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Guizi Laile - Devils on the door step

Cina

Valutazione critica del secondo film di Jiang Wen; il regista si laurea in regia nel finale inatteso (qui rivelato).

GUIZI LAILEDevils On The Door Step di Jiang Wen

 

Fuori il dente, via il dolore: l'unico serio rimprovero che ci sentiamo di rivolgere a Guizi Lai Le sono i soliti 40 minuti di troppo, come in quasi tutti i film contemporanei che durano 2 ore e 40 minuti (per l'esattezza, 42: ma i 2 minuti in più glieli perdoniamo). Come spesso capita agli attori che sono anche registi di se stessi, Jiang Wen si innamora di ogni ciak e, fosse per lui, monterebbe i giornalieri senza buttare una sola inquadratura. È umano, ma non è perdonabile. Se Guizi Lai Le fosse meno prolisso nella prima parte, staremmo parlando di un capolavoro.

Fine delle rimostranze, si passi agli elogi. Intanto, quell'emozionante impatto da cinema di una volta: bianco e nero, schermo panoramico, ampi movimenti di macchina, senso epico della narrazione. La prima sequenza ci trasporta come d'incanto in un mondo "altro",dove i diavoli sono già arrivati. Sarà bene chiarire (ce lo spiega il materiale distribuito alla stampa) che per i cinesi tutti gli stranieri sono "diavoli". Figuratevi, quindi, se non lo erano i nemici per eccellenza, ovvero i giapponesi che invasero la Cina dal 1931 in poi, cominciando dalla Manciuria. Fu un'occupazione che ancora divide – se non nei rapporti diplomatici, almeno nella mentalità diffusa – i due paesi, tanto è vero che il film di Jiang Wen è stato giudicato politicamente inopportuno e non è stato facile convincere gli attori giapponesi che recitano nel ruolo dei militari del Sol Levante.

Per raccontare quei dolorosi tempi, Jiang Wen sceglie un punto di vista "dal basso". Il tono epico, in esterni, della prima scena (con i soldati giapponesi che, al suono di una marcetta marziale, attraversano tronfi il villaggio) si rinchiude ben presto in un interno familiare per farci conoscere Ma Dasan, un contadino povero e non particolarmente brillante che ha già di per sé qualcosa da nascondere (invece di una moglie ha un'amante: che è una vedova, sì, ma nella Cina rurale è comunque un brutto affare). È notte: alla capanna di Ma Dasan bussa un tizio dai modi bruschi che consegna al contadino due prigionieri e gli intima di tenerli nascosti, che prima o poi qualcuno li verrà a riprendere. I due uomini sono un soldato giapponese e il cinese che gli fa da interprete. La loro prigionia diventerà la disgrazia di Ma Dasan e del villaggio tutto. La prima metà del film è giocata da Jiang Wen su toni da commedia, in buona misura costruiti sull'equivoco linguistico: abbastanza ovvio, ma sempre efficace. Le scene in cui Hanaya, il soldato giapponese, insulta i cinesi che l'hanno fatto prigioniero; e il suo interprete Dong traduce a vanvera, tramutando le maledizioni in salamelecchi, per salvare la pelle di entrambi,sono francamente esilaranti. Altri siparietti fanno parte dei suddetti 40 minuti di troppo, ma il loro scopo è quello di acclimatarci nel villaggio, di farci partecipi dei suoi piccoli riti quotidiani, di prepararci insomma allo shock che Jiang ha in serbo per il finale. Quando Hanaya viene restituito ai giapponesi, e gli occupanti sembrano accondiscendere alle richieste dei cinesi invece di impiccarli al primo palo, c'è già qualcosa (nell'atmosfera, nei gesti, soprattutto nelle facce imperscrutabili e nelle schiene rigide degli ufficiali nipponici, e soprattutto del comandante della guarnigione Sakatsuka) che fa capire come il tutto butti malissimo. E con ciò arriviamo al punto nel quale Jiang si laurea in regia: l'improvvisa esplosione di violenza, che dà il via alla strage di tutti gli abitanti del villaggio, è stata – come si diceva – preparata e "seminata", ma arriva comunque come una coltellata nella schiena,e questo è segno di grande abilità, di sapienza registica e drammaturgica. Ci sono momenti, anche brevissimi,in cui le emozioni primigenie del cinema sembrano rivivere an-che nei film di oggi: il momento in cui Sakatsuka ordina la strage è uno di questi, un segno di vita da parte del Grande Moribondo (il cinema del terzo millennio).

Il resto è politica. E funziona anche quella. Il film è tutto intimo, minimale, paesano fino al momento in cui tutti sono morti. A strage compiuta Sakatsuka, che come avrete capito è un grande personaggio (e grande è l'attore che lo interpreta, Kenya Sawada), fa il primo gesto politico del film: estrae un comunicato che annuncia la resa dell'imperatore Hirohito. Lui sapeva che la guerra era finita,e che il Giappone l'aveva persa, ma ha voluto togliersi lo sfizio di ammazzare quella brava gente che, senza volerlo (perché sono contadini, e non conoscono i codici in base ai quali ragionano i militari!) l'aveva umiliato. Anche il dopoguerra è messo in scena da Jiang Wen come un balletto politico, con i militari americani a fare da damigelle d'onore: una serie di sanguinosi convenevoli che portano alla morte del povero Ma Dasan. E qui Jiang Wen ha l'ultimo colpo di coda: quando la testa di Ma si stacca dal busto, l'ultima inquadratura è vista dai suoi occhi già morti ed è a colori, con predominanza del rosso (sangue). I colori del mondo sono la soggettiva di una testa mozzata. Questo è il messaggio finale di Guizi Lai Le, il più feroce film sulla storia come mattanza di innocenti che ci sia capitato, ultimamente, di vedere.

Alberto Crespi
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