Asiamedia

Favole per adulti - Conversazione con Takashi Miike, Courmayeur 1999

Giappone

Ospite al Festival di Courmayeur del 1999, Takashi Miike parla del suo cinema frenetico e provocatorio, ma anche profondamente morale, caratteristiche chiaramente disinguibili nella scelta dei soggetti, nello stile e nel processo produttivo del regista.

FAVOLE PER ADULTI Conversazione con Takashi Miike, Courmayeur 1999

Miike Takashi - autore di otto lungometraggi in poco meno di cinque anni - è l'ultima scoperta offertaci dal paese del Sol Levante. Dopo essere stato oggetto di un omaggio al Noir in Festival il regista ha convinto anche un pubblico molto più ampio quale quello di Rotterdam. Nonostante una forte prolificità (quasi una regola nella nuova industria orientale), Miike rivela nelle sue opere una precisa estetica e una sicura concezione del cinema. A primo acchito egli può essere considerato come l'outsider di un movimento di rilettura critica delle forme e dei modi che il Giappone sta assumendo. Miike bene rappresenta la freschezza di quella società, che sotto una patina di convenzioni appare in continuo mutamento, di quel mondo, in cui le barriere nazionali e culturali sono sempre più mescolate. Se in Takeshi Kitano (quasi un punto di riferimento per il nuovo cinema giapponese) è la messa in scena ad essere purificata, qui è per lo più il percorso narrativo che - a dispetto di personaggi inverosimili (poliziotti stupratori, bambine ermafrodite, giovani alati...) - recupera dei modelli tradizionali. Ciò che affascina è comunque una proposta di cinema in cui la realtà, anche e soprattutto nelle situazioni più marginali, si offre come un mondo da abitare. Il cinema di Miike, come quello di Takeshi, è un'arte che incide sul reale. Un'arte eminentemente politica, perché intende mettere in discussione o far riflettere su alcune deformazioni che la vita quotidiana ha assunto senza accorgersene. Pur essendo zeppi di riferimenti ai manga o alla science-fiction, i film di Miike non perdono mai di vista il corrispettivo concreto, storico e sociale, proprio di ogni rappresentazione analogica. Significativo di questa concezione tradizionale è il rifiuto della computer graphic espresso nell'incontro di Courmayeur.

Il soggetto, con il suo trattamento paradossale, grottesco (ma mai ironico o sprezzante), è infatti solo il rilevatore di una situazione diffusa. Se li si guarda con attenzione tutti i film di Miike affrontano un problema molto semplice, quello della trasmissione di un sapere. Sia in maniera diretta, vedi il caso citato nell'intervista, sia in modo mediato (la morte, il coito, il duello sono tutte figure di un'incontro). E sulla contrapposizione tra solitudine dell'uomo e solidarietà del gruppo (la gang o la famiglia: spesso nei suoi film si parla di storie di sangue, di fratelli o di padri e figli) si fonda buona parte della visione del regista. Se la base morale del suo cinema è solida e stabile, opposta è invece la scelta dello stile utilizzato. Miike dimostra un talento visivo notevole nell'appropriarsi e nel contaminare generi, tipologie e figure agli antipodi. Neo-noir (Rainy Dog) e commedia, horror e melò (Audition), action-movie e gangters film (trilogia sulle mafie cinesi) testimoniano la natura eclettica del regista. Nel recupero di tutta un'estetica post-moderna (dai montaggi del clip ai raccordi tipici del cinema d'azione di Hong Kong) è possibile riscontrare la volontà di adesione ad un reale le cui forme appaiono sempre più confuse e contrastanti. La contaminazione, spinta all'eccesso, si dimostra uno strumento efficace per dare ragione del reale. I personaggi di Miike sembrano mezzi umani, mezzi robot. Non sentono il dolore, non arrivano a provare piacere (Fudo) o compassione (Audition). I film descrivono però una parabola, in cui l'universo disumano abitato da questi esseri appare in lenta ma costante recessione. A differenza di Tsukamoto (che descrive in termini epici la tragedia dell'uomo moderno), le opere di Miike sanno assumere contorni lirici o melodrammatici. Recuperano una dimensione più intima. Sono le numerose scene in interno (verso cui tendono i suoi film, che non condividono la passione per l'urbanistica di Tsukamoto) o nei paesaggi fuoricittà, oasi dello spirito (dove viene recuperata la lezione del maestro Imamura), a promuovere questa sensazione. Come una lacrima, o la sua possibilità, nel cuore d'acciaio della "giapponese new economy". Quasi una nuova educazione sentimentale.

Ci sembra che nei tuoi film si possano ritrovare elementi di generi diversi, dallo yakuza, al samurai, al cinema occidentale. È come se cercassi di porti fra due culture, fra il passato della tradizione giapponese e la modernità, anche quella di matrice occidentale.
Se faccio riferimento a un genere, non è mai per imitarlo, per rientrarci dentro. La mia è un'imitazione «pura», non ha nessun valore di riferimento o di identificazione. E allo stesso modo non intendo proporre nessun mondo particolare o inaugurare un nuovo genere per il futuro.

In Fudo, la ragazza ermafrodita confessa alla professoressa di avere una crisi di identità. Dice che non sarà mai felice perché non sa scegliere. In Rainy Dog, il bambino può abbracciare il padre solo per un attimo, prima che questi venga ucciso. La felicità, tema ricorrente nei tuoi film, è qualcosa di inarrivabile?
Nessuno può realmente essere felice. La felicità è un sentimento effimero. Essa, in realtà, appartiene solo alla sfera del sogno. La ragazza del film possiede entrambi i sessi: tuttavia se la felicità si ottiene con l'identificazione in un sesso e con la soddisfazione sessuale, nel suo caso anche quel sogno, di identità e di incontro con l'altro, viene meno. Le è precluso anche quel solo attimo di felicità che hanno gli altri. In Rainy Dog, invece, il discorso è molto diverso. L'educazione che il padre impartisce al bambino è il tipo di educazione che vorrei dare ai miei figli. Anche se in un arco di tempo brevissimo, l'uomo insegna al figlio tutto quello che riguarda la vita, compresa la morte. Per lui è molto importante trasmettergli tutti gli elementi che appartengono alla sua esperienza, per quanto discutibile sia: perché il figlio a sua volta diventi molto forte e possa così costruire il proprio futuro. Questa forma di educazione, secondo me, è estremamente importante, soprattutto in un Paese come il Giappone, in cui si tende ad educare i propri figli rendendo loro la vita facile. L'idea della «famiglia felice», dove tutti vanno d'accordo, e il rifiuto deciso con cui il Giappone contemporaneo nasconde ai bambini gli aspetti turpi della vita, quelli che possono turbare la loro felicità, mi sembra sia un modo molto poco proficuo di formare un individuo.

Nel tuo cinema, uno dei temi caratteristici sembra essere quello del rapporto tra le varie culture che convivono in Giappone, o nei paesi limitrofi, come Cina e Taiwan.
Il motivo per cui ci sono pochi registi che si occupano di culture extranipponiche è dato dal fatto che, anche in Giappone, quando si vuole fare un prodotto di successo, si pensa a rappresentare quegli elementi in cui un giapponese possa facilmente identificarsi, per esempio l'uomo e la donna ideali. È molto improbabile che questo accada proponendo personaggi di altre culture, per quanto affini. Quindi la maggior parte delle produzioni cinematografiche restano inquadrate, come ingabbiate in questo sistema. Per quanto mi riguarda, mi è assolutamente naturale parlare di contaminazioni di culture diverse, perché sono nato a Osaka, una città in cui esistono mescolanze molto particolari, di razze e di gerarchie. Ci sono i paria - gli eta - e , al loro interno, ci sono ulteriori forme di divisione sociale: la classe alta e quella bassa. E poi ci sono i coreani, i cinesi... Da bambino, in classe avevo compagni di tutte le provenienze ed estrazioni sociali, per cui per me, oltre che naturale, è diventata un'esigenza fonderle. Inoltre, lavorando come indipendente, posso fare quello che voglio.

Ci sembra che i tuoi film, e quelli di tutta la generazione più giovane del cinema indipendente giapponese, ruotino intorno al concetto di un forte antagonismo. Rispetto al cinema classico giapponese, in cui i personaggi vivevano situazioni tragiche perché non riuscivano a rapportarsi agli schemi sociali vincenti, il tuo propone degli individui completamente sganciati da ogni schema. Questo è evidente in alcune frasi che vengono pronunciate in Audition, dove un ragazzo dice: "Siamo tutti soli" e la ragazza, alla fine del film, afferma: "L'unico modo di comunicare è attraverso il dolore". Sembra che nella tua visione della società giapponese non ci sia più fiducia nelle parole o nella capacità dello Stato di garantire gli individui.
Ciascuno di noi subisce delle influenze dalla società, che ci piaccia o meno. Io ne prendo atto e le ripropongo realisticamente nei miei film. Ognuno di noi vive il suo percorso all'interno di questo mondo e io non devo compiacere assolutamente nessuno, tanto più che ci sarebbe troppa gente diversa da compiacere e sarebbe difficile farlo. Quello che mi interessa invece è parlare con i miei attori, a grandi linee, del progetto che intendo affrontare; e, possibilmente, scioccarli, per poi riprenderli nel momento in cui reagiscono, senza che io abbia spiegato loro cosa debbano fare o come muoversi. Così facendo, succede spesso che qualcuno di loro prenda una strada completamente diversa da quella che avevo preparato. Allora io lo seguo. Forse si perderà e allora io ritornerò sui miei passi. Importante è comunque la spinta che l'attore ha fatto prendere al film. In questo modo tutti i rapporti e le influenze della società si stemperano, non si sentono più, diventano solo un effetto, ognuno diverso dall'altro, su ciascuno di noi.

Nei tuoi film sembri costeggiare il modello di una piccola comunità alternativa rispetto a quella tradizionale. In Nihon kuroshakai - Ley Lines i due fratelli che vengono dal paese, il loro amico e la prostituta sembrano formare una comunità in cui i rapporti sessuali non hanno importanza. In Nihon kuroshakai - Rainy Dog l'uomo, la donna e il bambino, provenienti da realtà completamente diverse, si ritrovano e formano una comunità. Per te il cinema ha anche la funzione di proporre dei modelli alternativi, che magari non sono attuabili e che fanno parte del sogno, ma che comunque fanno venire voglia di realizzarli?
Certo, uno dei miei temi ricorrenti è l'idea della famiglia. Non ne ricerco però una rappresentazione realistica, perché credo che essa sarebbe poco efficace nel rapporto che intendo instaurare con lo spettatore. Solo mostrando un'alternativa al modello reale - ad esempio la fuga di un gruppo che si allontana dalla società per formare un altro tipo di unione - lo spettatore può sentire sulla sua pelle il contrasto con la situazione che sta vivendo in quel momento. Assistendo ad un'ipotesi alternativa al proprio modo di vivere, lo spettatore deve elaborare dei meccanismi di ricezione più forti, perché non ritorna ad essere il soggetto passivo, osservatore di qualcosa che conosce alla perfezione. Non credo che il mio cinema voglia promuovere qualcosa di nuovo: semmai vuole mostrare differenti aspetti del reale. I miei film trattano di avvenimenti che accadono, anche se non vengono percepiti da tutti nella stessa maniera. È forse un modo per dimostrare che la realtà ha forme diverse rispetto a quelle che le attribuiamo tutti i giorni.

Audition sembra adottare una regia differente rispetto ai film precedenti. C'è una costruzione diversa, anche a livello di inquadrature, e una scrittura più frenata, più controllata, meno istintiva.
L'impronta registica non è cambiata assolutamente. Naturalmente, può sembrare più istintiva in alcuni film, come Rainy Dog per esempio, perché in quel caso al metodo tradizionale si sovrapponeva il problema della comunicazione linguistica con l'operatore, che era cinese. E quindi molte scene sono state realizzate in una situazione abbastanza atipica. Nel caso di Audition la differenza può dipendere dal fatto che, trattandosi dell'adattamento di un romanzo di uno scrittore che apprezzo molto (di Murakami, ndr), ero un po' frenato in quello che facevo. Sentivo di non dover trasgredire troppo quanto fissato dal libro. Il film, effettivamente, è la trasposizione fedele del romanzo, tanto che l'autore ne è rimasto estremamente soddisfatto.

Tuttavia Audition è un film di spazi chiusi, mentre negli altri film gli esterni sono molto importanti...
In effetti, rispetto a tutti gli altri film, è quello che più utilizza scene di interni. In teoria avrei dovuto ricostruire tutte le scene sul set, ma mi sono rifiutato di farlo, perché avevo paura che il set originasse solo artificialità. Quindi ho preferito utilizzare delle vere case, muovendomi in ambienti in cui ho ricreato le luci e tutto il resto. Tutto questo dipende anche dal fatto che volevo fare un horror particolare. In Giappone, in questo momento, si assiste ad un'esplosione dei film horror: per questo mi è stato chiesto di girarne uno. Tuttavia io non volevo fare proprio quello che mi era stato chiesto e che è quello che fanno tutti. Più che fare un horror, volevo realizzare un film che provocasse fastidio, disgusto più che paura. Se in questo momento non ci fosse stato il boom dell'horror, probabilmente ne avrei fatto uno molto classico!

Il tuo cinema ha un rapporto privilegiato con la città, ma, ogni volta che la scena si sposta fuori da essa, sembra che il respiro si apra. Cosa rappresenta per te la campagna, nel meccanismo narrativo in cui è situata?
Sia che si tratti di città o di campagna, quando mi muovo in cerca di luoghi lo faccio solo seguendo l'istinto. Quando arrivo in un posto che mi piace, decido di filmare senza alcun altro motivo e senza soffermarmi a ragionare sul perché. Può capitare a volte - soprattutto in luoghi come la Cina - che gli spazi aperti confondano i limiti delle cose che vedo. In città gli spazi hanno dei contorni molto precisi; e all'interno di quelli o un oggetto è bello oppure viene annullato, sparisce nel cemento, tra le altre strutture. In campagna, invece, dove hai uno spazio amplissimo, trovi un unico oggetto e sembra di una bellezza enorme. Una cuccia da cani abbandonata, per esempio, con una scritta incerta fatta da un bambino, semicancellata dalla pioggia. Cos'è un oggetto del genere? Potenzialmente, nulla. Però, se lo vedi in un ambiente naturale, diventa un oggetto straordinario. Questo può essere il motivo per cui le scene di campagna hanno un respiro più ampio. Del resto il mio operatore abituale, Yamamoto Hideo (che ha lavorato anche in Hana-bi), di solito non vuole le scene troppo belle, perché se un'inquadratura è troppo bella si può pensare che ci sia un precondizionamento dell'immagine sulla scelta di riprenderla. Come se il quadro precedesse e sostituisse l'inquadratura. D'altra parte io stesso mi rifiuto di pensare al luogo come se fosse dotato di una sua valenza latente: così perderebbe proprio quella componente di istinto a cui tengo tanto.

In Chugoku no chojin ci sono due immagini costruite al computer, quella della zattera con le tartarughe e quella finale con le persone in cielo. Quella finale è giustificabile. Quella della zattera era necessaria?
In Giappone tutti usano la computer grafic, tanto che ormai è quasi un obbligo. Io ritengo che dare un tocco troppo artificioso ad un film significhi distruggere il concetto del film stesso. Se un film, a un certo punto, ha bisogno di qualcosa di incredibile, evidentemente ha perso il suo potere. Non è più dotato di forza propria, visto che deve ricorrere ad interventi dell'esterno per sopperire alle sue carenze. In questo caso, l'intervento della computer graphic è motivato dal racconto originale da cui sono partito (e che, a differenza di Audition, è stato molto rimaneggiato). Nel racconto - il cui titolo è Gli uomini uccello - fin dall'inizio i personaggi della comunità fantastica volavano veramente. Tutti quindi si sarebbero aspettati l'impiego della computer graphic nel mostrare un uomo che corre, si stacca dal suolo e prende il volo. Invece io non ho voluto inserire la computer graphic, per rendere credibile l'incredibile. Essa è stata rifiutata di proposito nelle scene di volo, per poi essere impiegata nella sequenza delle tartarughe, in cui il dato surreale è evidente. Non credo infatti al trucco come mezzo per avvalorare un'impressione di realtà che non esiste. D'altronde solo Superman vola!

I tuoi film sono molto ricchi in termini di immagine. Al netto rifiuto dell'estetismo, sostituisci una grandissima sensibilità. Quando un oggetto campeggia sullo schermo, esso appartiene ad un mondo della tradizione o della natura, come la luna che spesso ritorna nei tuoi film. D'altra parte il computer spesso entra in scena in situazioni sgradevoli o con personaggi spregevoli. Sembra quasi ci sia un rifiuto della tecnologia ed un ritorno alla tradizione.
Nel cinema del passato, la grande forza motrice era quella relativa ai problemi riguardanti la comunicazione. Due persone devono incontrarsi, ma sorge un inconveniente. Così, uno dei due non riesce ad arrivare in tempo all'appuntamento. Oppure: un personaggio dimentica una cosa importantissima in un posto, ma non è più in grado di andarla a prendere. O ancora: un uomo deve comunicare una cosa a qualcuno all'ultimo momento, una cosa che è vitale per salvare una situazione, ma non fa in tempo... Tutti i film una volta venivano costruiti a partire da questa situazione. Adesso tutti hanno il cellulare: se hai un problema, chiami; e subito l'hai risolto. La comunicazione, che era il fulcro del cinema del passato, adesso non ha più quel potere drammatico che aveva. Ora si verifica la situazione opposta: si comunica troppo, anche oltre il necessario. Ciò che manca nella società contemporanea è l'attesa, il bisogno di sentirsi mancare la terra sotto i piedi, per poi essere salvato all'ultimo istante.

A proposito di tecnologia, che tipo di software usi per montare i tuoi film? Ti comporti come Kitano, che monta mentre gira? Così, se la scena non gli è venuta bene, ha ancora la location pronta, la rigira e la rimonta?
Per montare sto usando l'Avid e d'ora in poi andrò avanti con questo. Per quanto riguarda il sistema di Kitano, quando mi riesce, lo adotto anch'io; ma dipende dall'impegno, dalla velocità. Kitano conclude già in fase di ripresa il lavoro al 100%. Quindi, prima di procedere alla scena successiva, deve avere davvero il materiale perfettamente montato e composto. Per fare questo bisogna avere la pellicola impressionata già disponibile: io non me la sento di farlo, di seguire questi tempi. Ho bisogno di un ritmo diverso. Di solito do un'occhiata ai giornalieri e mi faccio un'idea precisa di quello che voglio farne; ma non arrivo a fare come Kitano.

A proposito di tecniche di ripresa, tu fai un uso molto preciso della macchina da presa.
Tutti i miei film sono girati in 16mm, perché per me è importante usufruire della leggerezza della macchina da presa e potermi muovere facilmente. Il mio cinema è fatto di molti contrasti, quello tra luce e ombra, tra città e campagna, tra uomo e donna. Anche se avessi l'opportunità di girare in 35mm, probabilmente continuerei a scegliere il 16mm: per avere questa libertà di movimento, per fluttuare. Tutti gli altri effetti li rendo di solito con la luce, utilizzando anche delle lenti particolari, piuttosto che con il movimento della macchina. Una situazione un po' differente accade invece nei miei «original video» (film in video, che non passano nelle sale o in tv e si noleggiano nei negozi di videocassette, ndt). In quel caso adotto il DV, che ha una leggerezza e una maneggevolezza ancora maggiore. Credo però che sia ancora prematuro pensare di utilizzarlo sistematicamente nel mio cinema.

Che rapporti detieni con il cinema della crudeltà, così come è stato praticato da Imamura? Ci sembra che voi abbiate più di un punto in comune, anche se Imamura è ancora un cineasta di transizione dalla classicità alla modernità, mentre tu sei completamente nella modernità.
Sono stato aiuto-regista di Imamura. Sicuramente il suo modo di lavorare - che consiste nel prendere in giro chi ti sta intorno e nel non far capire mai cosa stai facendo - mi ha influenzato moltissimo. Ma il concetto di criminalità, di male, trattato da Imamura appartiene ad un altro periodo e non posso pensare di riproporlo ai miei giorni. L'altra grande differenza riguarda i personaggi. Imamura non distingue tra uomo buono e uomo cattivo, ma tra uomo cattivo e uomo normale. Tutti i suoi personaggi si muovono sulla base di un'ambientazione molto reale, che arriva a mescolare un po' le carte in gioco. Così l'uomo normale, che vive in mezzo agli uomini cattivi, può tranquillamente essere preso per un uomo cattivo anche lui. Nel mio cinema, invece, le demarcazioni sono più evidenti, violente, e non esiste una documentazione realistica così marcata. I miei film sono come delle favole per adulti. Il cinema di Imamura invece ha una concretezza e una presenza del dato fisico ben definiti; tanto che, quando Imamura vede i miei film, dice: "Mah, non capisco bene...".

Il tuo cinema è dotato di un'ampia visionarietà e di una grande libertà di movimento: qual è il suo punto di partenza? Da cosa trai lo stimolo per lavorare ad un nuovo film?
In generale esistono due pratiche differenti. La prima consiste nel selezionare quanto c'è in giro in quel momento: i temi ricorrenti al cinema, in tv, o anche gli argomenti più trattati. Quando li ho ben presenti davanti a me, li scarto tutti e prendo quello che non è stato ancora trattato. Insomma, vado in cerca di un soggetto originale. Può essere di tipo sociale o di altro genere - non è questo un presupposto necessario per la scelta: l'importante è che sia originale in rapporto alla tendenza del momento. Il secondo metodo, invece, comporta la presenza di qualcuno - che mi conosce bene e che sa cosa posso e non posso fare - che mi propone un'idea o un soggetto. Questo, ovviamente, subirà un processo di epurazione e di rielaborazione da parte mia. Tuttavia cerco sempre di non tradire il soggetto originale, pur creandogli intorno una struttura che, poco alla volta, lo renda riconoscibile come un mio lavoro.

Può capitare che certi temi, che in quel momento non sono di moda, finiscano per rivelare delle corrispondenze con ciò che accade nel mondo, in quel momento. Ad esempio, quello che dice la ragazza in Audition, che l'unico modo per comunicare è il dolore, è lo stesso concetto che sta alla base di Fight Club di Fincher.
I temi che tratto sono sempre temi universali, si ripetono, appartengono a ogni generazione: cambia solo il modo di esprimerli. Esprimere il dolore, per esempio, è stata un'esigenza di ogni generazione di registi. È una cosa necessaria. Il mio prossimo film sarà in costume, ma per me il passato è un concetto relativo. Le lotte con la spada dei film classici giapponesi ripropongono lo stesso tipo di conflitto umano che troviamo oggi, nel cinema contemporaneo giapponese. Per questo dico che i miei film sono favole per adulti, perché essi hanno sempre una valenza universale. Il cinema di Imamura, invece, è un cinema molto legato al Paese, alla cultura giapponese.

Nei tuoi film c'è spesso il riferimento ai ricordi, alla memoria da preservare, servendosi anche della tecnologia...
La memoria è la parte più importante della nostra esistenza: nasciamo puri e, gradualmente, ci giungono delle informazioni. In base a queste informazioni e alla capacità di discernere tra esse, la nostra vita prenderà una strada o un'altra. Dobbiamo cercare di proteggere la nostra memoria, perché essa è anche il nostro legame con la storia. È quello che ci lega agli altri, è il fulcro dell'uomo, come animale sociale. Il corpo deperisce: in vecchiaia tutto diventa effimero, dal corpo alle cose che ci stanno intorno. L'unico elemento che rimane è la memoria, i ricordi che si hanno delle cose. Anche per questo mi interessano i bambini. Mi piace osservarli mentre il mondo intorno plasma il loro bagaglio mnemonico. Io ho tre figli e sono molto preoccupato dagli effetti che si possono provocare nella loro mente, dall'educazione che un domani li porterà a essere un uomo piuttosto che un altro. Allo stesso modo mi interesso molto ai videogames, perché penso spesso che da questi, e non più dai fumetti, nasceranno i registi di domani. Ma la memoria resta l'unica cosa importante, da proteggere, anche in tempi come i nostri, che corrono così velocemente.

Il futuro di registi che traggono ispirazione dai videogames vuol dire escludere definitivamente un ritorno possibile ad un cinema classico, ad una sorta di neoumanesimo?
No, esattamente il contrario. Da una parte si andrà avanti sotto una fortissima influenza dei videogames. E magari nascerà ancora qualcos'altro, un'arte che astrarrà ancora di più dalla realtà. Ma tutto questo sarà circoscritto allo spazio di un genere filmico. Dall'altra si svilupperanno delle tendenze che si opporranno a questo e che riporteranno circolarmente al percorso iniziale. È un'esigenza. Accadrà necessariamente e naturalmente.

a cura di Luciano Barisone, Carlo Chatrian e Joseph Péaquin