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Il montaggio proibito - conversazione con Suwa Nobuhiro

Giappone

In occasione della presentazione a Cannes nel 2001, Suwa Nobuhiro spiega la realizzazione di H-Story, remake "volutamente improbabile" di Hiroshima mon amour di Resnais. L'icona cinematografica di Hiroshima, il montaggio, il rapporto con l'attrice francese Béatrice Dalle.

IL MONTAGGIO PROIBITOConversazione con Suwa Nobuhiro, Cannes 2001


Suwa Nobuhiro è un cineasta per il quale inevitabilmente il "come filmare" è indissolubilmente vincolato al "cosa filmare". Tra le maggiori sorprese del Festival di Cannes, H Story non solo ha confermato quanto di buono M/Other aveva lasciato intuire, ma ha persino radicalizzato l'intransigenza formale di un cineasta severo (eppure dolcissimo), che si pone dietro la macchina da presa soprattutto per poter continuare a insinuarsi tra le pieghe del reale. Ciò che evidentemente sconcerta la critica che a Cannes ha frettolosamente abbandonato la sala durante la proiezione è che Suwa è chiaramente intenzionato a filmare solo ciò che il resto del cinema attuale invece evita con la massima cura. Cineasta del margine, delle superfici, della durata, della profondità di campo, Suwa pensa il suo filmare come un continuo interfacciarsi con gli strati non visti del reale. Sublime teatro di finzioni, luogo-narrazione di struggenti dichiarazioni d'amore, perimetro nel quale reale e finzione si cortocircuitano seducendosi instancabilmente, il cinema di Suwa agisce come un centro motorio dal quale irradiano impulsi concentrici di senso e segni. H Story sviluppa ulteriormente la poetica di Suwa. Muovendo dal presupposto della realizzazione impossibile di un remake di Hiroshima mon amour, il regista invoca una sconfitta ineludibile e giusta per consegnarsi a una libertà "inevitabile"... Venuta meno la commissione, resta il set, resta l'attrice (la sublime Béatrice Dalle), resta insomma la "possibilità di continuare a fare del cinema"; nonostante tutto. Ed è muovendo da questa "sconfitta" (non essere - volutamente? - in grado di realizzare il film richiesto) che sorge tutta la libertà di Suwa. Filmando in maniera completamente smarginata tempi e corpi (con i rulli che si esauriscono nello statico dinamismo di una visione ostinata...), Suwa tenta di ripristinare una necessità di cinema in una prospettiva genuinamente modernista in grado di rilanciare un pensiero critico, che restituisca alla messinscena la sua centralità perduta. Eppure, all'interno di un progetto formale di tale rigore e tenuta teorica, squarci desideranti di cinema inquieto screziano irriducibili l'atto stesso del filmare, innestando una circolarità aperta dello sguardo, che fatalmente s'affaccia sull'orrore indicibile del massacro nucleare di Hiroshima. Suwa Nobuhiro si offre così al nostro sguardo come l'ennesimo focolaio di resistenza di un cinema, che non intende cedere il testimone di un pensiero critico di fronte all'avanzare della globalizzazione dello sguardo e dei sentimenti. H Story è del cinema che vive soprattutto come "necessità di cinema". E in quanto ci obbliga a ripensare le funzioni del nostro guardare/vedere. 
 

H Story è un film radicale, che pone l'accento soprattutto sulla messinscena, in linea con un'idea di modernità che si ispira alla Nouvelle Vague. Come si è rapportato alla tradizione e alla memoria della Nouvelle Vague, non solo ovviamente nei confronti del film di Resnais, ma soprattutto per quel che riguarda la concezione stessa della messinscena?
Non ho realizzato consapevolmente un film "alla Nouvelle Vague". L'idea che sta alla base di questa corrente cinematografica e di pensiero fa parte della mia formazione personale: è impressa in me e non posso certo evitarla. Tuttavia non posso dire di essermi ispirato in maniera deliberata e cosciente ad essa, per quanto riguarda la messinscena.

In questo film il cinema si pone, ci è parso, come testimone del reale e al tempo stesso con uno sguardo fortemente "documentario". La camera non interferisce mai, esprimendo un forte sentimento di rispetto di ciò che accade davanti alla macchina da presa.
Tutto ciò che avviene davanti alla macchina da presa, che si tratti di un film di finzione o di un documentario, diventa automaticamente finzione. Ma io rifiuto in modo assoluto la grammatica dei film di finzione e non voglio entrare in questo gioco; anche se, al tempo stesso, non voglio neppure sentirmi bloccato da un'idea o da una decisione aprioristica. Per esempio in H. Story ci sono delle inquadrature costruite secondo le modalità del cinema di finzione.

In questo suo modo di lavorare, come ha affrontato il problema della distanza tra la macchina da presa e gli attori, tra la macchina da presa e il set?
La distanza varia nel corso del film. Rispetto agli attori esiste un'evoluzione, che si compie in un progressivo allargamento del campo, da piani ravvicinati fino a campi più ampi. Ho scelto di inquadrare la protagonista come nel film di Resnais. Così, nella prima parte ci sono soprattutto dei primi piani sul volto di Béatrice Dalle, necessari per cercare di cogliere i suoi moti interiori. Siccome lei è imprigionata nel testo del remake di Hiroshima mon amour, ho voluto che l'inquadratura la catturasse nello stesso modo. Poi, alla fine del film, uso piani totali. A poco a poco lo sguardo si allarga per includere ciò che accade intorno a lei. Non si tratta, però, di una cosa che ho pianificato prima dell'inizio delle riprese, ma di uno sviluppo successivo del film. All'inizio del film non si vedono che primi piani di Béatrice, per cui non si capisce dove essi siano ambientati. Certo, siamo ad Hiroshima e voi lo sapete: ma non potete vederlo. In effetti, io stesso non sapevo come filmare il paesaggio di Hiroshima all'inizio del film. Mi trovavo di fronte a due problemi da risolvere: che cosa stava succedendo dentro Béatrice e come avrei dovuto filmare Hiroshima. Solo alla fine del film ho potuto portare la macchina da presa in un luogo molto vicino a quello che fu l'epicentro del bombardamento, dentro l'edificio "del ricordo", chiamato "duomo del bombardamento", la cui immagine è molto conosciuta dai giapponesi, e credo anche dal mondo intero, perché è stata più volte fotografata. Io, però, invece di filmare l'esterno della costruzione, ho voluto ritrarne l'interno. Quindi l'ultima inquadratura è stata girata dentro questo perimetro.

Durante il processo di lavorazione del film è riuscito a trovare la sua particolare libertà nel filmare la memoria di Hiroshima?
Non so se l'ho trovata davvero, ma, in ogni caso, ho tentato di utilizzare dei piani molto diversi tra loro. Forse non ci sono riuscito ma è questo il risultato che volevo ottenere.

Lei si confronta in modo nuovo con ciò che Hiroshima rappresenta per l'umanità. Si pone non in modo esclusivista ma tentando di condividere la memoria di questa cosa «indicibile» con un'altra memoria. É molto bello che non si sia fermato alla propria memoria, al proprio dolore, ma che abbia incontrato altre esperienze sulla stessa memoria e sullo stesso dolore.
Per me, per il mio approccio al cinema, fare un film non significa parlare di me stesso. Il soggetto non sono io - né, in senso generale, lo è l'autore di un film - perché il mondo di una sola persona è un mondo troppo piccolo e ristretto. Il film è frutto del lavoro di più persone insieme e, grazie a questo confronto e a questa condivisione di esperienze, l'opera acquista una dimensione e si inscrive nello spazio. Io credo che il film sia fatto di relazioni che si stabiliscono tra le persone che vi partecipano.

Fondamentale ci è parso il montaggio, che sembra sgretolare il film anziché comporlo. Le inquadrature, i piani sequenza, sono lasciati scorrere fino alla fine, fino al loro esaurimento.
Il montaggio è stato effettivamente molto difficile. La produzione mi aveva accordato due mesi per fare il montaggio; ma io, alla fine, ne ho impiegati tre. Durante le riprese c'è sempre qualcosa che avviene per caso. Tuttavia non ci si può permettere di montare "a caso". Tutti i film si fanno in funzione di un'idea, ma sapevo che per questo non sarei riuscito a trovare una forma compatta sulla base di un'idea logica. Ho capito che non avrei potuto fare il montaggio seguendo una logica lineare. Così, alla fine, dopo aver tentato tutto il possibile mi sono deciso a montare il film seguendo una struttura musicale. Non so spiegarmi come sono arrivato a questa idea.

Il montaggio possiede il ricordo molto forte delle riprese. Sembra uno stile di montaggio che si fa testimone di ciò che è accaduto sul set e che non cerca di cancellare le difficoltà della lavorazione.
Gli amici che hanno visto il girato del film mi hanno consigliato di non montarlo affatto. Hiroshima mon amour unisce due luoghi molto lontani: Nevers, in Francia, e Hiroshima in Giappone. Le loro immagini normalmente non si possono montare insieme, ma Resnais ha operato questo montaggio. Io, invece, ho tentato di non montare. Volevo fare qualcosa di diverso, cioè tentare di non unire cose che non si possono unire. Per questa ragione ho scelto un montaggio come voi l'avete descritto, costruito per blocchi. Di solito, in sala di montaggio, si tende a tagliare quei pezzi finali delle inquadrature che non si incastrano con quelle successive: al contrario, in H Story, ho voluto conservare gli inizi e le conclusioni che, normalmente, non avrebbero dovuto essere montati. Si ha così l'impressione di blocchi giustapposti, perché ho capovolto il procedimento che sta alla base del film di Resnais, in cui il regista aveva montato cose di per sé non "montabili". Io ho voluto mostrare questa impossibilità e per farlo ho rispettato le inquadrature dall'inizio alla fine.

Vengono in mente le parole di André Bazin, che sosteneva la necessità del montaggio proibito, dell'impossibilità di montare cose che invece devono essere lasciate vivere. Il montaggio proibito e la durata dell'inquadratura ci sembra che collochino il film nel cuore stesso della modernità cinematografica. Si tratta di un fatto istintivo, di un'elaborazione teorica oppure del risultato del processo di lavorazione?
In linea generale io credo che le cose vengano prima del loro pensiero. Solo dopo sorgono le domande. Quando si pensa si impongono delle parole su qualcosa che già esiste. Parlando con voi, o ascoltandovi, do un nome a cose che esistono. Per esempio il sole c'è ancora prima che io lo chiami con questo nome. Il montaggio proibito di Bazin non lo conosco in modo specifico, ma lo pratico; e sento che esistono dei momenti in cui il montaggio dovrebbe essere proibito. Ne ho avuto conferma in questo film, per il quale non potevo assolutamente realizzare un montaggio tradizionale.

Da dove provengono le immagini di Hiroshima distrutta?
Da due fonti. Le immagini in bianco e nero sono state girate da registi indipendenti giapponesi subito dopo la guerra e sono le stesse che sono state usate anche da Resnais. Le immagini a colori, invece, sono dell'esercito americano e risalgono a sei mesi dopo il bombardamento.

Godard ha detto che faceva film perché gli piaceva filmare Anna Karina. Ad un certo punto di H Story abbiamo avuto l'impressione che per lei fare cinema fosse filmare Béatrice Dalle. Come si è posto il problema di filmare un'attrice come lei in un film dedicato a Hiroshima e alla memoria?
Innanzitutto, quando ho incontrato Béatrice per la prima volta, avevo visto molti film da lei interpretati e sapevo già come sarebbe stata. Tuttavia, contrariamente a quanto potevo immaginare, lei era davvero piena di vitalità, perché, prima di essere un'attrice, lei è sempre se stessa. Mi viene in mente una conversazione tra Godard e Bresson, in cui Bresson affermava di non aver mai utilizzato attori professionisti. Godard gli rispondeva che gli attori professionisti sono prima di tutto degli esseri umani, uomini e donne: quindi come si può dire che non si vogliono usare attori professionisti? Entrambi sono prima di tutto degli esseri umani. Fino ad ora ho sempre lavorato con attori professionisti e molto poco con attori non professionisti; ma anche per me gli attori sono prima di tutto degli esseri umani.

Nel film è molto chiaro che si tratta di un problema di comunicazione tra l'attrice francese e il resto della troupe. L'inizio è molto commovente, con la scena in cui l'aiuto regista e Béatrice cercano di comunicare. Lei parla francese, lui giapponese e sembra che si capiscano benché non facciano che dire il contrario. É la stessa situazione che si è verificata durante le riprese?
È assolutamente naturale che nel mio film ci siano delle incomprensioni tra una francese e un giapponese. Per esempio, nel film di Godard Il disprezzo c'è una troupe composta da francesi e tedeschi; e ci sono continuamente delle incomprensioni, che molto spesso diventano l'oggetto del film. Io, però, non ho mai avuto il problema della lingua, anche se non parlo francese...

Giona A. Nazzaro e Grazia Paganelli