Regista capace di spaziare dall'horror al dramma, dall'erotico all'action, e poi ancora alla commedia, apparentemente senza logica preferenziale, Kurosawa Kiyoshi firma opere che rappresentano spesso delle pietre miliari per gli ambiti nei quali si inseriscono. Accanto a questa frenetica attività, l'insegnamento in una scuola di cinema e l'impegno come critico e saggista concorrono a definire quello che sembra essere il suo unico obiettivo: l'inquieta ricerca del senso stesso del cinema.
L'IDENTITÀ IN FRANTUMI Conversazione con Kurosawa Kiyoshi
Dopo quasi vent'anni di produzione intensa, con una filmografia che ha toccato il tetto dei venti titoli, nel giro di un solo quadriennio il giovane regista Kurosawa Kiyoshi ha raggiunto la sospirata consacrazione internazionale. Cure (1997, Rotterdam), Licenza di vivere (1998, Berlino), Charisma (1999, Cannes), La vana illusione (1999, Venezia), Korei (2000, Locarno e Rotterdam) i titoli presentati in occidente. Un recente omaggio organizzato dall'Istituto Giapponese di Cultura in Roma tra febbraio e marzo, in seguito proposto dalla Japan Foundation a Vienna e, in programma dai primi di giugno, dalla Cineteca di Bologna, ha permesso di considerarne l'opera per la sua poliedricità, offrendo un panorama abbastanza soddisfacente della varietà dei generi in cui si è cimentato. Horror, dramma, erotico, action, commedia: apparentemente senza logica preferenziale, con un carnet di produzione intensissimo, al ritmo di tre-quattro l'anno, i suoi titoli rappresentano spesso delle pietre miliari per gli ambiti nei quali si inseriscono. Tra le altre attività di questo instancabile cineasta, l'insegnamento in una scuola di cinema e l'impegno come critico e saggista concorrono a definire quello che sembra essere il suo unico obiettivo: l'inquieta ricerca del senso stesso del cinema.
Come nel caso di un'altra recente scoperta, il regista Miike Takashi, gran parte della produzione di Kurosawa avviene nell'ambito dei cosiddetti original video (in giapponese: Vcinema), il sistema nato agli inizi degli anni novanta che catapulta un film nel mare della distribuzione in video senza spesso alcuna uscita nelle sale. Un metodo che nasconde tra le maglie dell'apparente circoscrizione a pochi cliché una fondamentale libertà creativa, svincolata da molte logiche commerciali, con un'energia pari solo a quella della produzione erotica giapponese degli anni sessanta e settanta. Come nel caso di Miike, inoltre, gran parte del cinema di Kurosawa è rivolta alle sfumature d'ombra, alle identità smembrate, all'imprevisto dramma nel prevedibile corso dell'esistenza, alle certezze che crollano. Ambientato sempre in un Giappone contemporaneo, senza voler distinguere tra miti ancestrali e contaminazioni occidentali, Kurosawa aggredisce spesso la memoria per parafrasare l'identità dei suoi personaggi e l'incapacità di autodefinirsi, utilizzando lunghi stati di amnesie o di coma, frammentando la logica narrativa e caricando le scene di apparenti nonsensi. Il sovrannaturale, spesso evocativo dell'irrazionale flusso di esistenza, si inserisce nella vita di questi uomini con una naturalezza spiazzante, comportando effetti orrorifici di intensa emozione. Lo sguardo di Kurosawa curiosa spesso in un mondo "organico" e in perenne mutamento che traduce in immagini l'essenza del subconscio: una natura onnivora e crudele, ripresa nella sua inquietante ampiezza, contrastata a tratti dai piani ravvicinati sugli uomini. L'architettura urbana, al contrario, è claustrofobica, organizzata in pareti che si sovrappongono ad altre superfici, la stessa struttura di uno stato ipnotico di solitudine dal quale non si profili via d'uscita.
Di questa particolare idea di cinema abbiamo discusso con il regista a Roma nel corso della rassegna che gli è stata dedicata.
Dagli studi sul cinema americano ed europeo all'insegnamento di cinema: è fondamentale l'approccio teorico al mezzo filmico?
In effetti la mia stessa formazione è avvenuta grazie alle prime esperienze nell'ambito dell'8mm, oltre che attraverso una serie di studi sul cinema americano ed europeo. Ma la scuola in cui ora insegno punta più su un certo cinema amatoriale, non intende forgiare dei professionisti, quindi per i miei studenti io sono soprattutto un regista, non un teorico, che poi è l'aspetto più divertente nel nostro rapporto.
I tuoi studenti hanno collaborato alla realizzazione di La vana illusione (Oinaru gen'ei), il film presentato a Venezia due anni fa. Come è avvenuta questa collaborazione?
I giovani hanno l'incredibile capacità di creare immagini sublimi per film dalla durata minima, diciamo tra i cinque e i dieci minuti, ma si perdono poi sui lungometraggi. Nel caso di questo film, hanno collaborato in ogni fase della lavorazione, a esclusione della sceneggiatura. L'aspetto più divertente è stato quando, nel corso della ricerca delle location, ho chiesto loro di trovare dei luoghi ideali per questa storia ambientata in un ipotetico anno 2003. Ciascuno di loro ha interpretato il futuro prossimo in modo differente: chi ha scelto la propria casa, chi un posto che frequenta spesso... il futuro nelle mani dei giovani è un concetto davvero relativo.
I tuoi primi passi nell'ambiente registico sono avvenuti al fianco di Itami (...) , autore conosciuto in Italia soprattutto per il film Tanpopo. In molte delle tue commedie si avverte anche un analogo timbro caustico.
La collaborazione con Itami è cominciata con il mio primo film, Sweet Home, nel quale compariva come interprete e ne era allo stesso tempo produttore. Quando ci si incontrava, noi due discutevamo spesso su quale fosse la tipologia cinematografica ideale, non legata a logiche commerciali ma in funzione di un divertissement dell'autore. Purtroppo, dovrei dire, una volta passato dietro la macchina da presa, Itami ha avuto molto successo. Dico purtroppo perché da quel momento ha sempre più abbandonato l'iniziale gusto ludico prendendo molto sul serio le esigenze del mercato filmico. Non solo ci siamo persi di vista, dal momento che i nostri obiettivi erano ormai differenti, ma quando il pubblico non l'ha più premiato Itami non ha visto altra soluzione che il suicidio.
Dall'appello lanciato da Tarantino, si fa un gran discutere sulla necessità di rivalutare la produzione dei cosiddetti B-movie. Proprio come B-movie, poi, è stato presentato il tuo film Korei a Locarno lo scorso anno.
Intanto bisognerebbe definire cosa sia un B-movie. Se significa un film di genere, spesso costruito intorno a un determinato attore, magari della durata approssimativa di ottanta-novanta minuti, allora non solo i miei film, ma gran parte del cinema giapponese è costituito da B-movie. Al di là di queste caratteristiche, però, non si esclude che possa risultarne un prodotto d'arte, anzi: rispettando solo alcune convenzioni, quindi l'inserimento di un dato numero di scene di genere (action, erotiche, e così via) e la presenza ricorrente della star, per il resto si gode di una totale libertà creativa.
A proposito di generi, dall'inizio della tua carriera ne hai esplorati davvero tanti, dall'horror all'erotico, inclusi action e commedia. Una continua sperimentazione?
Sì, il mio cinema è estremamente vario, ma conserva un'unica costante. Ogni film, per me, rappresenta un tentativo di comprendere in cosa consista il cinema stesso, una "curiosità" che ho ereditato da Godard, uno degli autori da cui più mi sento influenzato. Idealmente, lavoro sull'arco di una circonferenza che congiunge vari generi cinematografici. Passo così da uno all'altro senza soffermarmi mai due volte di seguito sullo stesso.
Tra i tanti ambiti, il tuo nome si lega soprattutto all'horror, un genere di grande fortuna in questi ultimi anni per il tuo paese.
È vero che attualmente il cinema horror giapponese è all'apice del suo splendore, e posso dire di essere tra quelli che hanno contribuito alla sua rinascita. Dieci anni fa, io e un mio amico, lo stesso che ha sceneggiato il film Ring, discutevamo su come poter dare un taglio nuovo alle strategie orrorifiche. Ne abbiamo dedotto che fosse soprattuttonecessario variare gli ambienti, tralasciare quelli direttamente evocativi – cimiteri, castelli – per trasferire la paura in luoghi normali: il centro di Tōkyō, magari la tua casa o quella del vicino. Allo stesso modo, non era più necessario ricorrere ad aberrazioni, fantasmi o mostri che fossero, ma sarebbe stato più di effetto far sì che una persona normale d'improvviso fosse capace di un gesto atroce. Questo gesto, poi, deve avvenire senza alcun preavviso, nessun segno di crescendo disseminato per creare suspence, ma capitare in un momento qualunque di una qualunque giornata. È nato così questo nuovo modo di concepire l'horror, e oggi siamo in cinque, tra registi e sceneggiatori, a riproporlo in Giappone.
Nonostante la giovane età, la tua filmografia conta oggi una ventina di titoli. Come riesci a realizzare così tante opere nonostante la generale crisi dell'industria cinematografica giapponese?
Il segreto sta nel non rifiutare mai nessuna proposta e nel non superare mai il budget iniziale. Io non ho bisogno di grandi capitali per ciò che voglio fare, e allo stesso tempo posso accettare di girare qualsiasi cosa perché so di disporre di una relativa libertà, di poter rendere personale ogni mia esperienza.
Tornando alla varietà di generi, qualsiasi stereotipo viene raggirato e si ripetono alcune tue personali note di stile e tematiche. Sui personaggi, per esempio, posti d'improvviso di fronte a un determinato dramma e costretti quindi a mettere in discussione la propria identità.
Nei film americani l'eroe persegue un dato fine con tutte le sue forze a partire da un certo dramma iniziale: quando l'avrà raggiunto, nel finale, caratterialmente lui sarà immutato. I miei personaggi, invece, sono reali, umani, quindi mutano più volte nell'arco della storia. Le esperienze, i piccoli e grandi drammi dell'esistenza, l'incontro con altri personaggi, tutto comporta dei mutamenti.
Due temi costanti non solo nel tuo cinema, ma anche in quello di altri giovani registi giapponesi, riguardano la disgregazione della famiglia e l'idea della morte. Perché si è reso così necessario parlarne?
Della famiglia se ne parla di sicuro di più perché finalmente oggi ha un valore differente rispetto al passato. Fino a qualche anno fa, il punto di riferimento per l'uomo medio giapponese era il gruppo, per esempio la ditta o il clan malavitoso. Oggi quel gruppo non conta più, l'interesse si è spostato verso la famiglia. Quando questa va a rotoli, quindi, si crea un vero dramma. La morte, invece, per noi giapponesi è un'idea sempre meno tangibile, quasi non fosse un momento stesso dell'esistenza, tutti convinti ormai di essere invulnerabili. Ma d'improvviso ti capita di sapere che un amico, un parente, un vicino non c'è più, e inevitabilmente anche questo crea un dramma. Bisogna dar corpo alla morte e farla apparire per quello che è, reale, possibile, normale.
Come mai allora il continuo ricorso al sovrannaturale?
Perché non sono sicuro che certe cose esistano, ma non posso sostenere neanche il contrario. È come per la morte: chi può sapere cosa c'è dopo? Se incontrassi uno spettro, la prima cosa che gli chiederei è proprio cosa c'è dopo la morte. Non pretendo di dare delle risposte, mi limito a proporre delle eventualità, accettando parzialmente l'ipotesi che siano vere.
La linearità e la plausibilità narrativa sembrano passare in secondo piano nei tuoi film. Molte situazioni si accavallano o vengono presentate con uguale importanza offrendo un insieme caleidoscopico del dramma, attraverso una sottrazione di logica.
Come dicevo, a me interessa ritrarre la realtà, e per farlo utilizzo il cinema nella sua principale funzione, quella di narratore a metà strada tra fiction e documentario, così come faceva Rossellini. Se l'obiettivo è ritrarre fedelmente la realtà, quale linearità plausibile esiste nella nostra vita quotidiana? Non è invece vero che le nostre giornate sono composte da frammenti di situazioni diverse che a volte si sovrappongono, a volte si succedono senza logica?
Dedichi sempre grande cura alla composizione delle scene. In particolare, ricorre l'utilizzo di piani (porte, pareti) frapposti tra la macchina da presa e i personaggi, a volte con un effetto di enfasi di tipo teatrale sui protagonisti, a volte invece con la sensazione di schiacciarli, di disturbo. Quale funzione hanno?
Vorrei che il limite fisico dello schermo e quello della profondità segnalata da pareti sovrapposte suggerissero l'esistenza del mondo che esiste al di fuori di quanto è visibile in una scena. Solo attraverso un netto contrasto con l'esterno, quindi con una specie di cornice, è possibile far sentire che al di fuori c'è un universo animato.
Il commento musicale nei tuoi ultimi film si è ridotto sempre più, mentre aumenta la ricerca di effetti sonori differenti, spesso in funzione di disturbo.
Sì, certo, nei miei primi film il commento musicale era predominante. Trattandosi di film di genere, del resto, cercavo di abbinarlo ai contenuti senza creare attriti: a una scena horror doveva corrispondere un timbro da suspence, a una d'amore una determinata melodia e via dicendo. Però a un certo punto ho deciso di liberarmi da questa dipendenza, di farne a meno. Ho pensato che l'inserimento di differenti effetti sonori, così come nel caso del particolare tipo di inquadratura, poteva servire a far percepire la presenza di un mondo esterno rispetto a quello rappresentato. Infatti si tratta quasi sempre di rumori che provengono da uno spazio off, per esempio la stanza accanto o la strada sottostante.
Maria Roberta Novielli
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