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Ognuno per sé, una bicicletta per due - Le biciclette di Pechino

Cina

Nel film Le biciclette di Pechino, la metropoli cinese funge da sfondo a una fiaba/parabola che inevitabilmente ci riconduce all'"ingombrante paragone" con Ladri di biciclette.

OGNUNO PER SÉ, UNA BICICLETTA PER DUELe biciclette di Pechino di Wang Xiaoshuai

Titolo originale: Shiqiside danche. Regia: Wang Xiaoshuai. Sceneggiatura: Wang Xiaoshuai, Tang Danian, Peggy Chiao, Hsu Hsiao-Ming. Fotografia: Liu Jie. Montaggio: Liao Ching-Song. Musica: Wang Feng. Scenografia: Wang Wenjun. Costumi: Pang Yan. Interpreti: Cui Lin (Guei), Li Bin (Jian), Zhou Xun (Qin), Gao Yuanyuan (Xiao), Li Shuang (Da Huan), Zhao Yiwei (il padre di Jian), Pang Yan (la madre), Zhou Fangfei (Rong), Xie Jian (il direttore), Ma Yuhong (la segretaria), Liu Lei (Mantis), Li Mengnan (Qiu Sheng), Li Jian, Zhang Yang,Wang Yuzhong, Hui Wei (gli studenti), Ji Hua, Ren Hougang, Zhang Yu (i corrieri), Zhang Lei, Chang Jianyin, Wang Ya (le studentesse). Produzione: Peggy Chao, Hou Hsiao-Ming, Han Sanping. Distribuzione: Teodora Film. Durata: 83'. Origine: Taiwan/Francia, 2001.
 


Guei ha 16 anni. Viene dalla campagna ed è appena arrivato a Pechino. Trova un impiego come pony-express, in un'azienda che gli mette a disposizione una mountainbike nuova di zecca: la ripagherà con il suo lavoro, consegnando l'80% dei suoi guadagni finché non sarà divenuto proprietario della bici. Il lavoro è duro, Pechino è immensa, ma Guei è tenace e gli ambienti ricchi e lussuosi che frequenta nel corso delle consegne lo stupiscono ma non lo sconvolgono. Ma un giorno, dopo aver perso tempo in una sauna per consegnare una busta a un introvabile signor Zhang, esce per strada e non trova più la bici. È stata rubata. In ufficio, Guei viene sgridato e licenziato, ma lui lancia una sfida: "Ho fatto un segno sulla bici. Se la ritrovo, mi riassumete?". Il direttore, ridendo, dice di sì: chi può essere talmente pazzo e fortunato da trovare una bicicletta in un formicaio come Pechino? Un gruppo di ragazzi, studenti di una scuola privata, fanno evoluzioni in bici in un palazzo in costruzione, che domina il vecchio quartiere dove vive Guei. Fra di loro c'è Jian, e riconosciamo subito la sua bici: è quella di Guei. Jian non l'ha rubata: l'ha comprata al mercato nero, rubando però i soldi al padre, che non poteva permettersi di comprargliela. Jian è di Pechino, frequenta una scuola "da ricchi" ma la sua famiglia è tutt'altro che benestante. Per lui la bici è uno status-symbol, indispensabile, fra l'altro, per corteggiare la compagna di scuola di cui è innamorato. Ma quando Jian si ferma con lei a un piccolo bar frequentato anche da Guei, il padrone riconosce la bicicletta e lancia Guei sulle tracce di Jian. Il derubato si riprende la refurtiva, ma Jian lo insegue e, con l'aiuto dei suoi compagni di scuola, si riprende la bici. Guei, sempre più testardo, va a prendersela di notte, e viene riassunto dalla sua impresa di pony-express. Jian è distrutto (anche la ragazzina dei suoi sogni non lo "fila" più), ma sempre con l'aiuto della sua gang di studentelli ritrova Guei e pretende di riavere la "sua" bici, che ha pagato ben 500 yuan. Guei non cede, e i due raggiungono un compromesso: terranno la bici un giorno per ciascuno.
Jian non sopporta di essere stato lasciato dalla ragazza: aspetta al varco lei e il suo nuovo fidanzato, e colpisce quest'ultimo in testa, con una pietra. Il giovane e i suoi amici lo inseguono per i vicoli della città vecchia, e nell'inseguimento viene coinvolto anche Guei, che aspettava la bici (era il suo turno di usarla). Guei e Jian vengono entrambi pestati a sangue, ma Guei, vedendo un ragazzo della gang che distrugge a calci la sua bici, trova la forza di rialzarsi, di afferrare un mattone e di abbatterlo. Poi se ne va portando in spalla la mountain-bike semidistrutta, sullo sfondo del traffico che invade, indifferente, le vie di Pechino.

Potremmo partire proprio da Ladri di biciclette, per liberarci dall'ingombrante paragone. I due film iniziano nello stesso modo: con un reclutamento. Serve forza lavoro, e come nel Tufello degli anni '40 (periferia di Roma Nord, zona Valle Melaina) così nella Pechino del 2000 "qualcuno" assegna degli impieghi a dei giovani disperati. Nella Roma del '48 gli aspiranti lavoratori sono visti tutti assieme, come un gruppo solidale (è un'illusione, vedremo strada facendo che la solidarietà non si compra al mercato); nella Pechino di oggi ogni disoccupato è "condannato" a un primo piano che lo isola, lo blocca, mentre una gelida voce fuori campo (femminile) lo incalza con domande nette, che richiedono risposte altrettanto nette. Quanto guadagnavi in campagna? "Dai 100 ai 1000 yuan". Quanto!? "Più di cinque e meno di otto". Questi ragazzi che vengono da fuori non sanno rispondere in modo preciso. Spesso il doppiaggio li fa sembrare stupidi, o fa dubitare che l'intervistatrice sia sorda, perché ripete le domande: in originale è un problema di accento, probabilmente i ragazzi parlano addirittura un dialetto incomprensibile per i cittadini. La Cina è grande e i nostri doppiatori non sono mai in grado di restituire questa grandezza.

Le biciclette di Pechino inizia in modo ancora più feroce e disperato di Ladri di biciclette e in seguito ricalca il modello italiano in almeno due punti fondamentali, che solo a prima vista potrebbero sembrare diversi. Il primo è la struttura narrativa, forzatamente incredibile perché costruita non sulla "verosimiglianza" naturalistica (che, ormai dovremmo saperlo, al cinema è la cosa più inverosimile che esista) ma sulla circolarità delle fiabe e delle parabole. Le biciclette di Pechino è una cosciente scommessa narrativa: quando Guei sfida il datore di lavoro dicendogli, in lacrime, di aver fatto un segno sulla mountain-bike e di essere quindi convinto di poterla ritrovare, l'ottuso impiegato gli ride in faccia: chi potrebbe essere così pazzo da cercare una bicicletta in quel formicaio? Guei vuole letteralmente ritrovare un ago in un pagliaio, ma essendo un contadino, sia pure inurbato, ha nel proprio Dna una memoria (probabilmente involontaria) secondo la quale i miracoli possono realizzarsi e i proverbi contengono un fondo di verità. L'impiegato non può saperlo: lui blatera di competizione e di immagine, è un uomo moderno e quindi, ci suggerisce il regista, totalmente slegato dalla realtà (si assume, qui, il termine realtà nel senso più autenticamente "neorealista": realtà come percezione profonda del mondo e delle sue regole, e non come concretezza immediata e insensata del reale; da quest'ultimo punto di vista il direttore dell'azienda di pony express padroneggia il reale perché lo comanda o crede di comandarlo, ma da un punto di vista più profondo il reale gli sfugge completamente).

Per farla breve, Guei trova il suo ago nel pagliaio perché il pagliaio si rivela - all'interno della convenzione, cioè del film – meno labirintico del previsto: e quando questo avviene, il direttore ha un sussulto di coscienza che però, in bocca a lui, suona quasi come un insulto (vede Guei addormentato fuori dall'ufficio, con la bici appena ritrovata, e dice: "Ho sempre pensato che quelli che vengono dalla campagna sembrano usciti da una favola"). Senza saperlo, l'uomo qui ci spiega il film. In realtà Le biciclette di Pechino sembra svolgersi in due vie: Jian e la sua ragazza passano proprio dal baretto gestito dall'amico di Guei, che può così riconoscere la bici e indirizzare Guei al suo recupero; la cosa può apparire clamorosa, e nella vita di tutti i giorni lo sarebbe, ma un film non è la vita di tutti i giorni bensì la vita reinventata di quei particolari giorni, e del resto abbiamo visto che la gang di Jian compie le proprie evoluzioni in bici all'interno di un palazzo in costruzione che domina il vecchio quartiere dove Guei bazzica e, forse, abita (in tutto il film non vediamo mai la casa di Guei: per quel che ne sappiamo, potrebbe essere un homeless). Che Guei e Jian si incontrino di continuo, dopo aver preso coscienza uno dell'esistenza dell'altro, può essere verosimile: semmai è abbastanza folle che proprio Jian compri al mercato nero la bici di Guei, visto che il furto è avvenuto in un "altrove" lontano e la bici rubata dovrebbe aver compiuto chissà quanti e quali giri.


Potremmo dire che anche all'interno della fiaba/parabola la sceneggiatura, scritta addirittura ad otto mani, si prende molte libertà; e altrettanto fa la regia, nei numerosi inseguimenti durante i quali i personaggi che corrono a piedi sembrano invariabilmente più veloci di coloro che montano una bicicletta. Ma potremmo giurare che De Sica, in Ladri di biciclette, si comportava diversamente? Semplicemente era un regista assai più bravo, quindi riusciva a rendere accettabile – psicologicamente prima che fisicamente – il fatto che nel finale Antonio Ricci si facesse bloccare dalla folla. Ma anche Ladri di biciclette è una parabola, quasi una via crucis le cui stazioni si ripropongono ciclicamente (la doppia visita dalla veggente, i due mercati – Piazza Vittorio e Porta Portese –, l'incontro con i tifosi del Modena che anticipa lo scenario del finale – la partita Roma-Modena allo stadio Flaminio). E anche in Ladri di biciclette Ricci incontra il ladro come per magia, il che ci porta al secondo punto di contatto fra i due film. A circa mezz'ora di proiezione Le biciclette di Pechino ha un "salto" di sceneggiatura che ci ha ricordato, pensate un po', Lo strangolatore di Boston di Richard Fleischer, formidabile film ingiustamente dimenticato. Anche lì, senza preavviso, si rivelava l'identità dell'assassino ben prima del finale. Qui, l'angosciante immagine di Guei che cerca la sua bici di notte, inquadrato in mezzo a migliaia di biciclette parcheggiate che lo circondano (proprio come Ricci, fuori dallo stadio, nel finale di Ladri di biciclette), stacca sulla bizzarra immagine di un gruppo di ragazzi, visti in silhouette, che vanno in bici all'interno di un palazzo in costruzione. Sullo sfondo c'è Pechino, e una lenta panoramica va ad inquadrare il vecchio quartiere di Guei, un dedalo di viuzze incastonato fra i vialoni della città nuova. Conosciamo Jian, e se ci vuole un occhio molto attento per capire che monta la mountain-bike di Guei, basta essere spettatori di media esperienza per intuire che lui è "il ladro". L'obiettivo del film non è certo la suspence, non si costruisce alcun whodunit sul furto, che – contrariamente, in questo, a Ladri di biciclette – è avvenuto fuori campo e fuori campo deve rimanere. Ciò che conta è costruire Jian come personaggio e metterlo in contrasto con Guei. In Ladri di biciclette, invece, l'autore del furto non è un personaggio ma una funzione, un "cattivo" fiabesco che fa capolino solo quando è necessario per motivare i movimenti e le azioni di Ricci. Ma anche nel film di De Sica lo vediamo benissimo in faccia mentre compie il furto e possiamo riconoscerlo, senza dubbio alcuno, quando Ricci lo ritrova.

L'immediata riconoscibilità del ladro (dell'antagonista), e la sua reperibilità, relativamente agevole, è l'altro punto che lega il film italiano e quello cinese: e li lega in modo profondo, non esteriore, perché entrambi i registi, facendoci incontrare i ladri in maniera apparentemente casuale, vogliono dirci qualcosa di molto preciso. Vogliono da un lato ribadirci la natura fiabesca, artefatta dei loro film e forse del cinema tutto (come dire: guardate che nella vita vera un ladro non lo trovate così facilmente), e dall'altro metterci davanti alle motivazioni vere, forti, profonde di un personaggio – forse di noi stessi – davanti alle difficoltà della vita. In fondo entrambi i film vogliono rispondere alla stessa domanda: cos'è davvero quella bicicletta? La risposta di Ricci arriva, in modo straziante e assolutamente credibile, nella scena in trattoria, mentre Bruno mangia la mozzarella in carrozza osservando quel buffissimo bambino ricco, con i boccoli, seduto al tavolo accanto: facendo due conti, Ricci calcola le poche lire (per lui, tantissime) che il lavoro di attacchino comunale gli avrebbe procurato e conclude: "E ce debbo rinuncià? Ma io nun ce rinuncio, capisci perché la dobbiamo ritrovà?". La risposta di Guei è invece complementare a quella di Jian, ed è a questo punto che salutiamo Vittorio De Sica, abbandoniamo il raffronto con il modello ed entriamo nel cuore vero delle Biciclette di Pechino. Perché è proprio nel fare del "ladro" un personaggio, speculare al derubato, che il film trova (finalmente) una propria strada.

Se per inquadrare "socialmente" Guei erano bastati una serie di primi piani e l'"interrogatorio" al primo giorno di lavoro, per "spiegarci" Jian serve un percorso narrativo più lungo e un po' più tradizionale. Nell'ordine, scopriamo: che per Jian la bici è uno strumento di seduzione, nel senso che è indispensabile per corteggiare la compagna di scuola di cui è innamorato; che per comprare la bici Jian deve aver combinato qualcosa di storto, perché appena arriva a casa la nasconde e, dal successivo dialogo con il padre, apprendiamo che quest'ultimo non gliel'ha comprata perché oberato da troppe spese; che comunque la bici è per Jian un'ossessione, visto che la sua stanza è tappezzata da foto di ciclisti e per abituarsi al surplace si alza di notte e si allena nel vicolo deserto. Dopo aver appreso tutto ciò su Jian, il film torna su Guei (che per cercare la bici si mette nei guai con la polizia) e subito organizza l'incontro fra i due, che viene a spezzare il patetico idillio che si stava creando fra Jian e la ragazza.

Sì, lo sappiamo: tutta questa fase – il modo in cui Guei ritrova la bici grazie all'amico, l'inseguimento di Jian dopo che Guei gli ha rubato il mezzo, il fatto che Guei si va a schiantare contro un camion (per altro, non facendosi nulla!) proprio in mezzo agli amici di Jian – è totalmente assurda, e girata piuttosto male. Ma, piuttosto che fare le pulci al regista, sarà interessante dire qualcosa sull'universo femminile che circonda Jian e dedurne un paio di cose abbastanza sorprendenti su tutte le donne che compaiono nel film. Tanto per cominciare, Jian viene da una famiglia "all'americana": suo padre è suo padre, ma la moglie di costui non è sua madre. Ha una sorellina (ovvero, una sorellastra) che non parla mai, assiste a tutto immota come una sfinge ed è la causa involontaria del furto: è per mandare a scuola lei che il padre non può permettersi di comprare la bici a Jian. La prima e unica volta che la bambina parla, è per consolare Jian con una frase che in quel momento suona quasi irridente: "Quella che hai subito è una vera e propria ingiustizia". Ripensando alla battuta del direttore sulle favole, Le biciclette di Pechino è pieno di beffe che suonano come sentenze e di sentenze che suonano come beffe. Se la sorellina provoca involontariamente i guai di Jian, la fidanzatina non è da meno: lo accetta quando lo vede in mountainbike ma è pronta a snobbarlo quando è a piedi, per mettersi con un ciclistaacrobata con i capelli tinti e i muscoli in vista.

Ma se Jian è perseguitato dalle figure femminili, anche Guei incontra solo donne "negative": abbiamo già notato come sia femminile la voce che interroga gli aspiranti pony express all'inizio, ma anche le due impiegate della ditta non sono da meno (parlano solo di denaro e di vecchi da spennare), per non parlare dell'impiegata della palestra che insiste con Guei perché paghi la sauna che il ragazzo non voleva assolutamente fare. La sintesi di tutte queste figure femminili è la ragazza che Guei e il suo amico "ristoratore" osservano alla finestra del suo appartamento, elegante, desiderabile ed esibizionista come una donna in vetrina di Amsterdam. Non pronuncia mai una sola battuta, è ciò che appare (vestiti di lusso, scarpe rosse col tacco, rossetto pesante sulle labbra) e quando l'apparenza sparisce, perde ogni significato: scopriamo nella seconda parte del film che in realtà è una serva, viene dalla campagna come Guei e rubava i vestiti alla padroncina, che per altro, assieme alla madre, sembra provare un perverso piacere nello smascherarla e, si presume, nel consegnarla alla polizia.

Se Le biciclette di Pechino è una fiaba, sicuramente è – almeno a tratti – una fiaba misogina. Guei eredita un tratto psicologico fondamentale – la testardaggine, ma chiamatela se volete "determinazione" – dalle eroine di Zhang Yimou, segnatamente dalla contadina di La storia di Qiu Ju e dalla maestrina di Non uno di meno. Ma certo lo sguardo privilegiato che il cinema della Quinta Generazione ha sempre riservato alle donne qui viene clamorosamente rovesciato. Non vorremmo, però, trarne delle conseguenze ideologiche eccessive. In realtà Le biciclette di Pechino è una fiaba nera perché l'unica solidarietà che fa capolino durante il film è quella, feroce e competitiva, interna alla gang di Jian – pronta però a rovesciarsi in odio quando Jian rompe le regole del branco tentando di uccidere (e a tradimento!) il capo, ovvero il ciclista che gli ha rubato la ragazza. Qui, il branco si coalizza e dà la caccia ai due estranei, Jian e Guei: che vengono così accomunati dallo status di vittime, senza però arrivare ad alcuna solidarietà fra di loro. Alla fine Guei compie lo stesso gesto di Jian: abbatte con un colpo di mattone alla testa il ragazzino che gli sta distruggendo la bici a calci, per difendere quell'oggetto che per lui è l'unica chance di sopravvivenza, là dove per Jian era un simbolo di potenza e di appartenenza. E se ne va portandosi in spalla quel rottame, sullo sfondo della metropoli indifferente. A quel punto non è un caso che il film si intitoli Le biciclette di Pechino, al plurale, esattamente come Ladri di biciclette (perché anche là i ladri, alla fine, diventano due quando Ricci tenta goffamente di rubare una bici a sua volta). La bicicletta che Guei e Jian si disputano è una sola, ma sullo sfondo, nella gang e nella città (che sono l'una il doppio speculare dell'altra), diventano milioni. E nessuna di loro è gratis: costano o 500 yuan al mercato nero, o la condizione di schiavi in aziende di pony express che applicano, papale papale, la logica degli strozzini. Poi qualcuno si meraviglia se un film simile, in Cina, è stato proibito?

Alberto Crespi