L'esordio alla regia di Wang Chao si inserisce nella tradizione neorealista e contemplativa del cinema cinese, raccontando la storia di una prostituta, un gangster, un operaio ed un bambino.
THE ORPHAN OF ANYANGdi Wang Chao
The Orphan of Anyang è di gran lunga uno dei film più interessanti che ci siano arrivati dalla Cina Popolare nel corso degli ultimi anni. La storia del film può essere raccontata molto semplicemente. È ambientata nella provincia dello Henan. Si apre con la figura sommessa e anonima del protagonista che bussa alle porte dei vicini di casa: è stato licenziato dalla fabbrica in cui lavorava perché la medesima è in crisi, ha avanzato dei buoni mensa e vorrebbe realizzare i pochi soldi che loro sono disposti a dargli per poterli utilizzare nella vita di tutti i giorni. Vita, peraltro, che si consuma nella solitudine: lo ritroviamo infatti poco tempo dopo mentre mangia da solo una zuppa in un chioschetto squallido, dentro lo stesso quartiere. Il padrone del chioschetto gli fa vedere un bambino che è stato abbandonato avvolto in una bella coperta e gli chiede di tenerlo un attimo in mano. In questo modo, il protagonista si accorge che c'è un foglietto nascosto che promette una somma a chi si occuperà del neonato, e reca un numero di telefono. L'operaio, che nel frattempo decide di aprire un'attività come riparatore di biciclette (attività che svolge sul marciapiede di fronte a casa sua), sceglie di tenersi il bambino e di contattare il numero di telefono.
Appuntamento in un altro ristorante dimesso e squallido: all'appuntamento si reca una giovane donna, con ogni evidenza una pro-stituta perché vestita in un modo sgargiante che contrasta con il grigiore prevalente in abitazioni e indumenti. Durante il loro primo incontro, è la donna (che arriva dal Nord-est, più precisamente dalla Manciuria) a parlare, a pagare il conto, a decidere quando è ora di andare via, a precisargli che fa quella vita perché ha bisogno di soldi. La ragazza è nelle mani di un piccolo gangster,forse innamorato di lei e forse padre del bambino; il gangster è ammalato di leucemia, ha le ore contate e cerca invano di nascondere la malattia alla madre, che invece ha già capito tutto. Quando la ragazza si trasferisce nella casa dell'operaio e inizia a ricevere lì i suoi clienti, l'uomo osserva con dolorosa indifferenza il via vai di persone che entra e esce da casa sua. Cercherà, goffamente ma in modo deciso, di difendere la ragazza quando il gangster e i suoi uomini si recano per darle una lezione, per riportarla sotto la loro tutela e per riprendere il bambino. La ragazza, pestata a sangue, cercherà di scappare via con la creatura per poi metterla in salvo nelle braccia di uno sconosciuto. Subito dopo, fa il giro del quartiere per ritrovare il bambino, senza riuscirci: e in un flash back che visualizza il suo dolore e le sue speranze, la ragazza crede di ricordare di aver abbandonato la creatura proprio nelle mani del silenzioso operaio... È chiaro che The Orphan of Anyang rappresenta al tempo stesso un elemento di continuità e di rottura per il cinema della Cina Popolare. Il suo linguaggio crudo, semplice, quasi neorealista sembra appartenere alla grande tradizione del cinema cinese che abbiamo iniziato ad apprezzare in Occidente all'inizio degli anni Ottanta, quando si è diffusa la conoscenza di quella cinematografia. Ed è notevole vedere come quel linguaggio possa essere oggi attualizzato nel raccontare una storia che descrive senza mezzi termini la crisi di cambiamento che attraversa quel paese, dove l'immissione di elementi di liberalismo ha tolto la certezza del posto di lavoro e dove le classi più povere rischiano di dover sopportare allo stesso tempo le angherie di un sistema capitalista e l'oppressione del socialismo di stato. Come appare evidente sin dall'inizio, la macchina da presa si mantiene su una linea molto discreta, pedinando la stanca ritualità dei gesti quotidiani di personaggi che sono privati della possibilità di vivere grandi emozioni. L'unico personaggio veramente tragico è il gangster, che ha una fissità che rimanda a Jean-Pierre Melville via Takeshi Kitano e che sa al contempo essere spietato e violento come si addice a una malavita povera che fa dell'aggressione primaria e diretta l'arma principale per esercitare il controllo del territorio. Nell'assenza di qualsiasi aspetto di società, sembra dirci il film, tutto è affidato all'iniziativa dei privati, siano essi gangsters o prostitute o operai licenziati che cercano di sopravvivere ingegnandosi alla meglio.
Al di là degli aspetti sociali o sociologici, il film è molto interessante per le immagini che trasmette. I rumori della città, ad esempio, sono quasi sempre in primo piano, mentre i personaggi sono osservati da lontano, dal marciapiede opposto, con un montaggio poco serrato (se non nella fase finale) che però corrisponde a una assoluta necessità delle immagini, che non sono mai superflue. In certi momenti, il regista sembra un entomologo e i suoi personaggi degli insetti che si muovono in un ambiente che è di fatto estraneo e indifferente alle loro storie, ai loro problemi. In una vita scandita dalla necessità di sopravvivere, il modo più corretto per essere narrati è intervenire il meno possibile con artifizi di regia restituendo alle immagini la forza dirompente delle sensazioni che sanno evocare. Tempi e modi narrativi, quindi, non omologati: la storia è ambientata in un luogo e in uno spazio ben definiti,la narrazione non vuole mai forzare quel luogo e quello spazio. E anche l'amore può essere vissuto con piccoli gesti impercettibili che tradiscono un profondo rispetto. L'operaio licenziato, con il problema di doversi procurare ogni giorno il cibo, accetta con piacere un piatto grande di minestra offertogli dalla prostituta ma quando lei ha terminato la sua piccola porzione smette anche lui di mangiare per potere uscire assieme a lei. E lo sguardo con il quale osserva dal proprio angolo di marciapiede occupato dalle bici in riparazione il via vai discreto ma evidente dei clienti della donna che entrano a casa sua è lo sguardo di un uomo innamorato, capace di sognare un riscatto ma anche di accettare la vita e le persone così come sono.
Una storia d'amore tra le più struggenti viste in quest'anno, un regista che dovremo tenere d'occhio in futuro. Wang Chao ha iniziato il suo rapporto con il cinema come aiuto per Chen Kaige in L'imperatore e l'assassino, per poi dedicarsi alla letteratura scrivendo una serie di racconti (tra i quali quello che ha ispirato il film) e pare abbia avuto non pochi problemi di censura per questo film: motivo di più per non perderlo di vista.
Stefano Della Casa