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A Taiwan siamo molto discreti: Conversazione con Chen Kuo-fu, Cannes 1999

Taiwan

The Personals, quarto lungometraggio di Chen Kuo-fu, rappresenta un lavoro emblematico per tentare di comprendere come il cinema taiwanese stia tentando di trovare una sua fisionomia anche al di là del ristretto circuito festivaliero.

The Personals, quarto lungometraggio di Chen Kuo-fu, rappresenta un lavoro emblematico per tentare di comprendere come il cinema taiwanese stia tentando di trovare una sua fisionomia anche al di là del ristretto circuito festivaliero. The Personals infatti, se da un lato presenta il quadro di desolazione metropolitana ed esistenziale che abbiamo imparato a riconoscere attraverso i film di Tsai Ming-liang, Edward Yang e Hou Hsiao-hsien, offre anche numerose prospettive per pensare come da una matrice tematica così forte e da un imprinting stilistico severissimo possa sorgere il nuovo cinema taiwanese popolare. Innestando nel tessuto narrativo di un glaciale melò urbano scorie di commedia degli equivoci lavorata con slittamenti dentro e fuori il reale - attraverso l'utilizzo di attori non professionisti confusi con celebrità locali - Chen Kuo-fu realizza un film stimolante e, a suo modo, innovativo. Non a caso, la pellicola è stata accolta con grande favore dal pubblico domestico, in genere estremamente severo nei confronti dei film dei registi taiwanesi più apprezzati all'estero. The Personals, storia di una ragazza che incontra degli uomini attraverso le inserzioni per cuori solitari, è un oggetto decisamente atipico. Nel corso di una stimolante conversazione, Chen Kuo-fu ci ha rivelato i retroscena di un film che potrebbe inaugurare una nuova stagione del cinema taiwanese. 

Iniziamo con la domanda classica: come è nata l'idea di The Personals?
La scrittrice Chen Yu Hoi qualche anno fa pubblicò un annuncio in un quotidiano locale, nel quale chiedeva di incontrare persone interessate al matrimonio. Dopo aver incontrato numerosissimi candidati, rinunciò a sposarsi ma in compenso pubblicò un libro nel quale raccontava questa sua esperienza...

Quindi si tratta di una storia vera? 
Beh, sì. Quando ho iniziato a girare, ero chiaramente influenzato dal libro; ma ben presto mi sono reso conto che dovevo emanciparmi dal testo, perché ovviamente non ero in grado di ricreare le esperienze raccontate. Lei durante gli incontri aveva conosciuto molte persone e aveva registrato le conversazioni. Ma per me il problema era diverso: io non sapevo neppure dove fossero gli uomini che lei aveva conosciuto. E d'altronde non mi sembrava fosse il caso di far incontrare l'autrice del libro con gli attori. Non sarebbe stata più la stessa cosa. Quindi ho iniziato a sperimentare la forma del film sin dall'inizio delle riprese.

A tratti ho avuto l'impressione che si trattasse di un film scisso. Quando filmi la protagonista nel suo appartamento, il tono del film è più grave, sospeso; mentre nelle parti riguardanti gli incontri con gli uomini il tono tende decisamente verso la commedia e la cosa francamente mi sembra funzionare meno... Mi è sembrato che le due dimensioni, quella comica e quella intima della protagonista faticassero a unirsi. D'altronde la prima parte del film è tutta impostata su questo dispositivo della commedia. Vorrei sapere come hai lavorato su due registri così diversi.
Si tratta di un esperimento che ho tentato consapevolmente di perseguire, non disponendo di una sceneggiatura sulla quale lavorare.

Niente sceneggiatura?
No. Abbiamo girato il film in una sorta di stile documentario, considerato che ho convocato un sacco di uomini la maggior parte dei quali non erano attori professionisti. Queste persone venivano confrontate con la protagonista, come se si trattasse di autentici incontri da inserzioni sentimentali. Ma durante le riprese ero consapevole del fatto che dovevo riuscire a mettere insieme una storia, altrimenti tutte queste interviste non si sarebbero mai fuse. Questo mio modo di lavorare però non ha funzionato subito. Dopo qualche settimana l'attrice protagonista era completamente scoraggiata e mi ha detto: "Dimmi quanto ti è costata la pellicola che hai girato. Così te la ripago e me ne vado". Per lei non era affatto facile. Questa gente arrivava, le si sedeva di fronte e iniziava a raccontarle la storia della propria vita. Gli uomini non recitavano. Raccontavano semplicemente la loro vita. Ma lei, che è una vera attrice, aveva bisogno di qualcosa cui aggrapparsi per sviluppare il suo personaggio. Invece non sapeva mai cosa l'aspettava e come avrebbe dovuto reagire.

Quindi hai tentato di elaborare una storia a partire dalle interviste? 
Assolutamente. Sapevo che in qualche modo mi muovevo verso un finale... che la storia doveva avere in qualche modo una sua tessitura.

Ma i testi degli attori sono improvvisati o fornivi loro delle direzioni?
Si tratta di improvvisazione pura. Si tratta di gente che proviene dai posti più disparati. Ci sono operai, direttori di ristoranti, persone diversissime tra loro. Avevo messo un annuncio su un giornale, chiedendo di uomini single che avessero voglia di partecipare alla realizzazione del film. Mi sono giunte centinaia di lettere dalle quali ho poi scelto gli attori. Ho avuto delle conversazioni con loro, improntate sempre a quel tipo di dialogo da inserzione, e li ho filmati in video. É come se avessi estratto un po' del materiale da queste persone, ma ovviamente non ero assolutamente in grado di controllare la loro conversazione durante le riprese. Quindi quello che ho dovuto fare è stato offrire loro un certo tipo di atmosfera, prima che la mia macchina da presa entrasse in funzione.

Il film inizia puntando tutta l'attenzione sulla protagonista e poi la sposta bruscamente sulla processione di uomini con i quali lei si incontra. Si tratta di un espediente narrativo teso a far percepire - negativamente - informazioni sulla protagonista attraverso le parole degli uomini oppure è un modo per sottolineare la sua solitudine? 
Beh, per me si trattava di far vedere - dall'inizio alla fine - gli uomini e il mondo attraverso gli occhi della protagonista. Si tratta di far vedere le cose attraverso di lei. Volevo che ci fossero e che si vedessero un sacco di uomini nel film. In genere questo non accade troppo di frequente nei film dove ci sono i protagonisti - due, tre al massimo - e poi basta. Nel mio film ci sono invece una trentina di uomini. Siccome, come ti accennavo prima, avevo bisogno di una traccia narrativa, ho dovuto in qualche modo costruire la parte degli uomini in modo che potesse funzionare come una sorta di punto di vista. Ed è quello che ho tentato di fare durante la lavorazione del film, non essendo possibile farlo prima. Il problema maggiore, naturalmente, è stato il montaggio, perché ho dovuto selezionare una quantità enorme di materiale...

Hai eliminato molto materiale?
Oh sì! Le interviste erano così interessanti che avrei potuto farle durare persino mezz'ora ciascuna! Ma ovviamente in questo modo il film non avrebbe funzionato.

Vedendo il film e osservando le durate delle interviste maschili, mi chiedevo come mai tu avessi scelto la soluzione del piano sequenza piuttosto che un montaggio di sequenze brevi, oppure un montaggio frammentario, alternato, per rendere il film meno rigido...
Ci ho pensato, ma francamente la ritengo una soluzione troppo facile. Anche se avrebbe reso la vita meno difficile al mio montatore.

Ovviamente non mi riferisco a un montaggio stile MTV, ma semplicemente montare i vari piani...
Per la verità cerco di non farlo mai. Generalmente tento di montare in maniera molto classica. Provo sempre a essere estremamente lineare e non brusco quando monto. Si tratta di una specie di direttiva che ho sempre in mente.

Questo rispetto della durata della ripresa e questa attenzione alla solitudine dei personaggi è una caratteristica del cinema taiwanese...
Ti faccio un esempio. Basta pensare al personaggio dell'insegnante elementare, quello più anziano: la macchina da presa lo ha fissato per una ventina di ore e mi sono ritrovato con una quantità incredibile di materiale. Lavorando in questo modo ho avuto l'impressione di aver catturato qualcosa di un uomo della sua età a Taiwan. Si tratta di una cosa molto strana perché non è che abbia fornito poi tante informazioni sul suo conto davanti alla macchina da presa. Ed è una cosa che potrei estendere anche ad altri uomini del mio paese.

Quindi è come se tu avessi tentato coscientemente di fondere questi elementi reali con la tessitura del film, nel tentativo di far emergere una storia...
Si tratta esattamente di quello che ho tentato di fare. Non proprio durante le riprese, ma soprattutto durante il lavoro di montaggio. Lavorando senza una sceneggiatura, per me era molto difficile decidere, mentre giravo, se una cosa l'avrei messa all'inizio, al centro o alla fine del film. Per me, quindi, tutti i frammenti di interviste si equivalevano. Quando ho montato il film, l'ho fatto - per la prima volta a Taiwan - in elettronico. Ho creato dei «file» con le singole interviste e poi le ho combinate secondo alcune idee che avevo. Se avessi dovuto montare in pellicola, sarebbe stato impossibile.

Una cosa che mi ha colpito molto è che quando inquadri gli uomini usi sempre dei quasi primi piani, mentre quando riprendi la protagonista sola nel suo appartamento fai in modo che lo spazio circostante sia quasi tagliato fuori. Vediamo infatti la protagonista circondata sempre solo dallo spazio strettamente necessario. Da cosa deriva questa scelta un po' claustrofobica? 
È una soluzione estremamente consapevole. Ho infatti voluto che l'appartamento della protagonista fosse molto piccolo. Ma mentre filmavo, desideravo che sembrasse ancora più piccolo. Ovviamente non avevo alcuna intenzione di fare dei primi piani per dare quest'idea della limitatezza dello spazio, avendone già fatti moltissimi prima. Quindi dovevo in qualche modo escogitare una soluzione per rendere quell'ambiente funzionale alla messa in scena. E per fare questo non c'è bisogno che si veda l'intero appartamento.

Si tratta di una strategia molto interessante, perché permette al personaggio di interagire con lo spazio. In questo modo vengono offerte un sacco di informazioni sulla sua solitudine.
Spero molto che sia così. Per la verità, l'appartamento è una specie di mansarda situata sul tetto di un palazzo. Ma non ho voluto mostrarlo perché non ero interessato a che se ne scoprisse l'ubicazione. Sin dall'inizio sapevo che non avevo alcuna intenzione di mostrare posti che potessero essere riconoscibili...

Infatti nel tuo film è come se ci fosse una sorta di paesaggio desertico...
Specialmente in questo film volevo che gli spazi fossero una specie di riflesso interiore della protagonista, una persona che cela molti segreti.

Si tratta di un procedimento tipico di certo cinema taiwanese quello di affrontare un personaggio attraverso il silenzio, il piano sequenza e il vuoto. 
Ci vedi quindi una connotazione sociale in questo procedimento?

No, si tratta solo di una constatazione formale. A Hong Kong per esempio procedono in maniera opposta: montaggio frenetico, piani brevissimi che permettono sempre di riconoscere un film di loro produzione. Attraverso le caratteristiche opposte, si può riconoscere invece un film taiwanese. 
Beh, per la verità noi a Taiwan godiamo di maggiore spazio rispetto alla gente di Hong Kong. Abbiamo l'opportunità di godere di un ambiente geografico circostante molto spazioso... Abbiamo case più comode, bazar più grandi e strade più ampie. A Hong Kong, proprio perché si tratta di una città così claustrofobica, vogliono vedere al cinema degli spazi grandi e quindi capisci perché usano tutti quei grandangoli o il formato panoramico... Hong Kong è una città estremamente affollata o caotica. A Taiwan stiamo meno stretti, ma in compenso ci sentiamo più soli di loro.

Questo sentimento di solitudine proveniente dal cinema taiwanese è qualcosa che per molto tempo è mancato al cinema internazionale. Si tratta di un tipo di solitudine molto forte, particolare: non è la solitudine di matrice esistenzialista del cinema francese e non è quella individualista del cinema americano. Cos'è che rende la solitudine taiwanese così particolare e così immediatamente riconoscibile? Mi sembra che si tratti di un qualcosa che lotti strenuamente per venire allo scoperto e che solo voi cineasti taiwanesi riuscite a filmare in maniera così acuta...
Probabilmente dipende dal fatto che noi taiwanesi non manifestiamo la solitudine in maniera superficiale. Abbiamo fra di noi delle relazioni molto calorose: quindi non credo che si tratti di un qualche riflesso sociale. Sai, Tsai Ming-liang, Hou Hsiao-hsien e io apparteniamo, più o meno, alla stessa generazione. Ci conosciamo e ci frequentiamo, ma, in verità, di questa cosa della solitudine non parliamo mai. Anche se è una cosa che appare sempre nei nostri film...

...e come affermi tu non si tratta di un riflesso della realtà...
Sai noi facciamo parte di una generazione che ha subìto un'oppressione - ideologica, culturale e fisica - severissima. Quando eravamo giovani non avevamo il diritto di vedere i film che vedeva il pubblico occidentale. Abbiamo avuto moltissimi problemi di censura. Abbiamo sempre dovuto cercare un modo per uscire da questa situazione oppressiva. Fuggire in Occidente... Adesso che la legge marziale è stata soppressa - è accaduto nell'anno in cui è stato realizzato Città dolente, il primo film a esprimere il sollievo per un tale fatto - sappiamo che potremmo raccontare qualsiasi storia; ma ci sentiamo ancora oppressi. Si tratta ovviamente di una condizione psicologica, non di un dato reale. Così quando siamo cresciuti e diventati adulti, l'oppressione stava sempre lì, profondamente radicata. E la cosa in qualche modo affiora anche nel nostro lavoro.

È come se vi sentiste ancora minacciati...
Sì...C'è sempre il «grande uomo» in Cina, che potrebbe occupare l'isola in qualsiasi momento... Capisci cosa intendo dire? Non se ne parla ogni giorno, ma è lì fuori...

Si tratta di un sentimento di angoscia che emerge anche nel cinema di Hong Kong... Questo sentimento ambiguo nei confronti della Cina... Come se si trattasse di una madre alla quale si vuole ritornare, ma che incute terrore. Poi c'è il discorso delle tre Cine...
Ritieni che crei confusione?

No, si tratta di una cosa estremamente affascinante...
È una cosa che nessuno di noi riesce ancora ad affrontare correttamente. E non si tratta di una questione di censura... Inoltre a Taiwan siamo molto discreti: diamo grande importanza alla cultura, all'educazione, a differenza delle gente di Hong Kong - anche se questo non vuol essere un giudizio negativo. Ci insegnano molta storia cinese, cultura cinese, geografia cinese, letteratura cinese; ma siamo alienati perché la nostra patria è Taiwan, non la Cina. Tendenzialmente quindi siamo orientati a riconoscere la Cina come la nostra matrigna. Ma non lo è: si tratta di un potere alieno che sta là fuori, immenso, minaccioso.

Mi dicevi che a Taiwan voi registi vi conoscete tutti. Ma al di là delle differenze che emergono dai vostri lavori, sembra che vi muoviate tutti seguendo delle linee comuni. Mi sembra evidente che a Taiwan si produce il cinema più interessante del momento. 
Qualche settimana fa, un critico dei Cahiers du Cinèma mi diceva la stessa cosa: "Vi rendete conto che in Europa Taiwan è considerato il luogo dal quale, al momento, giunge il cinema più interessante del mondo?". Ma a dire il vero da noi nessuno si accorge del nostro cinema. Da noi c'è il vuoto. La cosa divertente è che a Taiwan discutiamo sempre di come riuscire a fare film commerciali, che la gente vada poi a vedere. Anche Hou Hsiao-hsien lo fa. Ma nessuno riesce poi a sfondare realmente al botteghino. E questa, se vuoi, è un'altra fonte di solitudine. Tu continui a fare film, sei molto devoto al tuo lavoro, hai delle idee molto forti su quello che vuoi dire e su come lo vuoi dire, ma nessuno ti viene a vedere. Noi però non ci siamo arresi.

Nel tuo film si vede chiaramente questo tentativo di conquistare un maggiore spazio sul mercato. 
Certo. Non è stato intenzionale fare una commedia, ma per il pubblico taiwanese ha funzionato. Il pubblico di Taiwan ha veramente amato molto il film e la cosa ci ha sorpreso sul serio. Non ho scritto le battute per il film in modo che fossero intenzionalmente divertenti. Evidentemente il pubblico le ha trovate divertenti. E poi il fatto che molti attori fossero non professionisti ha permesso al pubblico di riconoscerli. Inserendo qui e là dei veri attori e persino un divo rock si è creato un effetto di coinvolgimento molto particolare.

Nel tuo film c'è grande insistenza sugli occhi e sulla percezione. È come se tu chiedessi in continuazione allo spettatore se è proprio sicuro di quello che sta vedendo...
Beh si tratta di una cosa che voluto intenzionalmente mettere nel film. In pratica si tratta del motivo stesso per cui ho fatto il film; ma non è necessario che il pubblico se ne renda conto. Il film funziona bene anche se non ci si rende conto che c'è un altro livello di lettura. È una cosa alla quale non sono proprio riuscito a sottrarmi, essendo stato in passato un critico cinematografico, circa quindici o sedici anni fa...

Scrivi ancora critica cinematografica? 
No, ho smesso di scrivere. Ma non perché non ne avessi più il tempo o perché ho iniziato a fare il regista. Avevo l'impressione che inquinasse il mio modo di guardare i film...

Giona A. Nazzaro