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Dâyere (Il cerchio) - Speriamo che non sia femmina

Iran

Una lettura di Dâyere (Il cerchio) anti-kiarostamiana. Per sottolineare come il rigido e didascalico impianto allegorico della pellicola sia necessario per trasmettere senza tentennamenti, come diceva Truffaut, un'idea di cinema e un'idea di mondo.

SPERIAMO CHE NON SIA FEMMINA:Il cerchio di Jafar Panahi

 

Titolo originale: Dayereh. Regia e soggetto: Jafar Panahi. Sceneggiatura: Kambozia Partovi. Fotografia: Bahram Badakh-shani. Montaggio: Jafar Panahi. Scenografia: Iraj Raminfar. Interpreti: Fareshteh Sadr Orafai (Pari, l'evasa), Maryiam Parvin Almani (Arezou), Nargess Mami-zadeh (Nargess), Elham Saboktakin (Elham, l'infermiera), Monir Arab (Monir, la cassiera del cinema), Fatemeh Naghavi (Nayereh, la madre), Mojgan Faramarzi (Mojgan, la prostituta). Produzione: Jafar Panahi per Jafar Panahi Film Productions/Mikado/Lumiere & Company. Distribuzione: Mikado. Durata: 91'. Origine: Iran/Italia, 2000.

In una sala parto una donna, Solmaz, ha appena partorito. Sua madre si informa sul sesso del neonato e con profonda tristezza apprende che si tratta di una bambina, mentre la famiglia del marito si aspettava un maschio. Tre donne, tra cui Arezou e Nargess, sono state appena rimesse in liberta, dopo un periodo trascorso in carcere. Rimaste sole, dopo che la terza e stata fermata dalla polizia, Arezou e Nargess si mettono alla ricerca di un'amica, Pari, con cui hanno condiviso la cella. Arezou, che non si fa troppe illusioni sul suo destino, aiuta Nargess a trovare i soldi necessari per prendere una corriera e tornare al paese natale. Ma Nargess, dopo aver avuto gia problemi solo per acquistare il titolo di viaggio, si vede costretta, non essendo accompagnata da un uomo, a non prendere la corriera a causa del controllo effettuato dalla polizia su tutti i passeggeri.
 

Nel frattempo Pari, scacciata da casa perché incinta, si reca prima da un'ex compagna di cella, che ora lavora come cassiera di un cinema e ha accettato la seconda moglie del marito, poi da un'altra, che lavora come infermiera in un ospedale e non può aiutarla ad abortire per timore che il marito medico scopra il suo passato. Essendo vedova (il marito e stato fucilato in carcere), Pari non ha nemmeno il diritto di dormire in albergo. Sulla sua strada incontra Nayereh, una madre che, non potendo allevare la figlia, l'ha abbandonata su un marciapiede nella speranza che una famiglia la adotti. Avendo accettato il passaggio in macchina di un uomo, Nayereh scopre che costui è un poliziotto e che si appresta a farla arrestare come prostituta. Al posto di blocco la donna riesce a fuggire, proprio mentre una giovane prostituta, Mojgan, sta per essere tradotta in carcere. Nella cella in cui Mojgan finisce si trovano tutte le altre ex detenute, che non sono riuscite a sottrarsi ad un destino segnato.

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Dietro lo specchio
Occupandoci nello specifico de Il cerchio, l'equivoco maggiore riguarda il rapporto di Jafar Panahi con Abbas Kiarostami. Aver esordito con un film, Il palloncino bianco, scritto dall'autore di Sotto gli ulivi, di cui e stato aiuto regista, ha alimentato la convinzione che Panahi sia condizionato dall'estetica e dalla poetica del suo mentore e maestro. Se si prende, infatti, Il palloncino bianco è facile sopravvalutare le analogie con Dov'e la casa del mio amico e in generale con i film iraniani basati su vicende ossessive che hanno nei bambini i caparbi protagonisti destinati alla fine, emblematicamente, a spuntarla. Ma gia Lo specchio, ha rappresentato un evidente esempio di emancipazione dal modello Kiarostami, nonché un ribaltamento drastico della convenzione realistica ed infantile sottesa a molto cinema iraniano cresciuto all'ombra dei finanziamenti statali attraverso la Fondazione Farabi e per conto del Delegato degli Affari Cinematografici e delle normative dell'Istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e degli Adolescenti. Senza per questo voler accreditare Kiarostami come un autore legato volente o nolente alle istanze conservatrici del potere centrale, non si può negare che Lo specchio prima, enunciando l'artificio insito nell'impianto narrativo kiarostamiano, e ora Il cerchio, affrontando senza mezzi termini il discorso sulla trasversale subalternità della condizione femminile nell'attuale società iraniana e in generale nella cultura sciita, possano essere letti, in prospettiva, come tappe consequenziali di una necessità di esprimersi in maniera sempre piu diretta, concreta ed evoluta. Ciò non vuol dire che Panahi sia più creativo o più lungimirante di Kiarostami, né che quest'ultimo abbia seguito finora una strada insoddisfacente e limitata. Di sicuro Panahi (che cosi si è giocato definitivamente i finanziamenti statali, la possibilità di non dover ricorrere per forza a quelli stranieri e, chissà, di poter anche solo pensare di girare un qualsiasi prossimo film in Iran) è stato più coraggioso di Kiarostami. Ma, come stanno a dimostrare anche la fitta simbologia e la persistente struttura allegorica su cui Il cerchio si fonda, non si tratta per questo di rivedere radicalmente il giudizio sul cinema iraniano degli ultimi dieci anni, che con cineasti cosi poco accondiscendenti quali Amir Naderi e Mohsen Makmalbaf (e non solo quindi con Kiarostami) ha fornito gli strumenti per un approccio alla realtà originale soprattutto perché di tipo antinaturalista. Il terzo film di Panahi, semplicemente, porta a compimento in maniera esemplare un percorso che, dall'apparenza de Il palloncino bianco, e passato all'anticlimax ostentato de Lo specchio, per arrivare infine ad una compiuta ed intransigente dichiarazione, almeno sul piano concettuale, dell'incompatibilità oggettiva del discorso artistico e dell'impiego cosciente del mezzo cinematografico con una normativa ideologica tradotta, magari più per convenienza che per necessità in una poetica dello sguardo esteticamente codificata, inconfondibile e potenzialmente riproducibile. Poiché, se si tiene conto di quest'aspetto predominante de Il cerchio, appare persino scontata, sebbene non così immediata e lineare, la sua portata comunicativa. In parole povere, ciò che il film dice lo dice in maniera abbastanza esplicita e c'e ben poco che si possa aggiungere, persino volendo affrontarne un'analisi minuziosa. Per certi versi, Panahi sembra essere disposto a pagare in termini di originalità e di fantasia ciò che invece guadagna, e per sua fortuna, in immediatezza e urgenza denunciataria. E per ribadire ulteriormente il concetto sul versante della politica dei rispettivi autori, si potrebbe azzardare che Panahi, liberandosi dal complesso di effettiva inferiorità nei confronti della geniale e a tratti vantaggiosa reticenza dell'autore di Close-up e Il vento ci portera via, si sia ritagliato uno spazio più congeniale.

Dov'è la libertà?
Sin dal titolo, l'ultimo film di Jafar Panahi intende giocare a carte scoperte con lo spettatore. La metafora del cerchio, infatti, non soltanto imbriglia il tracciato narrativo, ma viene costantemente evocata dai luoghi in cui l'azione si consuma, che rimandano ad altret-tante figure circolari (la tromba delle scale nel primo episodio, per citare l'esempio più vistoso), e dai movimenti di macchina che per l'appunto avvolgono, stringono e rinchiudono le protagoniste di questa incessante staffetta (come sta a dimostrare la panoramica finale di 360°che corrisponde ed equivale a quella inaugurale de Lo specchio).

Alla lunga potrebbe risultare addirittura eccessiva e controproducente la facilità stessa con cui Il cerchio si rende decifrabile, a causa della sua costante e a tratti ridondante disseminazione di immagini traslate che riflettono su scala ridotta e modulare quella centrale del cerchio, inteso come negazione della libertà femminile. E, nel complesso, negazione di un'intera società che, penalizzando senza appello la componente femminile, si rinchiude tragicamente e irrazionalmente in se stessa e si priva di qualsiasi prospettiva o apertura. Perciò, non ha senso notare che il film possiede un'impostazione schematica, piuttosto rigida e accademica. Di certo, però, non si può rimproverare a Panahi il bisogno di irreggimentare la propria vivacità e la propria curiosità ad ampio raggio attraverso costrutti in grado di garantire al risultato finale coesione, ordine e coerenza. Né gli si può contestare la volontà, per la prima volta, di concentrarsi sulle cose che altrove aveva potuto solo accennare o fingere di trattare per caso. Tutto ciò può comportare una giustificata insistenza, che comunque trova solo ora e in questa rinnovata convergenza di bersagli polemici trasparenti l'occasione di una resa dei conti liberatoria, incontinente e a tutto campo. Poiché, mentre ne Lo specchio il tema dell'insofferenza femminile verso modelli comportamentali e costumi collettivi determinati e imposti dalla società degli uomini premeva ai margini della struttura narrativa come una forza latente e centrifuga, ne Il cerchio il discorso si fatalmente urgente, lineare e lucido da destare, paradossalmente, una punta di imbarazzo in chi era finora stato abituato a distillare con parsimonia e pazienza i contenuti antagonisti entro forme destinate, se non a favorire, almeno a non intralciare le pratiche del consenso. Insomma, Panahi, senza la benché minima preoccupazione di apparire pedante, fa sì che ogni storia femminile rappresenti nel film la continuazione della precedente, appena questa registra una battuta d'arresto, causa un qualsiasi impedimento materiale riconducibile all'egemonia maschile. Cultura, forze dell'ordine, religione, morale, leggi e consuetudini sociali e civili concorrono a rendere impraticabile alle protagoniste ogni sbocco autonomo. Una volta che le donne contravvengono all'ordinamento maschile, non hanno più chance di sfuggire al carcere. Tanto vale, per loro, tornarci di propria spon-tanea rassegnazione. E ogni segmento narrativo in se è un vicolo cieco nel quale soltanto la struttura solidale rigorosamente al femminile, in via del tutto temporanea e illusoria, ha la facoltà di aprire un varco. Ma alla fine, va da se, quest'itinerario fintamente progressivo e destinato a richiudersi o, per meglio dire, a ritorcersi su se stesso, ritornando e riportando al punto di partenza tutte le vittime femminili. Un punto di partenza o di arrivo, poiché non fa alcuna differenza, che è pur sempre un luogo istituzionale, sia esso l'ospedale o la prigione. Del resto ogni gesto, circostanza, proposito, soluzione o spazio è stato nel corso del film ipotecato da una spietata e alienante ripetizione che ne ha siglato implacabilmente l'inibizione. Basti pensare, ad esempio, a Pari, l'evasa, la quale ha cercato di abortire solo perché, partorendo, avrebbe potuto avere anche la sfortuna di mettere al mondo un'altra femmina, esattamente come Solmaz, la ragazza senza volto che nella sequenza inaugurale si e macchiata dell'onta di aver riprodotto il proprio sesso e non quello maschile. Preventivando una disgrazia simile, se solo non interrompesse volontariamente la gravidanza, Pari si troverebbe con ogni probabilità nella drammatica necessità di dover abbandonare per strada la figlia. Che è poi l'unica via d'uscita cui si vede costretta, come donna e di conseguenza come madre, Nayereh, la quale, a proposito di grottesca circolarità degli eventi, si vede rimproverare il misfatto proprio da Pari. E mentre tutte le altre compagne di sventura corrispondenti ad un ventaglio di opzioni o opportunità femminili negate fuggono, scalpitano, cercano di far valere le proprie ragioni o almeno di comunicarle con passione, paura o disperazione, solo una delle protagoniste, non a caso l'ultima, la prostituta Mojgan, che idealmente ha assimilato le indirette ma implicite esperienze pregresse, appare abbastanza lucida, spregiudicata e demotivata da non aver più voglia di parlare, salvo che per indisporre l'ufficiale di polizia. A Mojgan non resta che decidersi a fumare, sul furgone che la riporta in prigione, la tanto agognata sigaretta, lusso che le altre non si sono nemmeno concesse. E se la fuma senza attendere il permesso degli agenti di polizia, i quali sono, dopotutto, uomini. In questa costruzione consecutiva e coordinata del gioco delle parti, Mojgan, in rappresentanza di tutte coloro che l'hanno preceduta e che, in quanto donne, si scoprono in chiusura a condividere lo spazio della stessa cella, una cosa l'ha imparata: esprimersi, capire, chiedere o protestare a voce e inutile. Inutile almeno quanto farsi illusioni sul mondo esterno, sulla famiglia o sulla casa in cui sono nate. Infatti, a pochi passi da lei c'e anche Nargess, l'ex detenuta che ha invano cercato di ricostruirsi una vita, tentando di partire e di tornare al suo paese. E pensare che Nargess si era persino soffermata lungo la strada a comprare un regalo e ad ammirare un quadro raffigurante, a suo dire, il paese natale con tratto limpido e sereno. Chissà che questo quadro bucolico, rassicurante e utopico non alluda, in quanto riproduzione, rappresentazione pittorica e quindi immagine riflessa, a tutto il cinema iraniano che Panahi si è lasciato alle spalle.

Anton Giulio Mancino