Asiamedia

Brother

Giappone

Le inquadrature in Brother non sembrano scorrere, susseguirsi una all'altra in una temporalità lineare, ma sovrapporsi con la lentezza dei fogli di calendario. Kitano va in America, costituisce una scalcinata banda di yakuza e si mette a fare la guerra prima ai messicani, poi alla mafia italiana. Mette in scena il discanto del gioco: non più qualcosa che libera il tempo, ma che si stringe in cerchi sempre più piccoli e asfittici. Del gioco è rimasta la passività con cui si accetta la violenza delle sue regole.

BROTHER

Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Kitano Takeshi. Fotografia: Yanagijima Katsumi. Montaggio: Ōta Yoshinori, Kitano Takeshi. Musica: Hisaishi Jō. Costumi: Yamamoto Yōji. Interpreti: "Beat" Takeshi, Omar Epps, Claude Maki, Kato Masaya, Ōsugi Ren. Produzione: Recorded Picture Company, Office Kitano. Distribuzione: Keyfilms. Origine: USA/Giappone/Gran Bretagna, 2000. Durata: 110 minuti.
 


Le inquadrature in Brother non sembrano scorrere, susseguirsi una all'altra in una temporalità lineare, ma sovrapporsi con la lentezza dei fogli di calendario. Come fogli di carta sottilissimi, si sostituiscono una all'altra senza accumulare spessore, senza prendere volume, come se la terza dimensione alterasse l'incorruttibile gioco del pensiero. Quest'impressione si accentua nell'ultimo film del regista giapponese, che dopo L'estate di Kikujiro firma il suo primo film girato negli USA con l'apporto di capitali americani. Mai come in Brother la messa in scena rifiuta lo sfondamento prospettico e allestisce superfici piatte su cui proiettare segni di morte: il sangue fiorisce sui muri come le nuvolette dei fumetti, come pensieri di cartoni animati, e nel gioco cromatico di colori complementari – rosso su blu - le tappezzerie si fanno colorate, come nelle camere da letto dei bambini. Quando la piccola banda di malviventi si trova per la prima volta unita davanti a una serie di cadaveri, abbiamo un'inquadratura che si ferma sull'ombra gettata dai loro quattro corpi e le sagome allungate per terra somigliano curiosamente a quelle dei cartoni animati (ricordate il lupo cattivo vestito da gangster, le sue spalle larghissime e le gambe filiformi?). Poi la macchina da presa si alza per arrivare ai corpi, ma sono anch'essi solo ritagli in controluce, niente più che quattro figurine pronte a fare da bersaglio in un baraccone da tiro a segno.

Kitano gioca. Va in America, costituisce una scalcinata banda di yakuza e si mette a fare la guerra prima ai messicani, poi alla mafia italiana: "Sono in America. Faccio la guerra anche qui". Gioca con gli stereotipi del gangster-film americano, prendendo in giro la tradizione cinematografica occidentale: "Non siamo mica in un film di gangster" esclama un personaggio, addobbato con i segni iconografici del tipico gangster anni '40, sigaro in bocca e eleganza da pappone, mentre le tapparelle filtrano evocative barre di luce. E poi: qual è il motivo di quelle due inquadrature sghembe - inserite nella fissità lunare, nel sistema ortogonale di verticali e orizzontali del suo cinema - fatte immediatamente ruotare sul perno come girandole? Siamo di fronte a un quadretto americano attaccato storto sulla parete di casa, debitamente raddrizzato con l'aria di superiorità di chi ci concede come un favore l'adozione di certi vezzi stilistici.

Kitano mette in scena il discanto del gioco: non più qualcosa che libera il tempo, che è vero "divertimento" cioè un "volgere altrove", un deviare dal cammino prestabilito, sgambetto furbo e vacanza di vita. Il destino che miracolosamente si distrae per un attimo. Non è più neppure attesa; il disperante "tendere verso" qualcosa d'altro. Qui il gioco non ha più lo stupore della tregua. La linea dell'orizzonte si abbassa e si stringe in cerchi sempre più piccoli e asfittici. Del gioco è rimasta la passività con cui si accetta la violenza delle sue regole. L'ostinata concentrazione con cui lo si deve portare fino in fondo, la consapevolezza che alla fine ci sarà qualcuno che vince e qualcuno che perde.

In Brother, irrimediabilmente, sono degli adulti che giocano e giocano "dopo" che tutto è già successo, giocano troppo tardi nel tempo crudele della consapevolezza. Eppure Kitano ha un sussulto gentile e in chiusura passa la mano: regalando l'assolo finale al fratello nero - un monologo fatto di imprecazioni di tarantiniana memoria - segna il passaggio da una figura muta (il corpo comico kitaniano) a una catena verbale potenzialmente infinita (la logorrea di un corpo estraneo) a cui solo il taglio di montaggio può mettere fine in qualunque, casuale momento. Una deriva verbale che è l'esatto opposto della retorica della gag, che sente come necessaria la ferrea logica dei tempi. L'unica concessione, l'unico omaggio: alla svagata casualità della fine tipica del postmoderno americano.

Silvia Colombo