Miike Takashi, una delle voci più interessanti del panorama cinematografico giapponese degli ultimi anni, parla del suo cinema, sospeso e ellittico, costantemente in bilico fra rottura, distruzione e continuità.
IL DISORIENTAMENTO E L'IGNORANZA Intervista con Takashi Miike
Takashi Miike è un regista nero. Interessato a personaggi soli in terre che non possono conoscere perché ormai indistinguibili, e a un linguaggio che inglobi più influenze, e quindi molto difficile da uniformare in una determinata forma-cinema che non sia quella della rappresentazione della violenza, sempre e comunque presente, Miike si è rivelato una delle voci più prolifiche e interessanti del panorama cinematografico giapponese degli ultimi anni. Lo abbiamo incontrato all'edizione del Noir in Festival dello scorso anno.
Non esiste una distinzione netta tra maschio e femmina, in molti suoi film. I sessi spesso si confondono, e magari si annullano. Addirittura, lei fa iniziare Audition con un discorso sulla carpa, che nasce asessuata e poi, col tempo, acquista una maggiore identità sessuale.
Noi nasciamo con una certa predisposizione al sesso; non siamo noi stessi a deciderlo: nasci uomo e per tutta la vita lo sei, nasci donna e per tutta la vita lo sei. Se io, nel mio cinema, intendo parlare di ciò che conosco, alla fine non potrei mai parlare della donna, perché io non ho nessuna pretesa di conoscere la donna, potrei solo fingere, non è la mia dimensione, non mi appartiene. Però, in tal caso, sarebbe un mondo solo al maschile. Invece, per quanto mi riguarda, cerco di non dare predominanza al personaggio in quanto maschio, ma di crearne uno neutro, potenzialmente asessuato, da cui a volte verranno fuori le caratteristiche di una donna, altre volte quelle di un uomo. Ma non sarà mai una presa di posizione decisa.
La distruzione totale di ogni codice precostituito che mette in atto in molti suoi film, in particolare in Fudo - The New Generation, deriva da un suo atteggiamento atrocemente pessimistico nei confronti del Giappone attuale, oppure è perché pensa che forse è necessario distruggere e azzerare ogni cosa per poter partire da capo?
Se tu vivi nel cinema, se tu come persona vivi dentro il cinema, e intendi viverci dentro, e non solo proporti, allora non puoi far altro che rompere e distruggere quello che c'è. Questo non significa una presa di posizione rispetto a quello che già esisteva, o la volontà di creare necessariamente qualcosa di nuovo; semplicemente significa muoversi in uno spazio, che è quello del film. Quando crei un genere, indipendentemente da un progetto prestabilito, quel genere, come risultato di un tuo modus vivendi, naturalmente è un momento di rottura... Quindi non c'è una posizione precisa rispetto a quello che è stato prima o quello che deve venire dopo: semplicemente, tu ti muovi in questo sistema, e allora distruggi.
Ma se lo stare dentro il cinema comporta per lei una distruzione, è perché non le sta bene quello che è stato prima, o perché vuole creare un suo spazio?
Vediamola così: più che voler distruggere qualcosa all'interno del cinema, io voglio distruggere qualcosa di me, qualcosa che io ero, qualcosa che mi porto dentro, anche come predestinazione, e da quello creare una dimensione nuova. È come se tu possedessi un giocattolo, e per capire come farlo funzionare al meglio, cominci a distruggerne delle parti. Però ci sono delle cose che tu non potrai distruggere, perché sono dei tuoi antecedenti, sia culturali che altro, che fanno parte di te: ecco, questa parte rimarrà sempre, ti dà la continuità.
Un po' come accade per il personaggio dello yakuza in Bird People from China, che entra nel villaggio per poi rimanerci... Ma come lo vede? con occhio pessimistico o ottimistico?
Sì, giustamente tu puoi vedermi come lui, perché il percorso è a grandi linee lo stesso. Però lui arriva in un posto, e decide di vivere lì, restare lì, mentre per me questo processo non è ancora possibile. Io non vedo il futuro come qualcosa di splendente, di luminoso, ma questo non vuol dire che io lo veda necessariamente come qualcosa di buio. Semplicemente, io sono nato con un bagaglio, con qualcosa alle mie spalle, e la maggior parte di queste cose le ho perse, volutamente o meno, me ne sono liberato o sono scivolate via da me con naturalezza. Quindi, in un certo senso, io vorrei fare quel passo che fa Ujiie [lo yakuza di Bird People from China, n.d.c.], però ancora non ci riesco, e quindi tento di far fare la stessa cosa ai miei personaggi.
Veniamo al rapporto Giappone-Cina, o comunque Giappone e altre zone geografiche limitrofe, come, per esempio, Taiwan. Mi sembra che nel suo cinema sia importante e imprescindibile. Come vede queste relazioni geografiche?
Storicamente, il Giappone e la Cina hanno una vastissima storia che li accomuna, per sopraffazioni o per amicizia, comunque c'è sempre stata una continuità nella storia. Solo che quando adesso noi ci avviciniamo alla Cina, non sentiamo la nostra posizione nei confronti dei cinesi come una continuità rispetto a quella che avevano i nostri padri con quelli della loro generazione in Cina. Al contrario, ci siamo resi conto che si è chiusa una parentesi, e che noi ne stiamo aprendo un'altra. Nasce un rapporto del tutto differente da quello che potevano avere le generazioni precedenti alle nostre. Alla base di questo rapporto individuale, personale, nuovo, soprattutto, li vedi più obiettivamente, non soltanto i cinesi, ma pure Taiwan: vai lì, e ti rendi conto che le persone che incontri sono come era tuo padre, come era la generazione di tuo padre, non come me. Quindi conservano un'identità tradizionale e culturale molto più forte di quella che abbiamo noi, che abbiamo perso. In Giappone, come gruppo, riesci a trovare ancora momenti di coesione che partono ovviamente da una base culturale e tradizionale, ma l'individuo, invece, non è più in grado di identificarsi. Invece nei cinesi e nei taiwanesi tutto questo ancora esiste, per cui è un momento di fascino, di fascinazione... Quando adesso un giapponese rappresenta la Cina nei suoi film, non lo fa più come un flusso storico che lo lega direttamente al passato e al futuro, ma al contrario ha due parentesi: una è quella del passato, che si conclude immediatamente prima di lui; una è quella del presente, quella che sta creando in quel momento e che non deve necessariamente generare un futuro: sa che dopo ci sarà un futuro, ma non sa quale, e non sa cosa accadrà, non sta costruendo, è solo l'immagine riflessa di un presente molto particolare. Dal momento che siamo tutti asiatici, è inevitabile poi trovare momenti di comunione, di uguaglianza. Tutto questo viene fuori naturalmente all'interno del film.
Allora, vecchio e nuovo, tradizione e proseguire. Lei vede i bambini come strumento per eliminare quello che è stato prima, e contemporaneamente mezzo per andare avanti. Lo stacco deve essere violento, o quello che è venuto prima deve restare una sacca culturale e tradizionale da preservare?
Il discorso della cultura è molto pericoloso. Bisogna cercare di capire: si sa o non si sa? Prendiamo i bambini: non hanno nessun antecedente culturale, nessun tipo di formazione, e l'educazione non è riuscita ad incidere su di loro in alcun modo. Se ne prendi uno e lo metti in un deserto, ne studi le reazioni: ci sarà il bambino che continuerà a vagare per il deserto, verso la pianura, verso la collina, comunque ci sarà un movimento, una ripetizione di qualcosa che già c'è, ovvero il movimento in sè, oppure una evoluzione, cioè verso luoghi sereni, oppure ancora un'involuzione, cioè verso luoghi pericolosi; in questi casi, la forza del bambino è il non sapere. Non sa, quindi può. Nel mio caso, ricollegandomi a quanto ho detto prima, io so di non sapere. Attenzione, questo è molto importante: non è che non sappia, ma so di non sapere, so fino a che punto non so, e allora posso muovermi con innocenza. C'è gente che finge di sapere, e invece non sa, ed è estremamente pericolosa. Sì, certo, so che esiste un antecedente culturale, però so di non conoscerlo, e allora posso anche andare oltre certe preoccupazioni. Per i registi della mia generazione è molto importante sapere qual'è l'effetto dei nostri film sul pubblico non giapponese, come ad esempio quello cinese, a livello diplomatico, internazionale, ecc. Queste preoccupazioni incidono sul risultato finale. Ma io tutto questo non lo so: semplicemente percorro il mio movimento.
Ma questa ignoranza è ovviamente voluta?
Certo, anche perché se dovessi accettare di sapere, dovrei poi ammettere una serie di condizionamenti, che però non escludo. Ma non sapendo, non so nemmeno in che grado sono condizionato. Sono libero.
Come quello di altri registi attuali giapponesi, come Sogo Ishii o Kiyoshi Kurosawa (e Takeshi Kitano, certo), il suo è un cinema sospeso ed ellittico, che rifiuta spesso la spiegazione, e che non si tira indietro di fronte alla sottrazione di un componente classico di una regola base del far cinema: cioè, se si parla di soggetto-verbo-complemento, voi sottraete uno di questi termini, lasciando gli altri due proseguire.
Ne farei un discorso di produzione. Molti registi lavorano all'interno delle majors, appoggiandosi ad esse, e quindi devono avere in mente un obiettivo: quello di considerare il punto di vista di chi nel futuro vedrà i loro film. Questo comporta dei rischi: slacciarsi dal presente, essere troppo lungimiranti, oppure calcolare troppo determinati legami. Ma non è sempre vero. Adesso in Giappone c'è molto cinema indipendente, molte persone che producono per conto proprio e che potenzialmente godono di una libertà molto più ampia. Kurosawa [Kiyoshi] e Ishii [Sogo] sono di per sè molto particolari. Riescono a creare cose che si slegano... cose molto originali. Io non penso di avere un genio particolare: semplicemente, non mi curo di questo aspetto produttivo. Quello che faccio è a se stante, una scheggia impazzita, un satellite. Ho uno spazio molto più ampio, e il risultato è anche quello della discontinuità.
Il suo modo di fare film è un lavoro di gruppo e d'équipe, o lei ha un ruolo autoritario durante la lavorazione? Perché poi non scrive quasi mai le sceneggiature dei suoi film, affidandole ad altri?
In verità, a parte Blues Harp, da me scritto, sono intervenuto un po' in tutte le altre. Ma è un problema di diritti: mi è toccato chiedere la riscrittura ad altri sceneggiatori. In futuro però ho intenzione di scrivere lo script dei miei film. Magari non di tutti. Ma c'è un'altra serie di problemi. Come quando sei piccolo: la sera fai i compiti, magari scrivi un tema, e ti sembra di averlo scritto al meglio; la mattina dopo lo rileggi, e ti fa schifo. E allora vai in crisi. E ti senti un idiota. Sarebbe ancora più pericoloso se, rileggendolo la mattina dopo, lo trovassi meraviglioso. Quando scrivi una sceneggiatura tua, sei sempre nel rischio che, in un determinato momento, possa non piacerti più. Mentre se tu hai il lavoro di un altro, tu ti avvicini al lavoro di questo in modo addirittura molto più soggettivo di quanto faresti nei confronti di un tuo scritto. Una frase anche semplice possiede mille significati nell'immaginario di chi la legge. Se io ho una sceneggiatura scritta da un altro, magari partendo da una mia idea, però rappresentata dalle parole di un altro, leggendola potrò crearmi una mia immagine. Poi, certo, ascolterò anche le immagini che gli altri della troupe hanno derivato da quelle parole, che andranno ad incidere ovviamente sulla mia immagine. Però il mio lavoro consiste nel proteggere il più possibile la mia immagine, che devo realizzare in qualche modo.
Un lavoro, dunque, tutt'altro che rigido, e molto libero...
Sì. Durante la lavorazione, se io metto un oggetto in un determinato posto e lo riprendo in un determinato modo, so già quale effetto voglio avere. Però non mi limito a questo. Attendo che ogni persona del mio staff mi comunichi quello che a sua volta vorrebbe ricevere da quell'oggetto. Io ascolto tutti: tutti hanno una loro visione. In questo modo l'oggetto prende vita, prima tridimensionalmente, ma poi, successivamente, prende quaranta, cinquanta dimensioni differenti. Diventa totale. Di conseguenza, quando io riprenderò quell'oggetto, so che potrò raggiungere molte più persone di quante avrei potuto se avessi scelto una sola immagine, e dunque un solo pubblico. Questo è molto positivo. Se poi si considera che io soltanto ho un'idea generale del film, e che tutti gli altri collaborano solo momento per momento, è più divertente, perché tocca a me tenere le redini affinché non si esca da un determinato disegno che conosco solo io, anche se permetto che cambi sempre. Da questo punto di vista, io non mi ritengo una figura autoritaria. Prima di tutto, sotto un aspetto egoistico, perché io non mi curo della felicità o infelicità delle persone della troupe: che a loro vada bene o no, non è una preoccupazione contingente. Si tratta soltanto di quello che loro han voglia di mettere: se poi incontrano anche i desideri degli altri, allora va bene. Così facendo, c'è molta più libertà. E poi si tratta di un enorme gioco. Immagina di essere alle giostre, sulla tazza che gira. Sei lì che giri, con gli occhi che ti girano, e prima ancora che ti passi l'effetto di rotazione, provi le montagne russe. Così io mi butto da un film all'altro. Intanto che sei inebriato e non capisci nulla di quello che hai appena fatto, devi subito buttarti nell'altro film. Così mantieni il ritmo.
La relazione uomo-donna di Audition è decisamente terribile. Lei pensa che adesso in Giappone ci sia, anche nei rapporti umani in generale, questo desiderio atroce e avido di possessione?
Normalmente i rapporti tra due individui si sviluppano in una sorta di antagonismo. Succede nella società, regolarmente. Tu parli non tanto per dimostrare il tuo valore, quanto per compiacere la tua immagine nell'altro. Non dai di te quello che tu ritieni valido in te, ma quello che pensi e speri l'altro ritenga valido di te. A me interessa il contrario, cioè chi esprime il proprio desiderio e sentimento, senza il pensiero di entrare nell'altro per ritornare a sè. Tutto questo per arrivare poi al parossismo, che non è da intendere come malattia. Asami [il nome della donna in Audition, n.d.c.] non è da intendere come malata, ma come una persona che vuole dimostrare il suo amore nel modo più puro. E se il modo più puro per manifestarlo può far fuggire l'altro, allora non resta che tagliargli le gambe per impedirglielo. Se per averlo nel proprio mondo, nel proprio grembo bisogna arrivare ad un estremo, allora lo metterà in un sacco, e gli darà da mangiare il proprio vomito, perché abbia qualcosa che parta da lei. Questo può sembrare un sistema che va a chiudersi: ma non si chiude, semplicemente è un attimo di attenzione che il personaggio desidera per sè, perché è il momento in cui deve parlare di sè, deve far capire quello che desidera. Quando rappresento i personaggi nei miei film, immagino che ci sia una gara: non mi interessa il momento di eccitazione della partenza, dove hai un futuro indefinito perché non sai come andrà a finire; e non mi frega niente neanche del punto di arrivo, quando i media ti staranno addosso ma dopo non ci sarà più niente; mi interessa invece quel momento in cui stai per raggiungere il traguardo, lo vedi da lontano, hai una enorme eccitazione, un'eccitazione massima. Mi interessano i personaggi in questo momento, quando i loro rapporti vengono caricati anche da questa eccitazione.
a cura di Pier Maria Bocchi
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