Asiamedia

Il mirabile ciclo dei liquidi

Giappone

Acqua tiepida sotto il ponte rosso, è, prima di tutto, un film sulla necessità di contravvenire (alle leggi, alle convenzioni) per riaffermare i diritti insopprimibili della vita; e, insieme, su come sia ancora possibile comunicare l'urgenza di questa necessità. Il villaggio in cui Saeko vive non è collocato nell'utopia: alcuni princìpi di realtà vi appaiono – è vero – leggermente allentati, ma, nell'insieme, il corpo delle regole del vivere sociale generalmente riconosciute funziona come altrove. Per questo Saeko vi è guardata con sospetto ... comunque, qui la donna può esistere.

 

 

IL MIRABILE CICLO DEI LIQUIDI
Acqua tiepida sotto un ponte rosso di Imamura Shōhei

Titolo originale: Akai hashi noshitano nurui mizu. Regia: Imamura Shohei. Soggetto: dal racconto omonimo di Yo Henmi. Sceneggiatura: Tomikawa Motofumi, Tengan Daisuke, Imamura Shohei. Fotografia: Komatsubara Shigeru. Montaggio: Okayasu Hajime. Musica: Ikebe Shinikiro. Scenografia: Inagaki Hisao. Interpreti:Yakusho Koji (Sasano Yosuke), Shimizu Misa (Aizawa Saeko), Baisho Mitsuko (Aizawa Mitsu), Fuwa Mansaku (Gen), Kitramura Kazuo (Taro), Natsuyagi Isao (Uomi Masayuki), Kitamura Yukiya (Uomi Shintaro), Kojima Hijiri (Tagami Miki), Negishi Yoshie (Sasano Tomoko), Sakamotmiko (Yamada Masako), Gataru Kanaru Taka (Tachibana Taizo), Curtis Mickey (Ohnishi Nobuyuki), Nakamura Kazuo (Yamada Takao). Produttore: Nikkatsu Corporation/Imamura Production/Bap Inc./Eisei Kekijo/Maru Ltd. Distribuzione: Bim. Durata: 119'. Origine:Giappone,2001.

Yosuke, un uomo sulla quarantina, si trova senza lavoro e separato dalla moglie e dal figlio. Il suo vecchio amico Taro, un vagabondo che vive sui marciapiedi di Tokyo, gli racconta di aver nascosto, parecchi anni prima, in una casa situata vicino a un ponte rosso che dà sulla penisola di Noto, sul Mare del Giappone, un Buddha in oro che aveva rubato da un tempio. Taro gli chiede di andare a cercarlo e gli promette di regalarglielo in cambio del racconto del suo viaggio, ma muore improvvisamente.
 

Fedele alla promessa fatta e incuriosito dalle parole del vecchio, Yosuke parte per la penisola di Noto. Riconosce la casa sotto il ponte rosso e ne vede uscire una giovane donna, la bella Saeko. Non osa abbordarla, ma la incontra di nuovo per caso a un supermercato dove la sorprende mentre ruba dei formaggi. Saeko fugge, ma Yosuke trova per terra un orecchino e una pozzanghera d'acqua. Poi torna alla casa, dove viene accolto da un'anziana donna, Mitsu, e ritrova Saeko, alla quale restituisce l'o-recchino.
 

L'uomo è sedotto dalla ragazza, alla quale non riesce a resistere, e insieme è sconcertato dall'acqua che fuoriesce sempre più copiosa e sempre più forte dal suo corpo quando fanno l'amore. L'acqua straborda, scorre lungo il corridoio, nel canale di scolo, per arrivare al fiume. I pesci, attirati da quest'acqua, si ammassano, per la felicità dei pescatori che stazionano sulla riva.
 

Yosuke decide di fermarsi per qualche tempo e trova lavoro come pescatore. Gli viene raccontata la storia di un vecchio omicidio che gli ricorda le parole di Taro, senza che capisca veramente: «Perditi tra le braccia di una donna, sii fedele ai tuoi desideri senza preoccuparti delle noie quotidiane». Quando ha bisogno di lui per liberarsi dell'acqua che la invade, Saeko lo chiama con i riflessi di uno specchio; col passare del tempo, Saeko sembra guarita, ma un moto di gelosia di Yosuke riporta tutto al punto d'inizio. Solo Mitzu è destinata a sparire, dopo aver atteso invano, per tanti anni, il ritorno di Taro...

Acqua tiepida sotto il ponte rosso colloca la figura femminile in posizione di primo piano in un film di Imamura, come non si vedeva da molto tempo. E questo ritorno è sottolineato per di più dalla particolarissima "disfunzione" della protagonista, che, al di là del ruolo fondamentale nel racconto, non può non assumere un evidente statuto simbolico, relativo alla posizione che Imamura ha da sempre, del resto, attribuito alla posizione della donna nella società giapponese votata alla consacrazione e all'esaltazione del potere assoluto maschile. E questo con buona pace della derivazione "realistica" dell'aneddoto, che emerge dalla curiosa conversazione tra il Maestro e Catherine Breillat, riportata su Positif n.490.

Apparentemente, anche sul piano narrativo, il protagonismo maschile sembra, in un primo momento, fuori discussione. Se ci atteniamo alla distribuzione dei ruoli tradizionalmente delineabile, il "protagonista" è senza dubbio Yosuke, l'impiegato rimasto senza lavoro che da Tokyo si reca nel villaggio di pescatori alla ricerca di un tesoro che non c'è (almeno nelle forme che lui credeva di trovare...) e che finisce per restarvi, trasformandosi in pescatore e in uomo nuovo. La disposizione medesima dell'intreccio, degli eventi che fanno prendere il via alla vicenda e degli antefatti che ne articolano poi, poco a poco, la complessità fatta di rimandi, di ritorni, di doppi e di agnizioni rivelatrici, risulta manipolata da una figura maschile – Taro il "filosofo"– che attraversa così il racconto e lo indirizza alla sua giusta conclusione, nonostante egli risulti già morto fino dalla prima inquadratura. Preminenza maschile illusoria. Intanto, il filosofo era un barbone, un vecchio che rimpiangeva senza mezzi termini la virilità ormai lontana, mentre Yosuke – lo si è già detto – è un disoccupato: uomini, dunque, il cui rispettivo potere maschile risulta problematicamente incrinato, in una società che lo assegna e lo conferma soltanto sulla base della capacità di procurarsi il denaro necessario, meglio se attraverso un'occupazione "rispettabile". In poche inquadrature iniziali, Imamura ci riconduce a quel mondo di emarginati vitali e mai riconciliati, che da sempre costituisce il contesto fecondo del suo cinema e in cui si rispecchia indubbiamente la singolarità medesima della sua posizione nel quadro della cinematografia nipponica, a partire dal suo esordio nel lontano 1958 su su, nonostante premi e riconoscimenti internazionali, fino ad oggi. Inoltre, il "filosofo" si contraddistingue per una dimestichezza con la cultura (altro elemento tradizionalmente associato alla supremazia maschile) non finalizzata alla gestione di qualsivoglia forma di potere. Yosuke, da parte sua, manifesta da subito una dote di gentilezza indubbiamente poco funzionale alle aspettative che la società e la famiglia ripongono in lui. Figure maschili, dunque, dalla componente femminile piuttosto sviluppata. Di fronte a questo "protagonista" ed al suo "mandante", dai tratti così deboli, al limite dell'evanescenza, su questo sfondo predisposto con pochi ma decisivi dettagli, fa irruzione e si impone senza difficoltà il "miracolo"della donna-acqua.

Saeko si sostituisce velocemente, finendo per oscurarlo del tutto, all'"oggetto" della ricerca di Yosuke (l'idolo d'oro, astutamente favoleggiato dal vecchio per convincere l'amico a recarsi nella casa affacciata sul ponte rosso). Ciò è possibile grazie alla stupefacente qualità di cui è portatrice: in lei la vita –letteralmente – trabocca, costringendola ad atti (siano essi sessuali o no) trasgressivi rispetto alla morale e alle leggi vigenti. Non bisogna trascurare questo particolare: Saeko attira l'attenzione di Yosuke quando, nel supermarket, perde parte del suo liquido interno compiendo un furto; più tardi, confesserà che la pratica del furto è per lei una sorta di atto compensativo rispetto all'accoppiamento, che le permette almeno di "mantenere i livelli". Yosuke, a quel punto, si offre di fare l'amore con lei ogni volta che ne sentirà la necessità, per impedirle di continuare nelle sue attività di sottrazioni illecite e dunque di correre il rischio di essere sorpresa e arrestata. Ancora una volta è in lui la gentilezza ad avere il sopravvento: una dote che, a differenza della moglie, Saeko sa apprezzare e la porta ad innamorarsi veramente di lui. Per l'uomo si apre un mondo di possibilità che fino a pochi giorni prima, quando ancora era prigioniero di Tokyo e della sua logica produttiva, sarebbero risultate del tutto imprevedibili, per non dire inaccettabili. Un mondo in cui tutto ciò che per lui ha avuto valore fino ad allora improvvisamente si ridimensiona e, a poco a poco, svanisce, lasciando posto a un sentire completamente nuovo. Acqua tiepida sotto il ponte rosso, è, prima di tutto, un film sulla necessità di contravvenire (alle leggi, alle convenzioni) per riaffermare i diritti insopprimibili della vita; e, insieme, su come sia ancora possibile comunicare l'urgenza di questa necessità. Il villaggio in cui Saeko vive non è collocato nell'utopia: alcuni princìpi di realtà vi appaiono – è vero – leggermente allentati, ma, nell'insieme, il corpo delle regole del vivere sociale generalmente riconosciute funziona come altrove. In particolare, una certa idea di supremazia o, per meglio dire, di strapotere maschile. Per questo Saeko vi è guardata con sospetto e Yosuke viene a un certo punto messo in guardia dalle sue frequentazioni con quella donna, che, evidentemente, non può che intimorire i maschi votati alla propria conservazione. Ma, comunque, qui Saeko può esistere. Qui è possibile chiamare il proprio uomo in soccorso con la luce riflessa da uno specchietto, così come è possibile rispondere a quel richiamo attraversando di corsa l'abitato, dal molo alla casa coperta di glicine, per fornirle l'unico "aiuto"di cui lei ha bisogno.

Saeko non è per Yosuke un oggetto di desiderio, almeno nel senso tradizionale del termine. Molto più semplicemente, in lei riprende corpo il mito arcaico della femminilità come fonte di vita: ciò che a lei è necessario lo diventa, di riflesso, per l'uomo che ha deciso di risponderle senza prevaricarla. È quando un altro maschio si intromette, soltanto perché in cerca di sensazioni inusuali, che il magico equilibrio tra Saeko e Yosuke arriva al punto di spezzarsi, proprio perché la donna si trasforma, in quel momento, in oggetto di contesa. Fortunatamente per la coppia, la violenza che sembrava stesse per infrangerla viene deviata e riassorbita all'interno dell'universo maschile, nelle forme di una punizione relativa a regole che le sono del tutto estranee. La riconciliazione prende l'aspetto di un vero e proprio fenomeno naturale: un ritorno dell'acqua, che sembrava essersi esaurita e che dà origine a un arcobaleno catartico. Che Yosuke e Saeko, del resto, costituiscano in qualche modo una sorta di "specie a parte" rispetto al resto del genere umano è sottolineato da particolari inequivocabili: lo status di Saeko si colloca all'interno di una discendenza rappresentata dalla nonna, Mitsu, che in gioventù presentava le medesime caratteristiche della nipote; Yosuke, a sua volta, è designato come erede proprio dal "filosofo", che era stato amante prediletto della nonna di Saeko, al punto che questa si era votata all'attesa del suo ritorno, rassegnandosi a morire solamente dopo aver avuto notizia della morte di lui; non solo, ma l'uomo viene assimilato dagli altri pescatori, per la sua grande rassomiglianza, a un precedente amante di Saeko finito annegato. Per questa strada, il film si articola, tra l'altro, in un insieme di sottotracce narrative che gli forniscono non soltanto spessore tematico, ma anche una prospettiva d'insieme, in grado di dare compattezza all'insieme delle invenzioni.

Penso sia importante sottolineare come Imamura non abbia affrontato l'argomento con piglio oracolare o sentenzioso. In un film come questo, il rischio di cadere nel cinema "poetico", in una pedanteria metaforica dalle conseguenze irreparabilmente disastrose, sarebbe stato per altri una trappola inevitabile. Imamura si muove con leggerezza nell'attraversare questo campo minato e ci consegna non la Rifondazione Del Mito, ma una storia: bizzarra, gentile, a tratti inquietante, ironica. Vi si respira l'aria di certe invenzioni surrealistiche nutrite da un'adesione al quotidiano tanto profonda da riuscire a scorgervi – e a carpire – il segreto di accensioni profonde, in grado di capovolgerlo mettendolo, però, in questo modo, paradossalmente, con i piedi per terra. E di consegnare così, a chi sa accettarlo, il segreto della sua più segreta comprensione. Non è il caso di insistere sulle simbologie. D'altra parte, l'abbinamento fra atto sessuale e rilascio di liquidi è così cristallino... Molto più determinante ai fini del discorso subliminale, per così dire, è notare come non esiste inquadratura del film in cui non compaia l'acqua: che sia quella del mare, del fiume, della pioggia, del té, della neve che sfarfalla nel finale, le immagini trascorrono su un accompagnamento idrico, rispetto al quale la quantità che viene emessa dal corpo di Saeko, più che presentarsi come un fenomeno sorprendente e incomprensibile, appare come un dettaglio curioso, sì, ma quasi trascurabile nell'economia di un uni-verso così naturalmente imbevuto di li-quido. Il segreto che permette a Imamura di trattare argomenti tanto ponderosi con tanta scioltezza e mancanza di presunzione sta nella consapevolezza (come ci dice Giona A. Nazzaro nella sua scheda da Cannes) che "tutto ciò che accade agli uomini avviene nel perimetro della loro carne". Non c'è quindi nel suo cinema la ricerca di una verità trascendente o di soluzioni finali a un mistero che non può che rimanere tale, perché legato allo statuto medesimo dell'esistenza. La vita è la vita è la vita: niente di più – e ci mancherebbe, con tutto quello che già si porta con sé così com'è. Questa consapevolezza ha accompagnato il lavoro di Imamura fino dai suoi inizi, dopo avere determinato – in un impeto di giovanile insofferenza,più tardi riveduta e significativamente corretta –anche il suo distacco dall'apprendistato svolto come aiuto-regista di Ozu: Acqua tiepida non è un punto d'arrivo, per quanto riguarda questo aspetto, ma una nuova rimodulazione di un'antica convinzione.

Per quanto riguarda le forme del filmare, Shohei Imamura appartiene a quella categoria di Grandi Vecchi a cui nulla sembra impossibile in virtù di una libertà di linguaggio acquisita da subito e man mano affinata, fino al raggiungimento di una indiscutibile superiorità rispetto ad ogni vincolo relativo allo "stile". Anche per quella contiguità con il miglior surrealismo, cui accennavo più sopra, mi sembra che, a proposito di Acqua tiepida, non sia fuori luogo avvicinare questa salutare "noncuranza" della forma a quella – altrettanto sorprendente, altrettanto ingannevole – di don Luis Buñuel. Come avveniva nei film del Maestro spagnolo, l'approccio della m.d.p. al reale è talmente diretto che non solo ne fa emergere in modo del tutto naturale anche il dato più incongruo, ma la sua rappresentazione apre, con scandalosa "ingenuità" a una sorta di contemplazione attiva dell'evento (di qualsiasi evento), producendolo lingui-sticamente nel momento stesso in cui ne viene pervasa. Ne risulta un filmare perennemente "al limite", che non pone il perfetto controllo linguistico-formale tra i suoi obiettivi, ma piuttosto una consapevole disponibilità all'irruzione della realtà che è già segno, da cogliere e organizzare. (...)

Note
Cfr. Conversazione con Imamura, a cura di A. Piccardi e Angelo Signorelli, su Cineforum n.268, ottobre 1987.

Adriano Piccardi
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