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Drifters

Cina

Drifters, melò familiare teso fra la forza di gravità cinese e il richiamo a una prospettiva di fuga: la Cina al tempo del Wto.

DRIFTERSdi Wang Xiaoshuai

La Cina al tempo del Wto. E questo, grosso modo, il sottotesto di Drifters, melò familiare teso fra la forza di gravità cinese e il richiamo a una prospettiva di fuga colorato inevitabilmente a stelle e strisce, con incipit ed epilogo incorniciati dall'incenso del lutto, e racconto che si dilata per due ore attraverso inquadrature fisse che inevitabilmente si richiamano a Hou Hsiao-hsien (i lunghi pasti e gli improvvisi scoppi di ostilità) e a Jia Zhangke (lo sguardo che scruta i movimenti dei protagonisti come da lontano). Eppure, nonostante i riferimenti a questi due immensi cineasti, il film sembra tutto ripiegato su un'algida maniera autoriale, decisamente deterministica (cosa rimproverabile, per esempio, anche a Robinson's Crusoe di Lin Cheng-sheng) che priva il melò dell'ambiente sentimentale necessario per dispiegarsi. Certo, nella sua invocazione delle ragioni dell'esilio e dello smarrimento, il film di Wang Xiaoshuai non può non averci complici partecipando di un sentire doloroso e decisamente moderno. Ma la Cina resta lontana, non tanto per scelta stilistica, che pure sarebbe cosa comprensibile, quanto per l'incapacità di Wang Xiaoshuai di innervare nei suoi movimenti una necessità sentimentale che ci convinca a commuoverci assieme alla sua umanità che dolente scruta orizzonti lontanissimi. E quando finalmente trova la distanza giusta tra punto d'osservazione, corpi e plan — l'inquadratura magnifica del karaoke — la spreca immediatamente per utilizzare come commento sonoro la canzone e inseguire i protagonisti in una corsa notturna in Vespa che fa tanto Tsai Ming-liang. E in questa mancanza di autonomia di sguardo che Drifters fallisce come progetto cinematografico: i suoi corpi finiscono così infatti per essere ancorati a un progetto esterno alle loro ragioni che non li contempla se non come oggetti da dislocare spazialmente. L'idea di chiudere l'immobilità dei protagonisti tra due movimenti — un ritorno segnato da una morte e una partenza segnata dalla perdita del figlio — si offre così fatalmente come mero artificio di sceneggiatura e non riesce mai a farsi ragione di un sentire che i corpi siano in grado di vivere oltre che enunciare come intenzionalità.

Giona A. Nazzaro