in Occidente due Tōkyō.
I luoghi dei film di Yamada esistono solo fisicamente, ma quel mondo nella realtà non esiste. Per quanto mi riguarda, più che di Tōkyō cerco di parlare dell'uomo, anche se mi rendo conto che la mia descrizione viene immersa in una dimensione in cui difficilmente si identificherebbero coloro che vivono nella natura. Comunque Tōkyō sembra prestarsi particolarmente bene a letture in termini di metropoli cyberpunk, tanto che William Gibson vi ha ambientato il suo ultimo romanzo.

Il tuo nuovo film?
Bullet Ballet è un seguito dei due Tetsuo e di Tōkyō Fist. Il tema continua a essere il rapporto tra gli uomini, con l'idea che il mondo si concluda nell'individuo. Ma mentre in Tōkyō Fist la coppia aveva inizialmente intenzione di sposarsi, qui i protagonisti hanno superato l'età del matrimonio e del desiderio di procreare. In Bullet Ballet un'"emergenza sociale" di questo tipo non esiste più. Questo film segna anche un passo in avanti rispetto ai precedenti perché la lotta si estende ora a due generazioni, a quelli che definirei i "figli" e i "nipoti" di Tōkyō. Sono dei personaggi incapaci di dare un senso alla propria esistenza, che però cercano in maniera più elementare di definire in cosa consista la realtà dell'esistenza stessa.

Tōkyō Fist, a Locarno, era stato accusato di estrema violenza. Qual è per te un film violento e in che misura anche Bullet Ballet potrà definirsi tale?
A livello figurativo, probabilmente, Bullet Ballet non apparirà violento quanto Tōkyō Fist, ma la "violenza", almeno come è stata intesa finora, di sicuro c'è. Secondo me esistono vari tipi di violenza. Nei miei film essa è nella sua forma più primitiva, cioè nel rapporto diretto tra carne e carne. A volte hanno sottolineato un rapporto tra le mie opere e quelle di Tarantino. Ma per me i film di Tarantino, più che violenti, sono obiettivi. E la violenza, se espressa in modo tanto obiettivo, fa anche sorridere. Stesso discorso per i film horror, dove tutto è essenzialmente esplicito. Un film come Rocky IV, con quel colpo definitivo che dovrebbe sancire la fine di una guerra, mi sembra invece profondamente violento. Probabilmente perché è l'ambiente americano in sé che, abbinato alla forza fisica, esalta la brutalità. Cos'è la violenza? È la lotta tra paesi e la morte di tanta gente innocente.

Con Bullet Ballet ritorni per la prima volta dopo Tetsuo al bianco e nero...
Mi piacciono i colori e tra questi in particolare il bianco e il nero. A livello contenutistico, sono quelli che a mio parere esprimono meglio il reale. Nel caso di Tetsuo li ho utilizzati senza alcun particolare significato, visto che, insieme al grigio, erano le tinte più facilmente espressive, quelle più vicine al mio tema. All'epoca pensavo anche ad alcune opere del futurismo italiano da cui ero affascinato, immagini antiche per i nostri giorni, ma che tuttora infondono un senso unico di modernità.

E per l'azzurro di Tetsuo II e di Tōkyō Fist?
In questi due casi volevo trasmettere la sensazione che la città fosse di vetro e quindi facilmente frangibile. In entrambi i film i corpi sono invece rosso-arancio, cioè definiti cromaticamente come quella forma che gradualmente va mutando in metallo rigido. Così il corpo malleabile può diventare un martello capace di mandare in frantumi la città di vetro.

Tra i tuoi film, Hiruko è forse quello di cui si è meno parlato. Come è nata l'idea di girare questo horror per ragazzi?
In un certo senso Hiruko è stata l'opera più "naturale" per me. Da bambino guardavo spesso un programma televisivo per ragazzi che davano alla NHK, uno di quelli condotti dagli stessi bambini. Era sempre ambientato in paesaggi estivi (come poi ho scelto di fare con Hiruko) e io in fondo mi identificavo nel protagonista. Ho girato questo film per una grossa casa di produzione. Quindi disponevo dei mezzi per realizzare un mio vecchio sogno...

Quest'anno più che mai il cinema giapponese ha raggiunto una popolarità insperata, in particolare con produzioni indipendenti: con Unagi di Imamura a Cannes e Hana-Bi di Kitano a Venezia. Secondo te si può già parlare di una nuova età d'oro del cinema giapponese? E credi che l'affermarsi di produzioni indipendenti implichi in qualche misura una crisi delle note majors giapponesi?
Certo, questa nuova ondata di successi fa pensare ad altre età d'oro del cinema giapponese, per esempio al periodo di Kurosawa e Ozu, poi agli anni '60 di Ōshima, e anche agli anni '80 di Ishii Sōgo e Yamamoto Masashi, anche se quest'ultimo periodo si è esaurito prima ancora di diventare un vero e proprio movimento. Mi piace pensare che oggi i miei film possano contribuire allo sviluppo della cinematografia del mio paese: dopo una serie di premi vinti all'estero, la critica giapponese ha dovuto incominciare a interessarsi a me e ora rappresento per le nuove generazioni un esempio di come le difficoltà si possano superare. Fino a pochi anni fa, i registi giapponesi vivevano una specie di "sakoku" (politica di isolamento pressoché totale del paese, adottata in Giappone durante il periodo Tokugawa 1603-1867, n.d.t.) e non intendevano trasmettere nulla al di là delle pareti nazionali, mentre credo che il successo di Tetsuo abbia dimostrato che il referente di una nostra opera non dev'essere necessariamente il pubblico giapponese. In Giappone si è convinti che all'estero i propri prodotti non piacciano. Così ogni film premiato a livello internazionale fa aumentare la voglia di tentare nuove esperienze, per lo più negli indipendenti. Per le majors, infatti, un premio ottenuto in un festival straniero è subito offuscato dal calcolo del probabile tornaconto. Un indipendente, invece, si muove in ogni fase della lavorazione con un budget ridottissimo e quindi può piazzare un film all'estero senza sperare in un guadagno immediato, in attesa di un attivo a lungo termine.

In sintesi, potresti descrivere la situazione attuale della cinematografia?
Direi che la situazione è dura: il bilancio non è dei più rosei, anche se le opere migliorano sempre più a livello contenutistico. In assoluto io preferisco i film di Kitano che, pur riscontrando un ampio successo di pubblico, raggiungono sempre un alto livello artistico. Attualmente ci sono anche altri casi interessanti come Shall we dance? (titolo originale inglese; regia: Suo Masayuki, 1995, n.d.t.) che ha riportato nelle sale anche le vecchie generazioni, tipo quella di mia madre, che le avevano disertate per anni. Del nostro cinema del passato credo di aver visto quasi tutto: mi piacciono molto Kurosawa e Imamura, anche se non tanto l'ultimo Unagi. Gli altri registi dell'ultima generazione, come Takenaka Naoto e Ichikawa Jun, hanno quasi tutti adottato come modello il cinema di Ozu. Sembra che il "film alla Ozu" sia la vera novità di questi ultimi anni.

Maria Roberta Novielli