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Hana-bi

Giappone

Kitano disegna una sorta di carta geografica del dolore, colto nelle sue diverse manifestazioni: solitudine, lutto, rimorso, paura di morire. Tutto questo non impedisce tuttavia ad Hana-Bi di rimanere un "film d'azione", nel senso letterale del termine.

HANA-BI

Regia e Sceneggiatura: Kitano Takeshi. Montaggio: Kitano Takeshi, Ota Yoshinori. Fotografia: Yamamoto Hideo. Musica: Joe Hisaishi. Interpreti: "Beat" Takeshi, Kishimoto Kayoko, Osugi Ren, Terajima Susumu. Produzione: Office Kitano Inc./Bandai Visual Company Ltd./Television Tokyo Channel/Tokyo FM Broadcasting Company Ltd. Distribuzione: Istituto Luce. Origine: Giappone, 1997. Durata: 103 minuti.
 

Nella storia del cinema, i generi che normalmente mettono in scena la morte - western, polizieschi, action-movies, ecc... - sono anche quelli che meno riflettono sulla morte, che non ne sondano in profondità le implicazioni. Il disseminare una vicenda di cadaveri comporta, di solito, l'effetto opposto: la morte viene esorcizzata nel momento in cui l'iterazione e la spettacolarizzazione la privano di spessore e di importanza, la rendono un evento ordinario, automatico, una specie di corredo necessario all'impatto visivo e narrativo del film. Per contro, il genere cinematografico che ci ha dato le migliori riflessioni sull'argomento è il melodramma, dove spesso si parte a monte (qualcuno si prepara a morire: L'Amour à mort di Resnais) o a valle (qualcuno è già morto: La camera verde di Truffaut) del problema, in assenza dunque di una vera e propria rappresentazione della morte. Ad essere importante, e funzionale ad un approccio filosofico al problema, non è tanto la morte in sé, quanto i pensieri che essa genera in chi improvvisamente se la trova accanto, come un ospite sgradito, che impone la sua ingombrante presenza.

Uno dei tanti meriti di Kitano, sta nell'essere riuscito ad inserire questa problematica in generi quali il poliziesco e lo "yakuza-movie" (equivalente giapponese del cinema gangsteristico), in cui, come detto, la morte viene generalmente incanalata sui binari della pura spettacolarità. Hana-Bi è appunto questo: un poliziesco dove i personaggi, abbandonate momentaneamente le funzioni imposte dal genere, si interrogano sul significato della morte e della vita, e sulle conseguenze prodotte dalla violenza delle proprie azioni. A partire da simili riflessioni, Kitano disegna una sorta di carta geografica del dolore, colto nelle sue diverse manifestazioni: solitudine, lutto, rimorso, paura di morire. Tutto questo non impedisce tuttavia ad Hana-Bi di rimanere un "film d'azione", nel senso letterale del termine. I sentimenti dei personaggi infatti non si esprimono quasi mai attraverso parole, al contrario, si traducono in gesti, azioni appunto, stringate e tuttavia di grande intensità, capaci, nella loro concisione, di lasciar trapelare il tumulto di una sensibilità lacerata. Esiste, da questo punto di vista, uno strano parallelismo tra la rapidità e la brevità delle colluttazioni (pugni secchi, che producono rumori sordi ed effetti devastanti), e la muta essenzialità con cui Kitano tratteggia il dolore: un uomo riversa la sua disperata solitudine in quadri di straordinaria forza cromatica, dove la fauna e la flora generano incroci di inquietante e dirompente vitalità, il suo collega aiuta la moglie a trovare in occupazioni semplici, elementari, vissute con gioia quasi infantile, un antidoto al pensiero della morte imminente. Niente, in questo film, dà l'impressione di essere ridondante, eccessivo, superfluo: tutto viene ricondotto ad un principio di estrema, assoluta concisione. Persino la scena della rapina in banca è costruita in modo tale da risultare depurata di qualsiasi elemento (grida, panico, spari, movimenti frenetici) capace di increspare la superficie del film. Dal quale devono affiorare, simili a punte di iceberg, solo i sintomi dei sentimenti, e mai i sentimenti stessi, la cui verità può essere soltanto intuita, letta fra le righe, colta indirettamente.

Tale stringatezza si traduce, innanzitutto, in uno straordinario rigore stilistico. Vale la pena di notare che Kitano è qui non solo regista e sceneggiatore, ma anche curatore del montaggio. Lui stesso ha affermato, al riguardo, che la scelta e la realizzazione delle riprese è andata di pari passo con la definizione della struttura complessiva del film. Il quale ha un suo preciso respiro interiore, basato su una cadenza ritmica accuratamente orchestrata, che contempla l'alternanza di scene lunghe e inquadrature brevi, di dettagli e totali, di episodi descritti dal principio alla fine (la rapina in banca) e di altri relegati fuori campo, risolti soltanto attraverso il ricorso al sonoro, o ricostruiti a poco a poco, mediante frammenti che vengono gradualmente a ricomporsi (i flash-backs relativi alla cattura del malvivente che provoca la morte del collega di Nishi). In virtù di questo eccellente lavoro di montaggio, e della sapienza nell'uso del fuori campo, Kitano accentua la caratteristica principale di Hana-Bi, che è quella di suggerire senza dire, di alludere senza esibire, lasciando affiorare solo le minime, pudiche manifestazioni di un dolore trattenuto, insondabile (ma intuibile) nella sua profondità. Altrettanto fondamentale è l'uso della luce e del colore, basato anch'esso su un principio contrappuntistico: alle scene caratterizzate da toni neutri fanno seguito le esplosioni cromatiche dei quadri di Horibe, ingranditi fino a costituire delle inquadrature a sé stanti, nelle quali sembra confluire l'intensità compressa nelle altre sequenze. In questo modo Kitano, seguendo un percorso creativo e narrativo che ha quasi i tratti dell'ineluttabilità, costruisce - gradualmente, un'immagine dopo l'altra, un frammento di dolore e disperazione dopo l'altro - un apologo sul valore della vita (poco tempo fa, il regista è uscito più morto che vivo da un incidente d'auto) di struggente forza emotiva.

Leonardo Gandini