Gli anni Cinquanta sono unanimemente considerati epoca d'oro del cinema indiano o di quella forma di cinema indiano in cui la narrazione è integrata da canzoni e talora danze che diventano esse stesse parte costitutiva del racconto. Molti film di questi anni condividono l'eccellenza di questo aspetto, che trova espressione magistrale nelle opere di Raj Kapur e soprattutto di Guru Datt . Ma vi sono anche ragioni politiche e sociali che danno rilevanza alle produzioni di questo decennio.
GUIDA PRATICA AL CINEMA (PAN)INDIANOTerza puntata: L'epoca d'oro
Gli anni Cinquanta
Ciò che si va articolando negli anni Quaranta si realizza pienamente negli anni Cinquanta, epoca d'oro del cinema. Sono gli anni della conquistata indipendenza (1947) e delle grandi aspettative, che inizialmente sembrano avviate alla concretizzazione. Alla metà del decennio la spinta comincia a rallentare, le difficoltà in cui si dibatte l'India si fanno evidenti: oltre ai problemi di ristrutturazione economica, ci sono problemi sociali come l'integrazione tra le comunità, destabilizzate dalla Partizione (divisione del paese tra India e Pakistan) e la spinosa questione dei "nazionalismi" linguistici (Cossio 1998).
Do bīghā zamīn (1953)
All'inizio del decennio, il cinema è nel caos per diversi motivi: a) una tassazione ancora devastante a cui si accoppia una censura molto rigida; b) la scarsa considerazione da parte dello stato, che stenta a riconoscerlo come produttore di cultura; c) la penetrazione di enormi quantità di denaro nero da riciclare e la conseguente proliferazione di improvvisati produttori. Quest'ultimo fattore determina un aumento assurdo dei costi di produzione che disintegra le vecchie e consolidate compagnie di produzione che avevano formato il cinema e, a lungo termine, finirà per danneggiare la qualità dei prodotti. Inizia l'era delle produzioni sontuose, a cui si accompagna una dipendenza sempre più marcata di registi e produttori da distributori ed esercenti. Ciò contribuisce al declino nel favore popolare del più contenuto cinema bengalese, che fino ad allora poteva contare sui proventi delle versioni hindi dei suoi prodotti e ora non ha i mezzi per reggere la concorrenza. La concomitanza di questi elementi, insieme con la Partizione, determina un afflusso di molte energie a Bombay e si traduce in film memorabili ad opera di grandi registi. Tra questi, Bimal Ray (1904-66), arrivato da Calcutta, ma nativo di Dacca (dopo la Partizione, capitale del Pakistan orientale), realizza Do bigha zamin (Due pezzi di terra, 1953), Devdas (1955, remake dell'omonimo film di P.C. Barua) e Sujata (1959, contro l'intoccabilità); Raj Kapur (1924-88), originario di Peshawar (ora nel Pakistan occidentale), dirige, produce e interpreta Avara (Il vagabondo, 1951) e Shri 420 (Il signore dell'articolo 420 [del Codice Penale, che riguarda le frodi], 1955); Guru Datt (1925-64), originario di Bangalore, dopo alcune "prove" firma due dei suoi capolavori, Pyasa (L'assetato, 1957) e Kaghaz ke phul (Fiori di carta, 1959, una delle prime riflessioni sul cinema); Mahbub Khan (1906-64), il grande regista gujarati, autore di numerosi successi negli anni Trenta e Quaranta, conclude il suo brillante percorso con Mother India (1957), remake a colori del suo precedente Aurat (Donna, 1940) e uno dei film più amati dal pubblico indiano.
Nel 1952 viene istituito il primo festival cinematografico internazionale, tramite il quale i cineasti indiani non solo vengono a contatto con il cinema internazionale, ma soprattutto con il neo-realismo italiano, che rimarrà come impronta indelebile su quella generazione e su tutte quelle successive.
Ci sono altre innovazioni: il primo film a colori (An [Onore], 1952, di Mahbub Khan); il primo film in technicolor (Jhansi ki rani [La regina di Jhansi], 1953, di Sohrab Modi); il secondo film senza canzoni (Munna [Il bambino], 1954, di K A Abbas; il primo è Naujavan [Gioventù], 1937, di Aspi, contestato dal pubblico che si sente imbrogliato); e il primo film in cinemascope (Kaghaz ke phul, 1959, di Guru Datt). Anche nel sud si impongono grandi produzioni, precedute da Chandralekha (1948, di SS Vasan, in tamil e hindi), come: Parashakti (o The Goddess, 1952, di Krishnan-Panju); e Avaiyyar (1953, di Kothamangalam Subbu), tutti due in tamil.
Ōvārā (1951)
A risollevare le sorti bengalesi, comincia ad operare in questo decennio anche la "Trimurti" cinematografica dello stato: Satyajit Ray, Ritvik Ghatak, Mrinal Sen. Satyajit Ray è il più prolifico, e anche il più fortunato: Pather panchali (Il canto del sentiero, 1955), Aparajito (L'invitto, 1956), Paras patthar (La pietra filosofale, 1957), Jalsaghar (La casa della musica, 1958), Apur sansar (Il mondo di Apu, 1959); Ritvik Ghatak inizia con Nagrik (Cittadino, 1952) e Ajantrik (Non meccanico o Pathetic Fallacy, 1957), ma non ha la stessa fortuna; nemmeno Mrinal Sen ha un esordio felice con le prime due opere: Rat bhor (L'alba della notte, 1956) e Nil akasher niche (Sotto un cielo azzurro, 1958).
Ambientazione privilegiata del cinema del decennio è la città. La migrazione dalle zone rurali verso i centri urbani, soprattutto Bombay e Calcutta, iniziata già nell'ultimo periodo dell'800 e continuata nei primi decenni del 900, diventa ancor più consistente dopo la II guerra mondiale e la Partizione. Questo porta ad uno scardinamento di tradizioni, sistemi secolari di rapporti e di valori, dando origine ad una popolazione di sradicati alla ricerca di stabilità e identità nuove. È proprio a questa sezione del pubblico che il cinema rivolge un'attenzione particolare.
Il rapporto del nuovo eroe cinematografico con la città - come osserva Iqbal Masud (1987) - si esprime nelle sue diverse forme, di accettazione e di rifiuto, in opere come Avara (Il vagabondo, 1951, Raj Kapur), Do bigha zamin (Due pezzi di terra, 1953, Bimal Ray) e Pyasa (L'assetato, 1957, Guru Datt).
Do bigha zamin si discosta dagli altri due film non solo per l'ambientazione (Calcutta; Bombay per gli altri due, benché molte scene di Pyasa siano state girate a Calcutta), ma soprattutto perché è una Calcutta vista con gli occhi di un contadino, arrivato in città per guadagnare i soldi necessari a salvare la sua poca terra dalle mani di un latifondista usuraio. La città è qui un ambiente alieno al protagonista Shambu. Per sopravvivere il tempo necessario al suo scopo – per altro non raggiunto – Shambu si ricrea una nicchia "domestica" tra gli abitanti di uno slum, sradicati ed emarginati come lui, e infine torna al villaggio e alla terra che ha perduto: la città, di cui vede solo i lati oscuri, gli rimarrà sempre radicalmente estranea.
Gli altri due film – Avara e Pyasa, in assoluto tra i più grandi successi del cinema indiano di ieri e di oggi – guardano invece la città da una prospettiva diversa, quella della classe media di estrazione urbana; i loro protagonisti sono un prodotto della città stessa.
Avara racconta le vicende di Raj, giovane e affascinante ladro cresciuto nei bassifondi di Bombay, che si rivelerà essere figlio di un ricco e famoso magistrato. Qui lo scontro è tra le disparità sociali dell'ambiente metropolitano, tra la ricchezza e la povertà che si nutrono e si sostengono a vicenda in una rete di reazioni a doppio scambio. La città è anche gioco e spettacolo affascinante, in cui il protagonista non è un estraneo, anzi si muove a proprio agio in entrambi i mondi per i quali funge da trait–d'union, quasi allegoria dei complessi rapporti che legano indissolubilmente i settori legali e illegali, formali e informali.
Shrī 420 (1955)
La città cinematografica è importante anche perché diventa (benché non in maniera esclusiva) "l'officina del nuovo mito della nazione, in cui i tradizionali vincoli di lealtà verso la famiglia, la casta e la comunità vengono spostati verso centri meno determinati, come appunto la più vasta comunità dell'India, la terra–madre e la madre–patria, o concetti più anonimi, come lo stato, con un codice di leggi e di giustizia talora in contrasto con codici di comportamento fissati da convenzioni e rituali assai più antichi. Tuttavia, tali centri e figure di potere, che risulterebbero estranei, senza volto e spesso ostili, vengono ‘addomesticati' all'interno di una più tradizionale struttura di rapporti. Tale addomesticamento comporta in genere un percorso iniziatico – doloroso e talora fatale – attraverso una ribellione tutta individualistica che sublima nella ricomposizione di un nuovo, più elevato, unificante tessuto sociale" (Cossio 1988; si veda Chakravarty 1996).
Avara è uno dei film in cui si evidenzia questo cammino iniziatico verso l'accettazione di un nuovo principio unificante, che tuttavia vede anche dei "dissidenti", il protagonista di Do bigha zamin, prima, e per altre ragioni quello del film di Guru Datt.
Pyāsā (1957)
Pyasa è la storia di Vijay, poeta a cui arride la fama solo quando è creduto morto e le sue poesie vengono pubblicate a spese della prostituta Gulab, la sola a credere in lui. Ma a quel punto è il redivivo Vijay a rifiutare il tardivo riconoscimento. Anche qui ci troviamo di fronte a un eroe urbano, un poeta che aspira al riconoscimento della propria arte in un mondo che si muove secondo logiche di produzione e consumo, che non contemplano i rapporti umani. Se il poeta vuole salvare la propria anima dall'inevitabile contaminazione dell' "avere" e dell' "apparire", deve rifiutare quel riconoscimento e insieme quella realtà, senza tuttavia trovare un'alternativa. Se non accetta il compromesso necessario, non può che scegliere la morte o la fuga nel nulla, come rivela chiaramente il finto lieto fine del film. Dopo la città aliena di Bimal Ray e la città accettata (insieme con il nuovo concetto di "nazione") di Raj Kapur, con Guru Datt ci troviamo di fronte alla città rinnegata dal frutto stesso che ha generato.
Pyasa rappresenta forse il momento più alto di cinema indiano "indiviso" (prima della "partizione", alla fine degli anni Sessanta, tra cinema popolar-commerciale e cinema d'autore), in cui la vicenda raccontata è magistralmente integrata da canzoni e talora danze che diventano esse stesse parte costitutiva del racconto. Nella resa narrativa delle canzoni (picturization, come viene definita), Guru Datt rimane ancora ineguagliato; ma molti film degli anni Cinquanta - come quelli di Raj Kapur - condividono l'eccelleza di questo aspetto. Musica, canzoni e danze qui assolvono pienamente alle funzioni loro affidate: sottolineare il "messaggio" del film, esprimere sentimenti e generare emozioni, creare lo stato d'animo per la partecipazione degli spettatori e inoltre comunicare in forma allegorica ciò che, per convenzione, non può essere espresso in forma diretta, come la passione, la sessualità e, a volte, l'impegno sociale o politico.
Altri film importanti del periodo:
Banvre nayan (Occhi folli, 1950, re. Kedar Sharma), grande melodramma che vede l'eroe conteso tra l'amore per una fanciulla di villaggio e le trame di una ricca e viziata donna di città (anche se di animo fondamentalmente buono).
Dahej (La dote, 1950, V. Shantaram), tragica vicenda che denuncia la piaga della dote, ancora oggi causa di maltrattamenti e morti di spose "inadempienti".
Shishmahal (Il palazzo degli specchi, 1950, Sohrab Modi), commento sulla decadenza dell'aristocrazia feudale attraverso la storia di un vecchio patriarca incapace di accettare il nuovo mondo borghese.
Albela (Il dandy, 1951, Master Bhagvan), il maggior successo del regista, anche produttore e interprete del film, sui tentativi di un impiegato di diventare una stella del teatro.
Afsana (Una storia, 1951, B.R. Chopra), storia di due gemelli separati alla nascita e debutto nella regia di uno dei più prestigiosi cineasti indiani, che ottiene tuttavia il primo di una lunga serie di successi nel 1954 con Chandni Chauk.
Andolan (Il movimento [nazionale], 1951, Phani Majumdar), film-documentario sul movimento nazionale, dalla formazione del Congresso (1885) all'indipendenza (1947).
Bazi (La partita, 1951, Guru Datt), un film poliziesco che segna il debutto di Guru Datt nella regia.
Hamlog (Noi, 1951, Ziya Sarhadi), primo film di una trilogia (con Footpath, 1953, e Avaz, La voce, 1956), sulle frustrazioni e le difficoltà del ceto urbano medio-basso, con influssi del realismo socialista russo.
Anand math (Il monastero della felicità, 1952, Hemen Gupt), tratto dall'omonimo romanzo di Sharatchandra Chattopadhyay (1876-1938), è il debutto hindi del regista bengalese, già nazionalista militante e segretario di Subhahchandra Bos (1897-1945), una delle figure più amate e controverse della lotta per l'indipendenza.
Baiju Bavra (1952, Vijay Bhatt), film pseudo-storico di grande successo sul confronto tra due grandi musicisti e cantanti alla corte dell'imperatore mughal Akbar (1542-1605): Baiju Bavra sconfigge musicalmente il grande Tansen vendicando così il padre, ucciso dalle guardie del rivale.
Bazi (La partita, 1951, Guru Datt): Madan, un giocatore, per curare la sorella gravemente ammalata, accetta di lavorare nella sala da gioco di un albergo, il cui proprietario malavitoso è il padre di Rajni, di cui Madan si innamora. Il lieto fine del thriller avviene a un poliziotto, anche lui innamorato di Rajni, e al sacrificio di una ballerina, innamorata di Madan, Nina. Prima regia di Guru Datt.
Jal (La rete, 1952): storia ambientata a Goa, in un insediamento di pescatori. Maria e il fratello cieco Carlo danno ospitalità a Lisa, ricettatrice di gioielli rubati dal complice Tony. Maria cade nella "rete"dell'affascinante quanto cinico ladro, intenzionato a sfruttare il suo amore. Ma il puro sentimento della giovane produrrà il difficile riscatto morale di Tony.
Parinita (La sposa, 1953, Bimal Ray), dal romanzo omonimo di S.C. Chattopadhyay; un giovane di ricca famiglia sposa segretamente una ragazza povera, ma lo zio ignaro combina per lei un ricco matrimonio per pagare un debito. L'amore e la verità avranno poi la meglio.
Ar par (Testa o croce, 1954): il tassista Kalu, che ha appena scontato un periodo di carcere per eccesso di velocità, trova lavoro presso il garage di Lalaji, che non approva l'attrazione della figlia Nikki per il giovane. Quando Kalu riesce a sventare un colpo a una banca e a liberare Nikki dalle mani del rapitore che intendeva così convincerlo a diventare suo complice nella rapina, il lieto fine è assicurato..
Mirza Ghalib (1954, Sohrab Modi) racconta una vicenda amorosa tra il grande poeta Mirza Asadullah Khan "Ghalib" (l'"Eccelso", 1797-1869) e una cortigiana. Medaglia d'oro presidenziale come miglior film dell'anno.
Mr. & Mrs. 55 (1955, Guru Datt): Anita, sotto la tutela della zia, paladina dei diritti delle donne e nemica giurata degli uomini, potrà ereditare l'ingente patrimonio paterno solo se si sposerà. Deve trovare un uomo disposto per denaro a sposarla e divorziare subitodopo. Pritam , disegnatore di fumetti disoccupato, accetta dopo aver visto Anita, di cui si è subito innamorato.
Taxi Driver (1955, Chetan Anand), uno dei film più noti interpretati da Dev Anand (anche produttore del film e fratello del regista, oltre che regista e leggenda vivente del cinema indiano); è un noir che prende le mosse dal salvataggio, da parte di un tassista, di una giovane donna con ambizioni artistiche dalle grinfie di una banda criminale.
Shri Charsaubis (Il signor 420, 1955, Raj Kapur), giovane campagnolo alla conquista di Bombay, conteso tra il mondo abbagliante e corrotto della ricchezza e quello miserabile ma pieno di sincerità e calore degli slum.
C.I.D. (1956, Raj Khosla), film poliziesco di grande successo, prodotto da Guru Datt e interpretato da Dev Anand, qui nel ruolo di un ispettore accusato di aver usato metodi violenti di interrogatorio e di aver ucciso un indagato.
Jagte raho (Vegliate, o Ek din ratre, La notte di un giorno, nella versione bengalese, 1956, Sambhu Mitra), film espressionista sulle vicende di un contadino alla disperata ricerca di un po' d'acqua nella Bombay notturna e scambiato per un ladro; ottiene il primo premio al festival di Karlovy Vary nel 1957.
Do ankhen barah hath (Due occhi dodici mani, 1957, V. Shantaram), racconta la storia di un direttore di carcere idealista che crede nella fondamentale bontà della natura umana e vuole dimostrarlo redimendo sei assassini.
Musafir (Viaggiatori, 1957, Rishikesh Mukharji), tre storie sui diversi inquilini di una stessa casa, è un interessante esperimento collettivo di produzione indipendente che vede all'opera figure di rilievo: oltre al regista (anche soggettista e co-sceneggiatore), collaborano infatti Ritvik Ghatak nel ruolo di co-sceneggiatore, il musicista Salil Chaudhri (n. 1925), lo scrittore e regista Rajendr Sinh Bedi (1915-84) e il poeta Shailendr (1923-66), insieme a un cast di attori di grande fama.
Pardesi (Lo straniero, o, nella versione russa, Khozeheniye Za Tri Morya, 1957, K.A. Abbas e Vassili M. Pronin), co-produzione indo-sovietica su una missione commerciale russa in India nel XV secolo.
Tumsa nahin dekha (Mai visto nessuno come te, 1957, Nasir Husain), debutto del regista e primo grande successo del protagonista, Shammi Kapur, fratello di Raj Kapur e destinato a diventare il "fenomeno" degli anni Sessanta.
Chalti ka nam gari (Il successo si chiama automobile, 1958, Satyen Bos), commedia di grande successo che ruota intorno alla vecchia Chevrolet di tre fratelli, protagonisti della vicenda e fratelli anche nella vita reale: Ashok Kumar (n. 1911), attore d'immensa fama, produttore e occasionalmente regista; Kishor Kumar (1929-87), attore e soprattutto cantante e musicista tra i più amati, oltre che regista e produttore; e Anup Kumar, attore.
Madhumati (1958, Bimal Ray), storia di reincarnazioni in un film di grande successo che rivede insieme molte persone che avevano collaborato a Musafir (sopra), come Ritvik Ghatak, qui autore del soggetto, Rajendr Sinh Bedi, autore dei dialoghi, Salil Chaudhri, autore delle musiche, e Shailendr, autore dei testi delle canzoni.
Phir subah hogi (Tornerà il mattino, 1958, Ramesh Sahgal), basato su Delitto e castigo di Dostoewki, noto anche per l'ottima colonna sonora del musicista Khayyam (n. 1927) e per il testo di una canzone, Chin o Arab hamara (China e Arabia ci appartengono), feroce satira della politica nehruviana ad opera del noto poeta Sahir Ludhiyanvi (1921-80), membro dell'IPTA.
Sone ki chiriya (La gallina dalle uova d'oro, 1958, Shahid Latif), storia di una giovane orfana sfruttata dagli avidi parenti quando diventa una star del cinema; interessante anche per i realizzatori, alcuni dei quali tra i nomi più noti della letteratura urdu progressista, come il regista stesso; sua moglie, Ismat Chughtai (1915-91), produttrice e soggettista del film , ma famosa soprattutto come scrittrice; e i poeti Kaifi Azmi (n. 1925), Majruh Sultanpuri (n. 1924) e il già citato Sahir Ludhiyanvi.
Anari (Il semplicione, 1959, Rishikesh Mukharji), storia d'amore tra un ingenuo pittore e una ricca ereditiera che finge di essere la sua stessa domestica.
Char dil char rahen (Quattro cuori quattro strade, 1959, K.A. Abbas), diversi temi sociali rappresentati in tre storie d'amore a cui viene offerta una soluzione comune nella costruzione collettiva di una strada.
Dhul ka phul (Il fiore della polvere, 1959, Yash Chopra), prima opera personale del regista, fino ad allora assistente del fratello B.R. Chopra (n. 1914); il film racconta la vicenda di un bambino illegittimo abbandonato dalla madre nubile e hindu e allevato da un vecchio musulmano.
Paigham (Il messaggio, 1959, S.S. Vasan), storia d'amore tra un ingegnere e una ragazza povera che si scoprirà essere figlia dell'industriale per cui lavora l'ingegnere; con questo film, il regista e produttore consolida l'affermazione del cinema tamil sul più vasto mercato hindi.
(continua)
Consigli bibliografici
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Masud, I.,1987, Genesis of the Indian Popular Cinema. The Fifties.The City: Paradise and Inferno in "Cinema in India", Vol. I, No. 3, July-September, pp. 22-29.
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Cecilia Cossio