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All'inferno e ritorno - seconda parte

India

Dopo Tamas (1988), che racconta direttamente la Partizione del subcontinente indiano nel 1947, questa tragedia e le sue conseguenze socio-culturali, prima che politiche ed economiche, si impongono alla riflessione di molti cineasti, proprio in concomitanza con la crescita di tendenze comunaliste.

ALL'INFERNO E RITORNO Seconda parte

Nel 1988, Govind Nihalani, egli stesso profugo da Karachi, realizza per la televisione un film di cinque ore, Tamas (Il buio), tratto dall'omonimo romanzo hindi del 1974 (...) di Bhishm Sahni, fratello di Balraj, a loro volta profughi in India dalla natia Rawalpindi dopo il 1947. Ambientato in Panjab, tra Lahore e Amritsar, il racconto prende avvio dai momenti immediatamente precedenti la divisione del paese e si snoda in buona parte attraverso gli occhi dell'intoccabile Natthu, incaricato di uccidere un maiale per esperimenti veterinari:
 

 

Il maiale, destinato invece a profanare una moschea, segna l'inizio di un crescendo di violenze che diventano un vero olocausto al momento della partizione, quando sikh, hindu e musulmani cominciano l'epica migrazione, e culmina nella scena del suicidio delle donne sikh di un villaggio, che si gettano nel pozzo con i loro bambini per non cadere vive in mano ai musulmani (episodio effettivamente accaduto). Anche Natthu, con la moglie Karmo, incinta, si muove verso luoghi più sicuri. Natthu viene ucciso in uno scontro tra sikh e musulmani, mentre Karmo riesce a raggiungere un campo profughi. Qui, dopo aver identificato il cadavere del marito, darà alla luce un bambino.

Mentre la pubblicazione del romanzo non aveva provocato reazioni ostili, l'opera televisiva, fin dalla prima puntata (9 gennaio 1988) suscita un'ondata di reazioni emotive e politiche. Semplici cittadini, organizzazioni sindacali, studentesche e femminili, scienziati, intellettuali e gruppi politici di sinistra si pronunciano pubblicamente in appoggio a Tamas; gruppi e organizzazioni di altri fronti minacciano di incendiare le stazioni televisive; alcuni si appellano all'Alta Corte di Bombay perché venga bloccata la trasmissione del film, che travisa la storia, pericoloso per i possibili effetti su tanta parte analfabeta della popolazione e sui giovani. Ma la Corte assolve pienamente Tamas, definendolo un'educativa anatomia di un periodo tragico.

Tra i film più recenti legati alla partizione, Mammo (1994) e Train to Pakistan (1997). Quest'ultimo, come Tamas, ripercorre i momenti del 1947 in Panjab. Tratto dal romanzo omonimo del 1954 di Khushvant Sinh, tradotto anche in italiano, è diretto da una donna, Pamela Rooks, indianissima nonostante il nome (ha sposato Conrad Rooks), di padre hindu e madre sikh. Gli eventi riguardano un villaggio indiano, Mano Majra, vicino al confine pakistano:

Qui le tre comunità - hindu, sikh e musulmani - hanno sempre vissuto in armonia e la partizione non sembra destinata ad effetti drammatici. Ci sono anche due storie d'amore intercomunitarie: la prima, tra il District Manager hindu, Hukum Chand, suprema autorità del villaggio, e una giovanissima prostituta musulmana, Sakina; la seconda, tra il bandito sikh Jagat Sinh e Nuran, figlia di un vecchio tessitore musulmano (interpretato da M. S. Sathyu, regista di Garm hava). Invece gli avvenimenti anche qui precipitano verso la tragedia, quando arriva dal Pakistan un treno carico di cadaveri di sikh. Aizzati da una banda di criminali, i sikh del villaggio minacciano ritorsioni sui compaesani musulmani, che vengono rapidamente sistemati in un campo profughi in attesa di essere spediti in Pakistan. Ma ora i sikh vogliono mandare al di là del confine un "dono" equivalente, un treno di cadaveri musulmani. L'intervento disperato di Jagat Sinh, che vuole a tutti i costi salvare Naran incinta, riesce ad evitare un nuovo eccidio.

Come scrive il critico Chidananda Das Gupta in una sua recensione al film, Train to Pakistan è "un micro racconto di un macro massacro", anche se non sono i massacri al centro dell'interesse della regista, ma le reazioni degli esseri umani in condizioni eccezionali. In questo caso, la follia che trasforma i vicini e gli amici di sempre negli "altri", nei "diversi", nel male da estirpare; e la ragione e l'umanità che cercano di non rimanerne schiacciate.

Mammo è invece un racconto ambientato nell'India di oggi e diretto da Shyām Benegal, tra i nomi più illustri del nuovo cinema, capace di narrare come pochi e di affinare continuamente questa sua capacità. È la storia di Mammo, una donna pakistana, divenuta tale perché al momento della partizione si trovava a Lahore, residenza del marito:

Separata dalla famiglia d'origine (rimasta in India), Mammo, vedova e senza figli, subisce continui maltrattamenti dai familiari acquisiti. Dopo molti anni riesce a tornare in India, con un permesso di soggiorno di tre mesi. Li trascorre a Bombay, presso l'anziana sorella Fejji e il nipotino di questa, Rizu, portando il terremoto nella loro vita. Dopo aver ottenuto un'estensione legale del soggiorno e aver tentato vie illegali per rimanere in India, viene scoperta dalla polizia e rispedita sotto scorta verso il confine pakistano. Ma c'è un lieto fine di "buona volontà".

L'intera vicenda è narrata in un flashback, attraverso i ricordi di Rizu ormai adulto, che aveva accolto con ostilità l'arrivo della sconosciuta parente, venuta a invadere e a turbare l'angusto spazio, fisico e psicologico, dell'appartamento. Ma a poco a poco il grintoso ottimismo di Mammo, il suo modo diretto di affrontare i nodi dolenti riescono a penetrare le difese del ragazzo, che insegue disperato il treno che la riporta in Pakistan. Dalla rumorosa allegria che pervade il racconto emergono, quasi con pudore, aspri frammenti della storia più vasta che sottende, attraverso i ricordi suscitati in Mammo da un film, ancora Garm hava. La scena che Benegal sceglie di citare è una delle più struggenti, quella in cui la madre di Salim viene portata a morire nella casa di famiglia. La vecchia si guarda intorno, risente le voci di un tempo felice e muore, finalmente rasserenata. In questo bisogno doloroso di ritrovare la casa perduta è il senso profondo della tragedia della partizione. Qualche scena prima, a Rizu che le chiedeva perché mai non se ne tornasse a Lahore, visto che trovava Bombay tanto sporca e invivibile, Mammo risponde: "Perchè nessun posto è come casa propria". Una risposta che ben si coniuga con quella data in Nasim (Nasim, 1995, re. Said Akhtar Mirza) dall'anziano padre al figlio che gli chiede perché non fosse emigrato in Pakistan nel 1947: "Ti ricordi l'albero che avevamo in cortile ad Agra? A tua madre piaceva tanto...". In Nasim la partizione è presente come ricordo e come incubo che ritorna e sovrasta gli avvenimenti del 1992, quando un gruppo di estremisti hindu demolisce una moschea ad Ayodhya, la Bābrī Masjid, episodio a cui seguono scontri cruenti tra hindu e musulmani con oltre duemila morti (tra i secondi, in maggioranza). La storia sarebbe in effetti un'ottima maestra, peccato che gli uomini siano pessimi allievi. Ma un dato è importante. Dopo Tamas, sembra che sia caduto un muro: in questi ultimi anni, in concomitanza con la crescita di tendenze comunaliste, nodi irrisolti della storia indiana e preferibilmente rimossi dal cinema si stanno imponendo sempre più spesso alla riflessione di molti cineasti. Una delle scene più significative di Karvan mostra Lajjo che cerca di barricarsi in casa nella vana speranza di sottrarsi ad altre violenze e, nel tentativo di evitare traumi insanabili alla sua bambina, le grida: "Voltati dall'altra parte, non guardare, non guardare!" Forse, è invece arrivato il momento di voltarsi finalmente a guardare.

Cecilia Cossio
in 14. settimana internazionale della critica, 3-9 settembre 1999
catalogo a cura di Giuseppe Ghigi, La Biennale di Venezia-SNCCI, Il Castoro, Milano, pp.73-79