Asiamedia

Abc Africa

Iran

Ancora una volta per Kiârostami lo sguardo del cinema si fa strumento di conoscenza. ABC Africa, primo film in digitale del regista iraniano, è qualcosa di più di un documentario girato in Uganda in un centro dell'UWESO (Uganda Women's Effort to Save Orphans), ma un viaggio tra la morte e il dolore che non rinuncia a catturare i segni rivelatori della vita e della voglia di continuare a vivere.

ABC AFRICA
di Abbas Kiarostami

 

L'ultima sequenza di Sotto gli ulivi ci proponeva, anni fa, un giovane iraniano scampato ad un terremoto nell'atto di corteggiare disperatamente una sua coetanea, sotto l'occhio benevolo di un regista di cinema. In quella vicinanza fra corpi "agenti" e sguardo attento del cineasta testimone sta tutta la logica del cinema di Kiarostami, fino ai suoi estremi sviluppi. Non è dunque un caso se, oggi, dopo aver girato ABC Africa con una telecamera digitale, il regista iraniano affermi di non voler più tornare al 35mm, vista «la libertà formidabile» che il mezzo gli consente e la «grande possibilità di comunicazione fra il cineasta e i suoi attori» che si instaura sul set. D'altronde che il progetto di ABC Africa esaltasse le qualità di Kiarostami era evidente fin dall'inizio, quando, nel marzo del 2000, l'Ifad (International Fund for Agricultural Development) lo invitò a visitare un centro dell'Uweso (Uganda Women's Effort to Save Orphans) e a documentare con le immagini della sua videocamera lo stato delle cose. Il documentario del regista iraniano si pone dunque sotto una serie di punti e domande: tematici (le condizioni di donne e bambini colpiti dall'Aids e ospiti di centri di accoglienza o di ospedali); ambientali (il territorio da attraversare, del tutto nuovo per Kiarostami); umani (i corpi e i volti dei bambini, soggetto noto e amato); etico-formali (come filmare il dolore?); esistenziali (può la vita vincere la sua scommessa con la morte?). Ad essi Kiarostami risponde all'inizio in maniera un po' impacciata, imboccando prima la via del documentario istituzionale (immagini «di repertorio» e voce fuori campo, a spiegare la situazione, a illustrare ciò che le immagini già mostrano palesemente) e poi quella del filmato "folkloristico" (centrato sulle esibizioni dei corpi infantili e sulla captazione "facile" della loro vivace spontaneità). Ad un certo punto tuttavia - come spesso avviene a chi si avventura in Africa, oggi come cent'anni fa – la solida efficienza della troupe si impantana, prima nei meandri di un ospedale per malati terminali e poi in una mancanza notturna di energia elettrica.

Bastano questi due contrattempi, per far uscire il film dalla routine su cui si era avviato, spingendolo verso lo squilibrio, la fascinazione e la commozione. Si veda quel percorrere, camera a mano, il corridoio dell'ospedale, quell'interrompersi subitaneo, alla vista di un minuscolo corpo senza bara, in attesa di essere avvolto nel cartone come un pacco per le esequie, agganciato con le corde elastiche al retro di una bicicletta. Si veda quell'incertezza dell'astante, in dubbio fra la scoperta del dolore e il ritegno, il pudore, di fronte al lutto ignoto. Si veda quel vagare alla ricerca di un'immagine che bilanci la disperazione, quel trovarla in due corpi d'adulti che si corteggiano, passando a fianco alla morte, come se non la vedessero. Si veda il dialogo nel buio fra Kiarostami e il suo assistente, come se la notte annullasse ogni distanza e il parlare fosse per tutti uguale. Con momenti come questi, il cinema riprende il sopravvento sull'intenzione didascalica del committente e Kiarostami rende un buon servizio alla causa di quelli che soffrono e sperano.

Luciano Barisone