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Guardare altrove - incontro con Naomi Kawase, Locarno, 2000

Giappone

Kawase Naomi ci conduce per mano in un viaggio attraverso la forma e il senso del suo film forse più suggestivo, Hotaru (Lucciole, 2000), fino al cuore del suo cinema. Un cinema che nasce dall'urgenza del dolore e della sofferenza; un universo che attrae e inghiotte, ma solo per restituire la forza e l'energia necessarie per proseguire.

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La prima domanda riguarda la scelta e lo sviluppo di un soggetto così particolare. Hotaru tratta di personaggi estremamente moderni e di figure tradizionali. Uomo e donna sono poi confrontati a situazioni e a sentimenti senza tempo, che, anzi, li spingono verso il loro passato. Come è venuta l'idea di una protagonista che fa un mestiere così atipico, la ballerina hard, e di collegarla ad una storia di lutti che si ripetono?
 

 

In realtà tutto è nato da una mia visita ad uno spettacolo di striptease, dove una delle ballerine mi ha colpito enormemente. La sua figura è stata lo stimolo primario che mi ha indirizzato a scegliere questo ruolo per la mia storia. Anche per quanto riguarda la scelta del ruolo del protagonista maschile, tutto è nato da una conoscenza diretta del territorio giapponese. Nella regione di Kishu, a nord di Nagoya esiste un villaggio chiamato Tajimi, che mi ha sedotto fin dal primo istante. In questo villaggio i vasai sono numerosissimi. Di qui la scelta di dare questo mestiere al mio protagonista. L'incontro tra i due è possibile, nonostante la distanza culturale e fisica che li separa, perché entrambi sono due esseri umani cui manca qualcosa. Le perdite che i due hanno patito costituiscono la ragione del loro incontro. Pur partendo da opposte situazioni, entrambi sono in cerca di qualche cosa, per colmare questa mancanza e per ricominciare a vivere. Il loro incontro è la condizione necessaria per questo percorso di vita.

I personaggi sembrano detenere relazioni molto strette con l'ambiente in cui vivono, come hai lavorato con gli attori per ottenere questo risultato?
Il mio cinema nasce sempre da una relazione molto forte con il luogo, la regione, la cultura, la lingua, il paesaggio in cui decido di ambientare la storia. Per ottenere un buon amalgama tra la storia che io creo e i luoghi reali che riprendo chiedo ai miei interpreti di soggiornare nel luogo del tournage qualche mese prima di iniziare le riprese. In questo modo essi hanno tutto il tempo di prendere confidenza con l'ambiente reale in cui si gira. Ad esempio, ad un certo momento, Ayako saluta i venditori per strada come se li conoscesse da tempo; l'impressione di familiarità non è frutto di una finzione particolarmente calibrata, ma dipende dall'effettiva frequentazione di Nakamura Yukio tra le persone del villaggio. Anche per quanto riguarda le riprese tendo a creare una continuità tra l'atmosfera che s'instaura prima del ciak e quello che avviene durante le riprese. Chiedo agli attori di iniziare ad interpretare la loro parte ben prima che la macchina da presa sia posizionata e inizi a riprendere, di modo che il passaggio alla ripresa sia il più graduale e invisibile possibile.

I tuoi film trattano quasi sempre dei temi molto personali e decisamente dolorosi, come il lutto, la scomparsa, la perdita, la lontananza... Che cosa rappresenta il cinema per te?
È una domanda alla quale non so rispondere. Il cinema più che una cosa, di cui si può dare una definizione, mi sembra un mondo, un universo che mi attrae e mi inghiotte. Ogni volta che inizio un film questo movimento fagocitatore è tanto evidente che mi chiedo a volte se non sarebbe meglio essere morta, piuttosto che aspirata e digerita da questo fenomeno. Tuttavia, ogni film che termino mi restituisce la forza e l'energia necessaria ad andare avanti. Ogni film che concludo mi regala una spinta per elevarmi.

Nei tuoi film spesso si assiste ad una sorta di conflitto tra il debole e ostinato tentativo degli uomini di sommare i pezzi, che potrebbero costituire un'esistenza, e la vita che nega, sottrae di continuo ciò che l'uomo ammassa. In Hotaru si verifica questa stessa situazione: i personaggi costruiscono un muro e poi lo distruggono. Alla fine il film sembra dire che, solo distruggendo tutto quello che si è costruito, si può ricominciare da capo e forse invertire il corso della vita.
Nella vita esistono due movimenti: uno ascendente e l'altro discendente. Essi non esistono però allo stato puro, ma sempre si presentano confusi. E' questo melange indissolubile di ascesi e di ricadute che costituisce la vita. Per quanto riguarda invece l'evoluzione nel tempo, il film effettivamente descrive ad un certo momento un processo di rifiuto del passato. Quando la coppia distrugge il forno, sembra che con questo gesto voglia liberarsi di un simbolo che fino a quel momento aveva vegliato su di loro e ne aveva dunque contraddistinto l'esistenza. Credo però che più che di distruzione o negazione del passato (visto che il gesto arriva a film quasi ultimato, dopo che la coppia ha già compiuto e subito tutta una serie di prove ed esperienze) si tratti di un processo d'interiorizzazione. In qualche modo i due giovani, distruggendo il forno, dimostrano di averlo assimilato, di essersi compattati al punto da non avere più bisogno di quella sorta di simbolo protettivo. In questo senso la distruzione del forno acquista un valore positivo; diviene la condizione per guardare avanti, verso il futuro con un altro occhio.

È una sorta d'analisi terapeutica?
Effettivamente si potrebbe parlare di una specie di psicanalisi. Io preferisco guardalo da un'altra ottica. Realizzando il film, confrontandomi con una serie di pressioni, di problemi e di emozioni molto forti, avevo l'impressione che il mio spirito stesse per crollare. Avevo dunque paura di cadere in una profonda depressione. E d'altra parte non fare il film, interromperlo, per me, equivarrebbe a morire. È molto difficile da definire come stato d'animo: il film mi provoca una sorta di dolore insopportabile ma necessario. Credo che la storia di Hotaru abbia qualcosa a che vedere con queste situazioni.

Vedendo i tuoi lavori – quelli di fiction e i documentari – si comprende quest'urgenza di cui parli. Il tuo cinema non vuole mai dimostrare la sua esistenza con un percorso razionale o con una dichiarazione d'intenti. Non è il lavoro di un abile artefice, che mescola con cautela delle componenti di cui conosce il pericoloso potenziale. L'atto di riprendere non deriva da una professione che si è scelta, come si potrebbe sceglierne un'altra, ma è la conseguenza di uno stato di necessità.
Faccio dei film in quanto essere umano più che come regista. Il dolore, la tristezza e la sofferenza umana hanno uno spazio così grande nel mio cinema, perché questi sentimenti sono delle vere urgenze per me. Tanto in Suzaku, quanto nel caleidoscopio Mange-Kyo o in Hotaru... Se i miei film parlano di situazioni, descrivono stati d'animo così intimi e così articolati, è perché davvero non posso farne a meno.

Nei tuoi film mi sembra centrale il tema del dolore, della perdita e del lutto. In rapporto ad altri autori giapponesi, però tu non metti mai in scena la figura del "ritornante". Avanzo un'ipotesi: di norma il fantasma è un'entità che riempie un vuoto. Una figura che calma i ricordi, mentre il tuo cinema non è per niente consolatorio. Preferisce lasciare l'uomo di fronte al vuoto.
Più che la forma delle persone è importante quello che le persone lasciano dietro di loro. Più importante che essere abbracciati da qualcuno sono le parole, pronunciate un tempo, che hanno reso possibile quel abbraccio. Questo è anche ciò che cerco di mostrare nei miei film. In Giappone per definire la perdita o l'inesistenza di un essere c'è un carattere (il "mu") che significa: "nulla". Al posto di impiegare la figura del fantasma che ritorna preferisco allora pensare al ritorno della figura in carne ed ossa (nelle forme di qualche d'un altro). Oppure cercare di vedere quello che le persone hanno abbandonato dietro di loro. Quando l'uomo è confrontato al nulla nei miei film, trova come unica via di fuga delle presenze, molto materiali. Di norma sono degli oggetti, che altri hanno lasciato dietro di loro. E anche per questo che nei miei film le persone scompaiono spesso. Solo dopo essere scomparse è possibile ritrovarle, attraverso gli oggetti e le testimonianze che sono rimaste.

Questo è quanto avviene in Suzaku: quando si ritrova la scatola con i filmini girati dal padre, non si vede il padre, ma solo le tracce che il padre aveva filmato.
Sì, probabilmente un altro regista avrebbe messo in scena il padre in maniera diretta. Io non metterò mai in campo il ritorno della figura, magari con un flashback; il personaggio ritornerà, semmai, attraverso i resti che egli ha lasciato qui, nella realtà che il film vive. Anche la figura del padre di cui parlavamo viene quindi evocata, ma in una maniera molto più implicita rispetto ai personaggi che popolano il racconto. Questo d'altra parte è un dato ricorrente in tutti i miei film e questo è il mio modo di trattare il passato.

Parliamo di scelte di casting: per il personaggio maschile hai optato per un ex-modello, definendolo come un personaggio in cui la componente femminile doveva essere presente ed evocata.
Più che la professione precedente di Nagasawa Tohiya, per me è importante la sua origine. Dal momento che il film è girato a Nara, che appartiene ad una regione del Giappone chiamata Kansai, volevo un attore che provenisse da quella stessa regione e non un attore di Tokyo. Una delle componenti importanti del film - che un pubblico non-giapponese non può cogliere - è la presenza del dialetto del Kansai. Questa presenza era per me evocabile e verosimile solo attraverso la presenza di una persona del Kansai. Questo credo ha anche dato all'attore un attaccamento più forte al progetto. Un attore normale chiede da che a che giorno sarà impegnato, Nagasawa Tohiya, invece, si è fin da subito sentito molto coinvolto nel progetto. Ha quindi deciso di entrare nel personaggio, abitando nella regione e nel quartiere in cui era ambientato il film. Ed è dunque rimasto con il film, a stretto contatto con la pelle del personaggio, per un anno. Tutta la durata del film. Un attore di solito è qualcuno che lavora per dei soldi, che sa interpretare delle emozioni, rispondendo in maniera estremamente precisa e rapida alle indicazioni del regista. Gli si dice: "Guarda a destra e fai così!" E lui subito riesce a riprodurre lo stato d'animo richiesto. Non è questo però il metodo (domanda=risposta) che mi interessa. Ciò che io chiedo all'attore è di esprimersi in quanto essere umano, ossia attraverso la sua anima.

Questo lavoro d'esplorazione dell'interiorità di una persona, che è esposta ad una grande scommessa, è qualcosa che ho ritrovato anche nel personaggio del fotografo in Mange-Kyo. In quel film, come in questo, capitava che la mdp riprendesse semplicemente il nero, la tensione dell'aria che sta intorno al luogo in cui sta avvenendo la scena. L'idea di stare a fianco dell'avvenimento è qualcosa che ha a che vedere con il tuo tentativo di mostrare l'anima?
Sì, questa modalità di lavoro, riscontrabile nei miei film, è qualcosa che mette in risalto il mio carattere ambivalente. Da una parte tendo a far lavorare l'attore lasciandogli una grande libertà nel costruire il personaggio, dall'altra opero delle scelte di ripresa molto drastiche, che sono in stretto rapporto con il mio stato d'animo. Questo, però, è dovuto al modo in cui mi investo (e sono investita) quando faccio dei film. Ripeto: ogni film per me è una caduta senza reti.

Per quanto riguarda Ayako, mi interessa sapere che cosa cercavi nel fisico di Nakamura Yuko, oltre alla sua bellezza.
Ogni volta mi chiedo fino a che punto essa sia così bella. In realtà abbiamo fatto numerosi provini per scegliere la protagonista. Abbiamo selezionato mille persone da tutto il Giappone, poi ne è stata scremata la metà in base alle risposte che ci erano pervenute dai questionari diffusi. In seguito siamo arrivati ad avere circa cento ragazze che abbiamo incontrato a Tokyo e a Osaka. Avevamo due scene da provare sulle quali pensavamo di operare la nostra scelta. Si tratta della scena in cui Daiji ritorna con i piatti pronti e trova Ayako che sta innaffiando le piante, dopo essere scomparsa per un certo tempo. L'altra scena era invece quella in cui Ayako brucia i vestiti della sua amica e canta la canzone dei mandarini. Nakamura Yuko è stata l'unica che, nelle due scene, ha agito in maniera completamente diversa da tutte le altre ragazze selezionate. Nella prima delle due scene, mentre tutte le attrici guardavano Daijii elaborando espressioni molto particolari e differenziate, lei si è girata dalla parte opposta perché la luce che proveniva da dietro Daijii (la scena si svolgeva al tramonto) l'accecava. Nella seconda scena, tutte le altre attrici cantavano la canzone guardando il fuoco, sussurrandola tristemente. Nakamura invece cantava guardando il cielo ed alta voce. Io avevo detto semplicemente di prendere il kimono e di bruciarlo, Nakamura è la sola ad aver compreso che era il fumo e non il fuoco a simboleggiare l'evanescenza, la progressiva scomparsa della compagna morta.

Ho una domanda relativa ad una scena che ci ha molto colpito. Si tratta del momento in cui i due attori sono inquadrati di profilo e si interrogano in maniera molto diretta e intima. Poi, d'improvviso, si trascorre dai loro volti al nero. Si parlano e si ha l'impressione, per la prima volta, che effettivamente le loro due anime si stiano incontrando. Volevo sapere come è nata questa scena. Era prevista così prima del tournage?
Questa scena non esisteva nella sceneggiatura. È una scena molto importante, perché si situa subito dopo il rientro a casa, sotto la pioggia (quindi in una situazione di grande sconforto), e perché prelude al momento in cui i due andranno per la prima volta a letto insieme. Dopo il bagno, nella sceneggiatura era prevista direttamente la scena d'amore. Sul set eravamo arrivati, dopo aver girato la scena del bagno, a metà pomeriggio. Per avere la luce necessaria alla scena successiva dovevamo aspettare la notte. Dunque gli attori sono stati riportati a casa, comunicando loro che si sarebbe dovuto aspettare un po' prima di mettere in piedi la scena successiva. Dopo essersi seduti i due attori hanno iniziato spontaneamente a guardarsi in maniera molto intensa. Subito ho intuito che poteva essere un momento molto importante nell'economia del film. Ho quindi chiamato molto in fretta tutta la troupe per girare la scena. A quel momento gli attori hanno iniziato a prendersi per mano, in un momento di grande intimità. Mi è allora venuto in mente che sarebbe stato interessante se Ayako gli avesse chiesto che cosa ne pensava di una donna che fa lo striptease. Dunque ho scritto in tutta fretta su un pezzo di carta: "Digli che sei una stripteaser". Da questa idea e su questo stesso stato d'animo, tutto all'insegna dell'improvvisazione, sono nati anche i movimenti di macchina e l'intero sviluppo della scena.

Dunque quando Daijii rimane per un certo tempo immobile e interdetto è dovuto al fatto che non si attendeva minimamente la domanda a quel momento.
È proprio così. La sorpresa di Daiji non è recitata, ma davvero reale. Daijii si trova confrontato al fatto che la donna, che sta stringendo e per la quale prova un sentimento d'attrazione sempre più forte (l'attore si stava preparando a girare una scena d'amore), si concede alla vista di molti uomini, in un locale pubblico.

Non è solo la sorpresa dell'attore ad essere ripresa, ma nella scena si nota anche la sorpresa dell'uomo di fronte alla donna. Daijii è confrontato ad una domanda alla quale non potrà mai rispondere.
Effettivamente questa è una realtà che ha delle ricadute generali. Non è circoscritta alla situazione che si rappresenta, ma deborda i suoi limiti in un campo molto più ampio.

Durante il film, per due volte, la macchina da presa inizia a muoversi in maniera molto accentuata. Abitualmente tu riprendi con lunghe inquadrature fisse, o impiegando brevi stacchi di montaggio, in questi due casi invece la mdp (con riprese a spalla) sceglie di seguire e accentuare il movimento dei personaggi con riprese in continuità, caratterizzate da un forte movimento.
Quando la macchina da presa si muove parecchio, è perché segue i movimenti dei sentimenti dei personaggi. Quando si immobilizza in lunghe inquadrature statiche è come se uno sguardo divino si incarnasse nella scena. È lo stesso principio adottato in Suzaku: è il Dio che guarda dall'esterno le cose degli umani. Se in Suzaku è la presenza/assenza del padre a giustificare un tale sguardo, qui sono forse i due antenati (il nonno per Daijii e la nonna per Ayako), a rendere plausibile questa scelta. In un certo senso si può dire che qui le divinità sono davvero impersonate dagli antenati. Invisibili ma presenti con il loro sguardo.

a cura di Luciano Barisone, Carlo Chatrian
traduzione dal giapponese a cura di Aurelien Hancou