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Akai Hashi No Shita No Nurui Mizu

Giappone

Imamura s'interroga sull'origine della forza che caratterizza tutte le donne del suo cinema (e non solo). Forza resistenziale,va da sé, quindi tensione palingenetica. Ipotesi di rinnovamento, domanda di futuro.

AKAI HASHI NOSHITANO NURUI MIZU De l'eau tiède sous un pont rouge

Nel pressbook del film il venerando Imamura s'interroga sull'origine della forza che caratterizza tutte le donne del suo cinema (e non solo). Forza resistenziale,va da sé, quindi tensione palingenetica. Ipotesi di rinnovamento, domanda di futuro. Ancora una volta Imamura s'interroga (laicamente) sul mistero della creazione e dei corpi che la veicolano (l'immagine psichedelica di Yōsuke in posizione fetale all'interno di una nebulosa – o galassia).
 

La sua indagine, inevitabilmente, non conduce a una conclusione, semmai rilancia le ragioni del mistero della materia e della carne che continua – stoicamente – a confrontarsi con esse. D'altronde, come per Suzuki (tornato alla grande con il folgorante Pistol Opera), ogni film per Imamura è una porta della carne: un passaggio necessario per saggiare la tenuta della politica sessuale e della cultura che l'ha prodotta. Pur evitando accuratamente di sistematizzare il suo peculiare eterno femminino, Imamura ci offre in compenso un saggio rigenerante di cinema visionario, privo di qualsiasi cascame normativo,che s'inebria di una libertà formale unica e che non arretra di fronte ad alcuna arditezza stilistica. Saldato com'è alla terra e alle viscere degli uomini, Imamura riesce a far sì che questa sua sfrontata ricchezza sembri non sterile esibizionismo ma la tematizzazione stessa della forza vitale che il regista corteggia e venera nelle donne.

Come il Marco Ferreri di Storia di Piera e Il futuro è donna (privo però delle polemiche culturali e politiche che hanno sempre accompagnato l'opera ferreriana), Imamura costruisce il suo film a partire dal corpo della sua protagonista, la folgorante Misa Shimizu (già vista, tra l'altro, ne L'anguilla e ne Il dottor Akagi). E come Ferreri, Imamura s'incanta di fronte allo sprigionarsi della forza vitale, all'epifania del sesso e dei fluidi. Ma se la messinscena di Ferreri inevitabilmente segna un ritardo, una distanza dello sguardo nei confronti del suo stesso oggetto d'amore (dalla quale poi deriva la struggente malinconia rabbiosa del suo cinema autunnale), Imamura è letteralmente euforico. Lungi dal cedere ai richiami della "cultura" (ai quali invece Ferreri sembrava essere, per temperamento, pericolosamente esposto), il regista (pur non risparmiando una dura critica al Giappone del dopo miracolo economico) mette in scena un microcosmo minimo ai margini dell'impero dove il ciclo vitale è dominato dal cibo (la pesca), dal sesso e nel quale l'Africa vive come elemento primigenio, non a caso portatore di miti, di diverse velocità, di uno sguardo altro. Imamura non pontifica ma doppia attraverso una straordinaria forza ilare il suo pensiero che si manifesta in tutta la sua straordinaria vitalità anarchica. Incurante di qualsiasi imposizione formale, il suo film, a immagine e somiglianza delle forze primigenie che corteggia, è un flusso inarrestabile di piacere, di visione, di libertà. Tutto è in perenne movimento, la vita procede inarrestabile e gli uomini non possono far altro che parteciparne. Il loro privilegio, infatti, è scegliere di essere agiti dalla vita (proprio come Yōsuke accetta di essere lo strumento sessuale di cui Saeko ha bisogno per liberarsi della sua acqua).

Imamura dal canto suo, irriducibile a qualsiasi tentazione del "bel cinema", come un Ford, un Renoir, sembra filmare con una leggerezza inusitata.Tutto si origina dalla volontà del regista di lasciarsi coinvolgere ancora una volta dal mondo e dalla vita (d'altronde è proprio questo ciò che dovrebbe essere il cinema). Il suo sguardo di cineasta, in questo senso, sembra offrirsi non come luogo di messa in discussione del reale, ma come un momento di assoluta permeabilità tra due dimensioni apparentemente antitetiche. Il cinema in Imamura cessa di essere un principio di differenziazione dal mondo per darsi come immagine di un luogo (privilegiato) dove la partecipazione determina la libertà stessa del film. La volontà panica di aprirsi alle forze della vita e del mondo fa sì che queste determinino l'immagine del suo lavoro, producendo, paradossalmente, un cinema intimamente democratico (il cineasta è solo un elemento della catena della comunicazione) e provocatoriamente visionario. Abolendo le gerarchie sociali (ed estetiche), Imamura perviene a dar forma a un cinema la cui potenza espressiva deriva essenzialmente dalla disponibilità – volontà – di mettersi in discussione con ogni nuova inquadratura.

Riluttante ad ogni ipotesi di ricomposizione delle incrinature, orgoglioso delle proprie radici contadine (che oppone a quelle "samurai" di Ōshima), Imamura è riuscito con ogni suo nuovo film (che si succedono con tranquilla regolarità) a formulare una teoria di equilibri precari, a termine, tra le singole componenti del suo cinema. Sia L'anguilla che Il dottor Akagi possono essere considerati dei progressivi avvicinamenti alla libertà di De l'eau tiède sous un pont rouge. Il piacere della frattura, del brusco cambio di direzione, evidente in entrambi, si ritrova intatto nel suo nuovo film, ma il tutto è come filtrato da una tensione d'estasi che gli conferisce non il sapore dell'apologo quanto quello del racconto d'iniziazione fantastica. Eppure in questo film magico ma così testardamente realistico affiorano persino echi del cinema di Tati (il fondista africano perseguitato dal suo allenatore), Chaplin (Yōsuke che accorre agli appelli sessuali di Saeko grazie a un irresistibile gioco di specchi). Imamura sa bene che tutto ciò che accade agli uomini avviene nel perimetro della percezione della loro carne e, compagno di viaggio tenero, affidabile (e severo), ironizza con compassione sulla finitezza degli uomini (il filosofo che tesse l'elogio dell'erezione, i tre pescatori che rievocano la bellezza della madre di Saeko).Vi è una consapevolezza umana nel cinema di Imamura che permette anche alle invenzioni più paradossali di tingersi di una verità intima che inevitabilmente rilancia le ragioni di un fare cinema irrequieto, mobile.Misurando l'estensione del mondo attraverso le viscere e gli appetiti delle donne e degli uomini che popolano i suoi film, Imamura sembra suggerire che se il mondo in sé è piuttosto limitato (d'estensione), non si può affermare altrettanto di coloro che vi sono calati dentro, prede dei loro stupori e dei loro desideri.

E così che Imamura riesce a filmare la mutazione definitiva del suo cinema. Dopo aver permesso ai suoi eroi di costeggiare il divenir animale (cfr. L'an-guilla, il finale di Akagi), gli uomini diventano (finalmente, di nuovo) acqua. E tutto scorre.

Giona A. Nazzaro
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