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Gay pink: Conversazione con Oki Hiroyuki

Giappone

Forse il più rivoluzionario dei «Pink directors», ha rovesciato il «Pink» in funzione di un nuovo cinema gay, teso anche a dissolvere i confini tra cinema indipendente e commerciale.

GAY PINK Conversazione con Oki Hiroyuki

Nato nel 1964 a Tōkyō, Oki Hiroyuki, dopo aver fatto studi di architettura, frequenta l'Image Forum di Tōkyō e inizia a maneggiare una macchina da presa in super 8 nell'85. Indipendente da sempre, lavora anche per la TV con serie pensata per le fasce notturne. Forse il più rivoluzionario dei «Pink directors», è senz'altro quello che è riuscito a rifondare il pubblico, conquistando un crescente numero di teenager e in particolare rovesciando il «Pink» in funzione di un nuovo cinema gay, teso anche a dissolvere i confini tra cinema indipendente e commerciale. Come lui stesso dice, "Il problema non è fare dell'omosessualità l'argomento di un film, ma far sì che le immagini riflettano la sensibilità gay".
 

Dal tuo punto di vista qual è l'elemento di disturbo nei «Pink film»?
Credo mettere in scena argomenti dei quali i giapponesi preferiscono non parlare. Per esempio in I Like You I Like You Very Much i due ragazzini protagonisti non hanno problemi a raccontarsi le loro angosce, i loro dubbi, la voglia di fare esperienze. Ecco, diciamo che i giapponesi normalmente non parlano così neppure coi loro amici più stretti. E poi c'è il discorso della sessualità che crea parecchie resistenze. In occidente è stato un problema politico, legato a battaglie sociali, anche per via della religione. In Giappone no, è un discorso molto più personale.

Quindi il fatto che nei tuoi film essa sia molto libera è anomalo. Tra l'altro tu non accenni mai all'AIDS...
Già, anche se è un problema che sta diventando molto presente nella nostra società. Il governo ha avviato una campagna di informazione specie tra i giovanissimi, perché negli ultimi anni le percentuali degli ammalati stanno crescendo. Nei miei film non ne parlo? Mah, sì, forse perché il mio grado di consapevolezza ancora è basso. Cioè da noi è arrivato tardi, siamo ancora agli inizi. E poi è vero, personalmente non ci penso molto.

I tuoi film sono dichiaratamente gay. Ti ha creato molti problemi?
Probabilmente all'esterno, e anche a ragione, c'è l'idea che l'omosessualità sia soffocata dalla società giapponese. In parte è ancora vero ma molte cose sono cambiate. A parte il fatto che i miei film hanno circuiti «specializzati» non è che la censura li colpisca perché sono gay. Credo che quanto accade da noi sia molto simile agli altri paesi. Certo non abbiamo una tradizione di movimento omosessuale, non ci sono gruppi o teorie. E il fenomeno è ancora qualcosa di estremamente individuale. Ma per questo il modo in cui si sceglie di vivere la propria sessualità è un segno politico.

Nei vostri film c'è sempre un chiaro rimandare alla cultura, alle regole della società, per criticarle.
Personalmente il mio punto di partenza sono i sentimenti, provare a renderne tutte le sfumature, e questo talvolta è difficile da capire anche per un pubblico giapponese. Sono impercettibili e poi proviamo a lavorare su altre forme di espressività. La società giapponese? C'è molta violenza, molte cose inespresse. E' così da sempre, basta pensare al cinema di Ozu o di Ōshima. È chiaro che poi ci metto le mie esperienze, quello che vorrei, quello che mi fa paura...

Cristina Piccino