Asiamedia

Gohatto

Giappone

Con Eyes Wide Shut, Gohatto è il film più mortuario, cimiteriale degli ultimi anni. La morte, quella fisica, come il sesso, in realtà non si vede quasi mai, è fuori campo, lontana, distante, ma ovunque se ne odono gli echi, ne trasudano i corpi, ne sono intrise le atmosfere.

GOHATTOTabù di Ōshima Nagisa

Le coordinate entro cui si inserisce l'ultimo film di Nagisa Ōshima sono la bellezza e la morte. Non si tratta per il regista nipponico di ripristinare i cardini della classica dialettica eros-thanatos o di postularne la meccanica consequenzialità, ma di indagare le possibili declinazioni che discendono dal concetto di kalòs kai agathòs. Sozaburo Kano rappresenta l'archetipo della bellezza: una bellezza impalpabile, asessuata, efebica, indeterminata e, per questo, assoluta.
 

Il samurai reclutato dal capitano Hijikata per rinforzare la milizia Shinsegumi a difesa dello Shogun, in un periodo storico oscillante tra innovazione e restaurazione (siamo a Kyoto nel 1865), entra in una comunità chiusa, regolata da un codice d'onore inflessibile, da freddi rituali, da ferree regole. Ōshima si incunea in questo universo con uno sguardo da entomologo, gelido, chirurgico; seziona la fenomenologia del quotidiano della vita militare, scandita dal passare delle stagioni e dalle esercitazioni usando la m.d.p. come un bisturi. Una serie di tableux che fissano i paradigmi del codice samurai contrappuntano una messa in scena raggelata, attraversata da atmosfere algide, estremamente stilizzata.

Attraverso un procedimento metonimico Ōshima depura all'osso, al grado zero della narrazione, l'addestramento di Kano sintetizzato con poche esemplificative azioni, ricorrendo spesso all'ellissi, e al tempo stesso amplifica all'ennesima potenza il significato di ogni gesto, saturo di senso, creando così una specifica simbologia del movimento. Si avverte anche altrove l'estrema stilizzazione della messa in scena. Di fronte ai progressivi spostamenti del gruppo si ha la sensazione di osservare un plastico in cui ogni pedina concorre all'armonia e all'omogeneità del tutto. Uno stilema adottato anche nella visualizzazione delle esercitazioni, lontane anni luce dalla spettacolarità e dal senso coreografico degli swordplay hongkongesi, ma, al contrario, cristallizzati nella loro perfezione geometrica.

In questo quadro più che un racconto di formazione quello di Sozaburo Kano è un vero e proprio addestramento che gli permetterà di essere arruolato e che nella sua spietata durezza richiama la parte iniziale di Addio mia concubina di Chen Kaige. Il suo inserimento nella milizia è apparentemente in linea con il rigore e l'azione del gruppo, anzi, ne rappresenta la massima espressione: infatti, anche la vita e le incursioni militari antecedenti alla primavera del 1864 appartengono ad un territorio extradiegetico, si avverte con l'arrivo di Kano una maggiore efficienza ed operatività che culmina con l'esecuzione a freddo di un subordinato. Sozaburo è un'infallibile macchina da guerra, imperturbabile, impenetrabile dietro la sua maschera angelica. La sua presenza contiene, però, anche un tratto perturbante, dovuta alla sua fisicità pura e alla sua bellezza che diventano ben presto lo zenith, il centro gravitazionale attorno a cui ruotano tutti i componenti della milizia, tanto da sconvolgerne i fragili equilibri. ?shima opera così un doppio svelamento. Mostrando Sozaburo tanto sicuro e infallibile nelle azioni militari e nell'adempimento del suo dovere, quanto fragile e debole nella gestione dei rapporti personali, il regista nipponico postula l'assioma secondo cui ontologicamente una perfezione cela un'imperfezione.

Si accennava prima ad una maggiore incisività nelle azioni belliche in seguito all'arrivo di Sozaburo (anche se la Storia, il dato fattuale, rimane sempre ai margini, solo accennato o riportato oralmente), ma anche in questo caso Ōshima sottolinea che la fragilità e il progressivo decadimento di un gruppo sono prossimi nel momento di massima com-pattezza, e, quindi, di grande chiusura, refrattaria a qualsiasi cambiamento, a mutamenti sostanziali. Terminato l'addestramento, Sozaburo è l'elemento scatenante del cortocircuito che scatta all'interno della milizia Shinsegumi. L'attrazione provata dagli altri samurai verso Kano innesta una serie di metastasi, prodromi del cancro che colpirà i componenti del gruppo. Sozaburo si trasforma in elemento destabilizzante, capace di far deflagrare un equilibrio metastabile da tempo consolidato.

Ōshima non ammicca quindi alla pruderie dello spettatore quando il comandante Isami Kondo vuole accertarsi della virilità del suo samurai, ma piuttosto rende manifesto il timore di uno sfaldamento. Una preoccupazione che si espliciterà in modo ancora più evidente quando Kondo, con la mediazione di Hijikata, ordinerà a Sozaburo di uccidere il suo primo amante Hyozo Tashiro come supremo atto di fedeltà alla milizia. È qui che si inserisce il ribaltamento del concetto tradizionale di uomo kalòs kai agathòs. Nella cultura occidentale, ma anche nella figura e nel pensiero di Mishima, il guerriero oltre a possedere virtù di forza, resistenza e inflessibilità morale era anche l'elemento fondante di una comunità, capace di aggregare attorno a sé un gruppo, di catalizzare gli interessi generali.

Con Gohatto Ōshima opera, quindi, un'inversione vettoriale, individuando in Sozaburo la spia di una rottura, di un progressivo dissestamento. La morte, si diceva all'inizio. Con Eyes Wide Shut, Gohatto è il film più mortuario, cimiteriale degli ultimi anni. La morte, quella fisica, come il sesso, in realtà non si vede quasi mai, è fuori campo, lontana, distante, ma ovunque se ne odono gli echi, ne trasudano i corpi, ne sono intrise le atmosfere. Una sensazione che si avverte soprattutto nella seconda parte, quando i luoghi si fanno ancora più impalpabili, tutto sembra essere avvolto da un sacco amniotico o da una campana di vetro.

I personaggi del film di Ōshima si tramutano in corpi in evaporazione, depauperati di tutta la loro fisicità, in una sorta di fenomenologia dell'assenza, immersi in un set sempre più mentale e inafferrabile. Anche i tempi della narrazione subiscono una sensibile mutazione: ai ritmi sincopati, taglienti della prima parte, perfettamente aderenti nel rendere le tensioni dell'addestramento e dei combattimenti, ne seguono altri più dilatati. Forse, proprio in questa fase Gohatto si ripiega eccessivamente su se stesso, cedendo in più di un'occasione al virtuosismo estetizzante, diventando, però, al tempo stesso, ancora più affascinante perché meno classificabile, meno decodificabile. I ruoli, all'interno della milizia, sono meno definiti, quasi intercambiabili e la morte, non fisica, ma certamente spirituale si impossessa del comandante Hijikata, interpretato con una cadenza solenne, statica, ma densa di significati da "Beat" Takeshi Kitano, tornato a lavorare con Ōshima dopo l'esperienza di Furyo nel 1984, il samurai che più di tutti aveva sperato in Sozaburo Kano come elemento di rafforzamento e poi di rilancio del Shinsengumi e che invece ne sancisce l'ineluttabile fine con il ritorno della monarchia assoluta e la restaurazione del potere imperiale.

La presa di coscienza del fallimento è sintetizzata da Ōshima in una scena, illuminata per un momento da una luce paradisiaca, di rara bellezza figurativa, in cui Hijikata spezzando i rami di un albero sancisce l'impossibilità di inserire elementi di innovazione, di rottura rispetto alla convenzione, in ambienti chiusi, refrattari ad ogni cambiamento, pena il loro decadimento e successivo estinguimento.

Antonio Termenini