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Conversazione con Takeshi Kitano, Venezia 1997

Giappone

Conversazione con Kitano Takeshi, Venezia 1997. Intervista con l'autore vincitore del Leone d'Oro per il film Hana-Bi.

CONVERSAZIONE CON KITANO TAKESHI, VENEZIA 1997

Hana-Bi:può spiegarci questo polisemico titolo?
A dire il vero non l'ho scelto io, ma il produttore. Anche se poi è piaciuto anche a me. Il termine "hanabi" equivale all'inglese "fireworks", ma in questo caso abbiamo sottolineato i due caratteri hana (fiore) e bi (fuoco) separatamente: il primo diventa simbolo della vita, mentre il secondo appare nella forma di una fucilata, un "gun fire", cioè come simbolo della morte. Anche i corpi dei personaggi uccisi nel corso del film evocano l'immagine di un fuoco d'artificio. Trovo che sia un titolo indovinato. E ne sono ancora più convinto, da quando mi hanno fatto notare che ha una sfumatura piacevole anche nelle lingue latine.
 

Nei titoli di apertura leggiamo: "Kitano Takeshi Vol. 7". È da intendere come una continuità rispetto alla sua produzione precedente o come premessa alla opere future?
No, non avevo intenzione di proporre alcuna continuità. Però all'inizio avevo scelto "Volume 7" come titolo del film. Beh, del resto è proprio il mio settimo film... Però il mio staff si è opposto a questa scelta. Di mio, avrei preferito che questa fosse semplicemente "la settima opera di Kitano Takeshi". Avevo pensato anche a un titolo tipo Baka yarō (Idiota!) in riferimento all'indole del protagonista Nishi: è un tipo come non ne esistono più in Giappone e che quindi si può definire stupido. Ma il mio staff si è opposto anche a questo titolo.

Cosa lega Nishi ai protagonisti dei suoi film precedenti, in particolare ad Azuma di Un poliziotto violento?
Nishi è completamente diverso sia da Azuma sia dal Murakawa di Sonatine: è diverso per quanto ha dietro di sé. Azuma vive nel terrore e nell'apprensione di avere lo stesso sangue di sua sorella, che soffre di un handicap psichico, e si trasforma perciò in uno spietato detective. Murakawa è invece uno yakuza alla ricerca di un luogo in cui morire. In pratica fuggono entrambi in direzione della morte. Al contrario, Nishi cerca di fronteggiare la morte, di sfidarla direttamente. Per questo è diverso dagli altri.

Abbiamo già accennato all'importanza del binomio vita-morte: in che rapporto le intende?
Nel "modo di vivere" c'è anche un percorso verso la morte, così come nel "percorso verso la morte" c'è un modo di vivere. Nel Giappone contemporaneo si cerca di ignorare la morte, problema che invece andrebbe assolutamente affrontato; viceversa, abbondano i riferimenti alla vita. Credo sia necessario un equilibrio tra vita e morte, che si debba dare a entrambe lo stesso peso. Secondo me, ogni individuo e le proprie azioni sono la risultante di un continuo altalenare tra un "più" e un "meno", tra un positivo e un negativo. Solo nel passaggio tra questi estremi si stemperano gli eccessi come quello della morte.

La famiglia è per lei un'istituzione in declino? Oltre alla situazione di Nishi, penso anche a Horibe, in particolare quando constata che i coniugi sono in realtà dei puri estranei.
Non solo di recente in Giappone sono in aumento i casi di efferata criminalità giovanile, ma incomincia ad essere considerato come problema sociale anche il fatto che le famiglie si disgreghino. Credo che avanti di questo passo in futuro si creeranno situazioni molto più gravi. La mia opinione non è certo quella della maggior parte dei giapponesi, per cui matrimonio e famiglia sono tuttora modelli molto forti. Ma nella mia infanzia ho vissuto la famiglia molto negativamente e forse quest'esperienza si riflette anche nei miei film.

Come effettua la scelta dei set? In particolare, gli ambienti naturali, specie il mare, tanto ricorrenti nei suoi film, sembrano quasi svellere le storie da un determinato confine nazionale.
Non è che io intenda "internazionalizzare" i miei film, ma certo è che le città, la natura e i colori del Giappone sono identici a quelli di altri paesi asiatici, un mondo molto vario e con una tinta difficile da cogliere. In tal senso, ho cercato dei luoghi che fossero il più possibile costituiti da materia inorganica. Il mare mi piace molto perché è il luogo dove più si percepisce l'antichità degli esseri viventi. Però ho paura di entrarvi.

Bellissima la scena in cui Horibe si avvicina al negozio di fiori. In cosa consiste esattamente la metafora degli animali? E la pratica di occultare i volti, in questo caso con i fiori, ha attinenza con l'antica consuetudine pittorica giapponese di obliterare i lineamenti per esaltare i tratti della personalità?
In quel momento Horibe è attratto dalla forma e dal colore dei fiori. Ne è commosso, proprio perché i fiori esistono dall'antichità più remota. A questi unisce l'immagine degli animali, cioè di esseri più attivi in rapporto ad essi. È a questo punto che Horibe viene spinto da un istinto irresistibile verso la vita. Dipingendo questi quadri, può quindi verificare la propria consapevolezza dell'esistenza. Ma non è ancora in grado di disegnare degli esseri umani. Sarà capace di farlo solo dopo il ritratto della ragazza nel quadro del faro, a cui seguirà quello della famiglia.

Uno dei leitmotiv di Hana-Bi sembra essere la luce e la sua rappresentabilità: nei dipinti dei girasoli e del faro a cui lei ha accennato, ma in particolare nella distesa di neve di alcune delle scene finali. La luce che cancella i limiti del visibile ha una forte connotazione religiosa.
Non era mia intenzione sottolineare il significato di carattere religioso, ma certo è che il buio più pesto, senza luce, è simbolo di un mondo che "non esiste". In questo senso la luce è quindi simbolo dell'esistenza.

Nell'ultimo quadro di Horibe lei usa gli ideogrammi di luce, neve e suicidio nella triplice valenza di parola, colore (rispettivamente giallo, bianco e rosso) e forma (per esempio, i caratteri di suicidio disposti a disegnare un cadavere).
Sì, è esattamente ciò che ho cercato di rendere. Ero molto interessato alle possibilità offerte dall'uso della forma e del colore. Un discorso a parte va fatto invece per il linguaggio verbale: visto che il mio lavoro d'origine, il manzai, si basa proprio sull'uso della parola, vorrei riuscire a esprimere la forza insita nella parola stessa e insieme i suoi limiti. Per questo do estrema importanza a ogni singola frase. Io credo che l'elemento base del cinema sia il film muto, che sia fondamentale raccontare la storia attraverso le immagini.

Una delle scene più interessanti e anti-hollywoodiane di Hana-Bi è quella della rapina in banca.
Avevo in mente di girare questa scena e di utilizzare la videocamera della banca sin da quando ho incominciato a concepire l'idea di questo film. E volevo proprio girarla in modo che fosse il più possibile distante dal modello hollywoodiano.

La fotografia è il tema di un paio di scene. Un tramite con il futuro?
Visto che la moglie è a un passo dalla morte e lo stesso Nishi è fermamente deciso a morire, una loro foto non sarebbe altro che un negativo mai sviluppato. Io volevo esaltare quelle due situazioni: loro due che trascorrono serenamente del tempo all'interno del tempio e poi invece il dolore di Nishi nella locanda. Però preferirei lasciare libera interpretazione a chi vedrà il film.

Allo stesso modo, anche la bambina che appare nell'ultima scena lascia pensare a una continuità dopo la morte.
Anche in questo caso mi va bene qualsiasi tipo di interpretazione. Io non volevo che il film fosse solo la "love story" della coppia. Con questa scena ho cercato di descrivere il loro rapporto in modo romantico e con emozione. La ragazza che si trova per caso ad assistere al loro suicidio significava per me che la loro morte è una realtà della vita.

In Hana-Bi ricorrono molti tratti apertamente autobiografici, come già era stato per Kids Return.
Molti degli episodi di Kids Return appartengono alla mia adolescenza: tutta la storia, fino al punto in cui Shinji decide di dedicarsi alla boxe, ricalca le mie esperienze. Ma negli altri miei film non c'è nulla di autobiografico.

Lei ha sostenuto più volte di non sapere nulla di cinema. Eppure cura ogni fase di lavorazione dei suoi film, a cominciare dal montaggio.
A differenza di altri autori, io non conosco le tecniche basilari di regia. Però giro i film a modo mio, con una tecnica particolare.

Una tecnica particolare che consiste negli inediti tempi dell'azione, dalle dilatazioni parossistiche alle stilizzazioni in gesti brevissimi, spesso ripresi con rari movimenti di macchina.
Credo che tutto questo derivi direttamente da una mia qualche predisposizione fisiologica. Non saprei spiegare a parole queste scelte.

E che mi può dire della tinta prevalente di Hana-Bi, il blu?
È la stessa tinta che ho utilizzato negli altri miei film. Io la chiamo "blu Kitano".

Nel suo saggio tradotto in italiano, Ecco perché mi odiano, la sua satira si fa quanto mai pungente. A farne le spese, soprattutto, sono le donne e i giovani. Eppure nel suo penultimo film, Kids Return, il mondo giovanile viene descritto con grande sensibilità. Come mai questa inversione di rotta?
Credo che in Giappone le cose siano messe così male, che, se andremo avanti di questo passo, la nostra cultura scomparirà. Ciò che è peggio, è che tante donne e tanti giovani, simili a quelli cui mi sono riferito in quel libro, l'hanno letto credendo che io parlassi di qualcuno differente da loro. E l'hanno trovato interessante, mi hanno dato ragione e hanno persino constatato che in giro c'è tanta gente orribile. E io che invece parlavo proprio di loro! Con Kids Return volevo dire che la "gioventù" di per sé non ha alcun valore e che ci sono tante cose su cui i giovani dovrebbero riflettere prima di brandire la "libertà" e i "diritti" senza provarne i rischi. Non ho cambiato idea sui giovani.

Può parlarci di Lo fanno tutti? il suo film meno conosciuto in Occidente?
Io lo definisco "il figlio buono a nulla", un incapace, uno di cui tutti dicono male. Ma proprio per questo lo trovo carino e lo amo.

Agli yakuza lei dedica un particolare black humour. Ha avuto qualche rapporto con il loro mondo o le è mai capitato di avere con loro dei problemi a causa dei suoi film? Ritiene anche di essere influenzato da un certo cinema noir o dagli "yakuza eiga" degli anni 60?
Io sono nato e cresciuto nella "downtown" di Tōkyō, ambiente di yakuza e di artigiani. Per questo sono sempre stato abituato alla loro presenza. Per dirla tutta, mio padre era un artigiano, ma come tipo sembrava più uno yakuza. Non mi è mai capitato di passare dei guai con loro a causa dei miei film; anzi, al contrario pare che molti yakuza siano diventati miei fan. Una volta mi hanno perfino rapito per complimentarsi con me, bere qualcosa insieme e infine rilasciarmi. Per quanto riguarda un'eventuale influenza del cinema noir o degli "yakuza eiga", da questi ho imparato solo ciò che non avrei dovuto fare, cioè realizzare film simili.

Oltre ad apparire in vari programmi sul piccolo schermo, si deve a lei l'invenzione di tante nuove formule televisive.
Quasi tutti i programmi a cui ho preso parte finora sono nati da una mia idea di base. In questo senso, direi che li ho praticamente ideati io. Abbracciano una grande varietà di generi, da quelli comici a quelli a carattere culturale.

Che rapporto c'è tra la sua televisione e il suo cinema?
Per me la televisione è lavoro, mentre il cinema è uno svago.

E tra il suo manzai e il cinema?
Il manzai è composto da parti, mentre il cinema è l'arte della sintesi.

C'è un futuro per il Kitano pittore?
Non mi reputo pittore neanche adesso.

Ha già qualche progetto per il suo prossimo film?
Avevo tante idee, ma voglio dimenticarle tutte e ripartire da zero.

Crede che ci sia qualcosa che noi Europei dovremmo capire di lei?
Che sono un tipo difficile da capire, uno che non si sa mai cosa combina.

Maria Roberta Novielli