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Fratello Yakuza da un altro pianeta

Giappone

Brother, stando a quanto ha raccontato Kitano, sarebbe la riscrittura metaforica di una pagina cruciale della storia giapponese: Yamamoto è il nome dell'ammiraglio che pianificò l'attacco a Pearl Harbour. Anche il protagonista del film si chiama Yamamoto: confrontandosi per la prima volta con un territorio non giapponese, Kitano sembra sentire il bisogno di rimarcare il discorso nazionalistico, l'attenzione agli elementi della tradizione, il riferimento a una cultura e modi d'essere autoctoni. Yamamoto è anche la quintessenza degli eroi kitaniani, protagonista di un percorso narrativo e tematico che il regista non si stanca di declinare: ognuno si porta dentro un destino già segnato, che ha bisogno di un intero film per giungere a compimento. Per quanto possano entrare nel gioco Storia e società, la solitudine umana si mantiene perfettamente invulnerabile.

FRATELLO YAKUZA DA UN ALTRO PIANETA: BROTHER

Titolo originale: id. Regia, sceneggiatura e montaggio: Kitano Takeshi. Fotografia: Yanagishima Katsumi. Musica: Joe Hisaishi. Scenografia: Isoda Norihiro. Costumi: Yamamoto Yohji. Interpreti: Beat Takeshi (Yamamoto), Claude Maki [Maki Kuroudo] (Ken), Omar Epps (Denny), Kato Masaya (Shirase), Osugi Ren (Harada),Terashima Susumu (Kato), Ishibashi Ryo (Ishibashi), James Shigeta (Susimoto), Watari Tetsuya (il boss Jinseikai), Tony Colitti (Roberto), Joy Nakagawa (Marina). Produzione: Jeremy Thomas, Mori Masuyuki per Recorded Pictures Co./Office Kitano. Distribuzione: keyfilms. Durata:112'. Origine: Giappone/Gran Bretagna, 2000.

In seguito alla sconfitta del suo clan, lo yakuza Yamamoto si rifugia a Los Angeles, dove ritrova Ken, il fratellastro minore che spaccia droga per le strade assieme a due amici. Uno di questi, il nero Denny, si lega particolarmente a Yamamoto, nonostante il giapponese lo abbia immediatamente pestato e si diverta poi ad imbrogliarlo al gioco. Un ceffone subito da Ken, in seguito a una controversia con il suo fornitore,è l'occasione per lo yakuza di rimettersi in attività, trasformando i teppistelli in uomini d'onore. Dopo aver sgominato i rivali messicani ed essersi alleata con un clan nipponico già affermato, l'organizzazione di Yamamoto sembra destinata al trionfo. La decisione di fare la guerra alla mafia italiana, però, si rivela letale. Il boss yakuza, che dopo essersi beccato una pallottola è sprofondato nel cinismo, va incontro alla morte. Prima, ha fatto in tempo a consegnare a Denny, l'unico superstite, una valigetta piena di soldi.

 

Brother, stando a quanto ha raccontato Kitano, sarebbe la riscrittura metaforica di una pagina cruciale della storia giapponese: Yamamoto è il nome dell'ammiraglio che pianificò l'attacco a Pearl Harbour, pur consapevole che una guerra a lungo termine avrebbe significato la sconfitta del suo paese. Anche il protagonista del film si chiama Yamamoto:il boss yakuza, artefice del successo dell'organizzazione, vive l'apogeo della sua impresa criminosa con distacco, talvolta con scherno. Come il suo omonimo, sa che colpire il gigante (la mafia italiana) significa soccombere. Il parallelismo è sottile, e senza l'aiuto delle parole del regista non saremmo arrivati a riconoscerlo. Ammettiamo anche che può trattarsi di un depistaggio ordito nei confronti di critica e pubblico. Ad ogni modo, confrontandosi per la prima volta con un territorio non giapponese, Kitano sembra sentire il bisogno di rimarcare il discorso nazionalistico, l'attenzione agli elementi della tradizione, il riferimento a una cultura e modi d'essere autoctoni. D'altro canto, Yamamoto è anche la quintessenza degli eroi kitaniani, protagonista di un percorso narrativo e tematico che il regista non si stanca di declinare: ognuno si porta dentro un destino già segnato, che ha bisogno di un intero film per giungere a compimento. Per quanto possano entrare nel gioco Storia e società, la solitudine umana si mantiene perfettamente invulnerabile.

Subito dopo essere sbarcato a Los Angeles, in attesa del primo taxi che lo porti in albergo, Yamamoto è già un uomo morto, anche se nessuno lo sa. Poco dopo, in flashback, scopriamo la miseranda fine della famiglia yakuza a cui apparteneva: in Giappone, la sua condanna è segnata. Per procurargli un passaporto, gli amici pestano un poveraccio, e il gangster avrà nome e cognome di un cadavere qualunque, come prima traccia della sua dimensione spettrale. La fuga in terra americana è l'ultima, malinconica parentesi prima dell'inevitabile: per un motivo o per l'altro, la morte verrà a prenderlo, sotto forma di una tempesta di proiettili degna di un uomo che nella vita ha contato qualcosa, almeno a giudicare dai nemici che è riuscito a procurarsi. Rispetto agli altri titoli di Kitano, Brother inserisce una variante che si specchia nitidamente nel retroterra produttivo del film. La prima opera del regista con finanziamenti internazionali diventa anche la sua prima occasione per portare la macchina da presa fuori dai confini giapponesi e far muovere i personaggi in un territorio autenticamente alieno.

L'impatto immediato sembra produrre spaesamento, almeno a guardare Yamamoto dall'esterno. Egli, a parte quel leggero tic nervoso che gli solleva ad intervalli regolari il labbro, lascia trasparire ben poco, anche perché l'inglese sembra essergli a tutta prima incomprensibile. In ottemperanza ai doveri di ogni eroe interpretato da Beat Takeshi, parla di rado, ma in compenso ha un bel sorriso e sa colpire molto duro, senza preavviso. Presto è chiaro che, per uno yakuza della sua pasta, calarsi nella realtà statunitense non significa affatto ritrovarsi sopraffatto dai grattacieli e sperso nel traffico. A dispetto delle mance troppo generose elargite a destra e a manca, Yamamoto non fa nessuna fatica ad adeguarsi, portandosi da casa il proprio metodo. La sequenza del suo primo impatto fisico con un cittadino americano ce lo rivela con evidenza: quando Denny, il ragazzotto di colore con cui si scontra per la strada, gli dà dell'idiota, la sua risposta è di efficacia micidiale, un cazzotto vibrato con precisione e i cocci di una bottiglia ficcati negli occhi. Kitano spezza l'uno-due con un dettaglio molto significativo sulla mano del giapponese, quel tanto che basta per vedere due falangi protrarsi in avanti e fare dell'arto un'arma più precisa e nociva. Questo gesto repentino sembra l'applicazione corretta di un sapere che proviene dall'esperienza e, con probabilità, dai giusti insegnamenti. Yamamoto esporta dal Giappone una competenza che si rivela da subito appropriata al Nuovo Mondo: invece che rinunciarvi, conviene applicarla con profitto, farcendo valere ciò che si impara a casa.

Brother è il primo film di Kitano che tematizza esplicitamente il rapporto tra culture largamente inconciliabili: non tanto contrapponendo gli usi e i costumi nipponici a quelli yankee, ma più precisamente confrontando differenti modi di intendere la malavita organizzata. Le grandi dinastie criminali appaiono per quello che sono: società a struttura rigidamente piramidale, fondate su codici comportamentali propagati nel corso delle generazioni. Molti aspetti si ripetono di clan in clan: la tensione ad espandersi territorialmente, la cena come momento decisivo per la gestione del potere, il vizio di troncare parti del corpo ai malcapitati (alle dita mozzate dagli yakuza risponde una testa decapitata dai mafiosi italiani). Ogni gruppo, però, prospera su basi etniche: non solo giapponesi e italiani, ma anche messicani, cinesi e via dicendo. Le regole delle organizzazioni, quindi, possiedono anche tratti marcatamente nazionali. Kitano, naturalmente, tifa per il proprio paese, anche se condanna il suo eroe alla sconfitta. È vero che la ghenga di Yamamoto comprende negri, chicani, guardie del corpo bianche, ma il fulcro rimane marcatamente nipponico: la scalata al potere è compiuta non solo grazie alla destrezza degli uomini, ma anche in virtù di un sistema etico e operativo sedimentato in secoli di mafia nazionale.

Con insistenza mai eguagliata da altri suoi film, Kitano pone l'attenzione sui momenti rituali, quasi volesse porre in primo piano le differenze tribali dei vari clan: gli inchini ossequiosi al passaggio del capo, la cerimonia del sakè per l'ammissione di nuovi affiliati, l'usanza cruenta di tagliarsi di netto un dito per chiedere perdono e clemenza ai superiori. In quest'ultimo caso, la violenza, una delle cifre tematiche e stilistiche che meglio caratterizzano il regista, viene posta nel solco di una tradizione precisa, parte di un copione eminentemente giapponese. Con questo, non intendiamo dire che i vari episodi sanguinolenti del film siano tutti iscritti in un rito. Le azioni degli yakuza, però, sembrano andare a buon fine perché risolte con un'abilità acquisita nel paese e nella società mafiosa d'origine: si tratti di proiettili sempre a bersaglio, finissime strategie per entrare nella tana del nemico e sterminarlo, o giochetti sadici impregnati di humour nero (su tutti, i bastoncini conficcati nelle narici di un membro del gruppo che ha sgarrato). Lo spostamento territoriale, ad ogni modo, implica degli aggiustamenti: il primo nucleo reclutato è un trio multietnico di spacciatori di mezza tacca (una piccola armata Brancaleone poi ripulita ed addestrata a dovere), e il procedere implacabile della tradizione nipponica viene scompaginato nella sequenza in cui il taglio del dito avviene ai danni di un americano comprensibilmente pavido.

Brother, invece, sul piano della messa in scena, non risente affatto della trasvolata in America. Kitano tende a conferire a Los Angeles un aspetto anonimo, preferisce i luoghi che si assomigliano in ogni parte del mondo: gli interni, le periferie degradate, la spiaggia. La gelida precisione delle inquadrature, la tensione che si accumula nel quadro,gli scoppi d'ira, le variabili nella relazione tra campo e fuori campo, le ellissi o le pause liriche confermano che Kitano è un regista che ha imposto uno stile e non intende rinnegarlo, svenderlo, od adeguarlo all'occorrenza. L'etica dei suoi personaggi e quella dei suoi sguardi non costituiscono più una sorpresa, e forse questo non è il "miglior Kitano" semplicemente perché, dopo nove film, il suo cinema non ha ancora cominciato a sentire l'ansia del rinnovamento a tutti i costi (se escludiamo Getting Any?, una sorta di virus corrosivo nella sua filmografia). Del resto, il regista ha dichiarato di aver solo seguito le indicazioni della produzione, che chiedeva un film vicino a quanto egli ci aveva abituato in passato. Segno che la sua cifra stilistica è assurta al rango di marchio universal-mente riconosciuto, anche fuori da un ambito strettamente cinéphile. Egli insomma, sembra destinato a perpetuare una carriera di autore da cui aspettarsi squisita qualità e soddisfazione alle esigenze dei fan, ma non una rivoluzione del suo cinema. L'organizzazione dei piani di Brother è, alla radice, la stessa che abbiamo amato in Violent Cop, la sua opera d'esordio. Kitano, di film in film, non esita a citarsi con compiacimento, tanto che qualche spettatore può ritenersi quasi saturo di giochi sulla spiaggia filmati da lontano o di variazioni sul gag del dito tagliato con un coltellaccio da cucina. A tratti, lo sforzo di rinnovamento maggiore sembra concentrarsi nell'invenzione di episodi violenti sempre più ricercati, per inscenare efferatezze non ancora consumate in precedenza, organizzate con soluzioni registiche di volta in volta diversificate (in campo lungo, montando velocemente i dettagli, lasciando ampio spazio al fuori campo...):quasi Kitano cercasse di compilare, di pellicola in pellicola, una sorta di catalogo sadico in corso di continuo arricchimento.

Mancano ancora gli adepti dietro alla macchina da presa, qualche giovane occidentale impegnato nell'imitazione del suo cinema, ma francamente non ne sentiamo il bisogno. Un Kitano ogni tanto è sufficiente alla nostra gioia,e ad ogni modo la sua carriera sul grande schermo ne ha negli anni confermato l'isolamento stilistico nel panorama mondiale. Da questa posizione di eccellenza, il suo cinema può ambire a porsi definitivamente fuori dalla mischia, protetto dal prestigio acquisito e consapevole dell'esattezza del metodo impiegato. Un po' quello che succede a un boss yakuza.

Nella seconda parte di Brother, Yamamoto non partecipa più in prima persona alle attività, perde i pomeriggi con una minuta giapponese dotata di un'allegra civetteria congenita, aspetta in macchina mentre i suoi proseliti concludono gli affari importanti, non si associa alle partite di basket a cui i compagni si dedicano nei momenti di pausa. Nel quartiere generale dell'organizzazione, se ne sta fermo seduto a un grande tavolo che non divide con nessuno, non esprime assensi o dissensi, ogni tanto lascia cadere un'osservazione sarcastica, sembra distante anche dai doviziosi calcoli in cui il contabile del gruppo è costantemente assorto. Al posto di maneggiare la pistola, egli affina la propria amicizia con Denny, ed ordisce ai suoi danni imbrogli sempre più sottili. Tutto questo, da un lato, sancisce il rafforzamento del suo statuto di capo. Dall'altro, però, la sua appare una precisa scelta etica, che scatta dopo che l'amico, per sventare un agguato, gli ha centrato il petto con un proiettile (un giapponese, supponiamo, non avrebbe sbagliato la mira). Grazie a quell'evento, la consapevolezza della propria precarietà diventa inoppugnabile e la morte gli appare chiaramente un appuntamento solo rimandato di poco. Dibattersi significherebbe solo posticipare vanamente, tanto vale ritirarsi in se stessi e lasciare che le cose succedano.

Nel corso del flashback giapponese, invece, l'isolamento del vecchio boss yakuza appare sotto il segno del grottesco. I suoi uomini lo portano in un night, ed egli se la spassa pateticamente alla faccia della noiosa moglie rimasta a casa. La gestione degli affari appare ormai fuori dalla sua portata; se non fosse per l'accortezza dei suoi luogotenenti, i nemici lo avrebbero già liquidato da un pezzo. Il capo, in questo caso, ha raggiunto un vetta talmente elevata della piramide da non essere più in grado di vedere quello che brulica sotto. Il suo prestigio si sostiene sulla santificazione da parte degli adepti; la sua forza, acquisita nelle prove passate, è ora minata seriamente dalla sclerosi. Siamo sicuri che il cinema di Kitano sfuggirà a questo destino.

Andrea Meneghelli