Da zui xia (Come Drink With Me, King Hu) e Huxia jianchou (Tiger Boy, Zhang Che) inaugurano la stagione d'oro dei wuxiapian, film in Cinemascope di arti marziali in costume girati in mandarino.
L'EPOCA D'ORO DEL WUXIAPIAN
Il wuxiapian, ovvero il film di combattimenti cavallereschi (definito talvolta film di cappa e spada oltre che film marziali di cavalieri erranti) è uno dei generi forti di Hong Kong. Il periodo di maggior popolarità è il decennio che va da metà degli anni sessanta alla metà degli anni settanta. Il genere diviene obbligato per tutti i registi; i fastosi décor ricreati all'interno degli studi Shaw sono il marchio di fabbrica e il segno distintivo di un universo indipendente, un firmamento che parla mandarino e che esalta in un limbo nostalgico la patria perduta e sviluppa l'idea mitica della Cina, veicolando un nazionalismo forte, spettacolare e astratto.
Tuttavia, il wuxiapian, pur essendo tipicamente cinese, raccoglie al suo interno influenze maggiori provenienti da tutto il mondo: è un luogo di fantasia spesso indifferente alla verosimiglianza storica, dove però permane il concetto di eroe che contamina anche generi estranei, come i moderni gangster movie. Le storie di cavalieri erranti sono ricorrenti nel cinema hongkonghese: avevano già raggiunto una notevole fortuna negli anni cinquanta con produzioni cantonesi povere di mezzi ma ricche di suggestioni. A metà degli anni sessanta, il genere viene rilanciato. A capo di questa impresa è il leggendario produttore Run Run Shaw. La sua casa, la celeberrima Shaw Brothers (il cui logo, l'acronimo su uno scudo dorato, scimmiotta quello della Warner Bros), fondata nel 1957, si è fatta un nome producendo melodrammi in mandarino. L'impresa titanica per cui è celebre è la costruzione degli imponenti Shaw Studio (altresì chiamati Movieland): un'intera cittadina cinese tradizionale è ricostruita ai piedi di una collina, e funge da location per centinaia di produzioni. L'immenso sito ospita anche magazzini di costumi, una scuola di recitazione e di addestramenti marziali, nonché laboratori per lo sviluppo e il montaggio dei film.
Il crogiolo genetico da cui nasce la leggenda dei wuxiapian hongkonghesi è ricco e brulicante: vi si muove, in primis, tutto il cinema degli albori in Cina continentale, che dagli iniziali vagiti già raccontava storie di cavalieri erranti dotati di magici poteri come la saga iniziata da Burning of the Red Lotus Monastry (1928), tratta da un romanzo coevo di Kang Xiran, che a sua volta traeva spunto dalla sterminata letteratura cinese. Da qui vengono, anche se non già completamente strutturate, le influenze che mescolano i temi dei cavalieri erranti votati ad un rigido codice d'onore, gli elementi fantastici (dai chuanqi d'epoca Tang 618-907), la narrazione episodica intrisa di riflessioni religiose e filosofiche (dagli huaben, raccolte per i contastorie itineranti d'epoca Song 960-1127), e infine i romanzi dell'ultima dinastia (Qing 1644-1911).
Buona parte dei wuxiapian degli anni sessanta sono tratti però dai contemporanei romanzi di Jin Yong e Gu Long: entrambi prolifici autori, amatissimi da un pubblico di tutte le età, sono produttori infaticabili di storie, personaggi e avventure, creati plagiando disinvoltamente le leggende tradizionali alle quali si fa riferimento come bacino di suggestioni cui attingere senza alcun obbligo di fedeltà. L'universo che nasce da queste contaminazioni è quello di una Cina mitica, irreale e atemporale, densa però di valori, schemi comportamentali e nozioni estetiche irriducibili a qualsiasi influenza straniera.
Un'importante influenza viene dal cinema giapponese di samurai, che all'epoca riscuoteva enorme successo presso il pubblico hongkonghese: il chanbara (film di spadaccini, il termine deriva dall'onomatopea del rumore delle lame che cozzano) produce in quegli anni i suoi capolavori, a cominciare dalla saga del samurai cieco Zatō Ichi, e le opere di Kurosawa Akira (come il seminale Yōjimbo, 1961) o di Katō Tai. Alcuni storici (tra i quali David Bordwell) identificano nella tradizione giapponese la fonte di alcune figure di stile che verranno poi, con la consueta sfacciataggine e destrezza, ricalcate dai registi hongkonghesi: la carrellata che segue il guerriero intento a massacrare gli avversari a grappoli, ovvero il confronto che oppone il cavaliere solitario a una massa incalcolabile di avversari, e infine il fiotto di sangue che schizza espressionista dalle ferite aperte (inventato da Kurosawa).
Quando Run Run Shaw decide di rinnovare la tradizione del wuxiapian, ha naturalmente presente l'onda di film prodotti negli anni cinquanta, in cantonese e in bianco e nero. La saga più rappresentativa, il cui inizio risale al 1949, è quella dedicata a Huang Feihong, celebre medico-eroe-confuciano esperto d'arti marziali. Armati d'una macchina produttivo-distributiva mutuata dal modello americano, gli Shaw decidono di miscelare questi ingredienti (senza dimenticare influenze indirette ma pur sempre contagiose quali quelle degli spaghetti western italiani e la saga spionistica-feticista di James Bond) producendo Come Drink With Me (Da zui xia) diretto da King Hu (1932-1997). È il 1965.
Come Drink With Me è il film archetipo per eccellenza. Girato a colori in una variante del cinemascope (il mitico Shawscope) per la maggior parte all'interno dei fastosi studi Shaw, segna l'inizio della rinascita del wuxiapian, e lancia una star, la bella Cheng Pei-pei, splendida eroina esperta d'arti marziali. L'impavida Golden Swallow (Rondine d'oro, così il nome della giovane) si batte contro un pericoloso bandito aiutata da un eroe ubriaco, che incarna l'eroe folle, sradicato dalla società, che vive ai limiti della legalità perseguendo però con tenacia un ideale di purezza e onore. La donna appare per la prima volta in una scena da antologia. È vestita da uomo e nessuno la riconosce: la confusione dei sessi è parallela a quella dei generi, la definizione dei sessi è malleabile come lo sono i corpi degli eroi (Tsui Hark, nella sua rivisitazione degli eroi di King Hu, creerà un personaggio che cambia sesso nel corso del film –la saga di Swordsman). La si vede per la prima volta all'interno di un albergo, luogo simbolo cardine di tutta la cinematografia di King Hu: l'albergo è il non-luogo dove si incrociano banditi e guerrieri, dove si delineano le linee di forza dei loro rapporti, dove si compiono tradimenti e stringono alleanze. È qui che si beve, il che da modo al compagno ubriacone di riempirsi lo stomaco e pugnare senza freni: è una figura questa che sarà ripresa innumerevoli volte, da Liu Jialiang (Shaolin Challenges Ninjia, 1978) a Jackie Chan (Drunken Master/Zui chuan, 1978, regia: Yuan Woo-ping).
Tanto i buoni quanto i cattivi dispongono di poteri quasi magici, i loro corpi possono sfidare la gravità in salti spettacolari che sfidano ogni legge della fisica. Qui si trova una basilare differenza tra il film di kung fu ed il wuxiapian: mentre gli eroi del primo imparano con difficoltà le arti marziali che serviranno loro ad ottenere vendetta (tutte le varianti del mito di Shaolin esibiscono un allenamento masochista volto al perfezionamento del corpo e della mente), la maggior parte dei cavalieri erranti sono già in possesso di incredibili poteri e spesso di ancor più fantasiose armi. Il potere più seducente, la misteriosa capacità di volare, sarà descritto come una sorta di segreta eredità nell'elegante, e molto autoreferenziale, The Red Lotus Society (Stan Lai, 1997), in cui un giornalista nella moderna e caotica Taipei ricerca una setta che si tramanda da generazioni questo misterioso potere.
In Come Drink Wtih Me l'eroe ubriaco si esercita separando le acque di una cascata. Questo rimanda ai pionieristici film cantonesi, che artigianalmente graffiavano le pellicole per far uscire dalle palme degli eroi letali raggi luminosi: sopravvive un gusto particolare per la contraffazione, il meraviglioso, la sospensione di incredulità nei fondali di cartoni dipinti delle rocce che nascondono i trampolini dai quali gli eroi si lanciano nel vuoto. È una cartapesta che ha il sapore dei Méliès dell'infanzia del cinema. La parte più spettacolare del film sono i combattimenti, seguiti da King Hu in modo ancora piuttosto classico, di forte impatti visivo: coreografie spettacolari orchestrano decine di avversari che combattono la sola eroina, seguita da un carrello lento, i rumori della battaglia esaltati dal silenzio della colonna sonora, dal cozzare delle lame tra loro e dal frusciare dei vestiti al vento.
L'anno seguente vede anche il profilarsi del secondo regista cardine del wuxiapian: Zhang Che. Questi, dopo una serie di film di modesto successo (The Magnificent Trio/Bian cheng san xia, 1966) ottiene il successo con The One Armed Swordsman (Dubei dao), che racconta la storia di un guerriero cui la figlia del suo maestro d'arti marziali amputa il braccio nel corso d'una futile scaramuccia. Miracolosamente tratto in salvo da una contadina, il guerriero (interpretato dall'astro nascente Wang Yu) riesce a superare il proprio handicap esercitandosi notte e giorno e imparando a guerreggiare con una sola spada, la spada spezzata che suo padre gli aveva lasciato come ricordo. Zhang declina i temi che saranno propri della sua opera e del wuxiapian in generale: l'eredità paterna, il dovere della vendetta e la necessità della ripartizione, il contrastato rapporto tra maestro e discepolo, la legge dell'onore ed il tema del guerriero obbligato ad agire suo malgrado, con una smorfia di dolore ineluttabile sul volto fanciullesco. Zhang sviluppa i semi di una misoginia sempre più pronunciata, introduce armi fantasiose che, impossibili da battere per un normale cavaliere, diventano invece fallibili di fronte al guerriero monco che sfrutta a suo favore la deformità. Si sviluppano i grandi temi delle scuole di arti marziali rivali, che guerreggiano per la supremazia, ovvero per il possesso di un manufatto magico; l'eroe è combattuto da scelte morali, ma il senso dell'onore lo spinge all'azione; la violenza è più visibile rispetto a King Hu, incominciando dall'evidente gusto splatter delle amputazioni e delle ferite aperte che vomitano sangue.
L'anno successivo vedrà apparire Golden Swallow (Jin yanzi, 1968), film che segna la separazione ideologica e artistica di due grandi maestri del wuxiapian. Zhang Che, infatti, riprende il personaggio della eroica Rondine d'oro da Come Drink With Me, ma le affianca due icone maschili, i suoi attori feticcio Wang Yu e Lo Lie. Come ha più volte ripetuto, lo scopo di Zhang è di ridare lustro alle stelle maschili del film di cappa e spada. Vuole raccontare non più dei maschi sottomessi alle loro controparti femminili, quanto piuttosto degli eroi virili, legati da giuramenti d'amicizia e da vincoli d'onore. Così nel film la ragazza perde gran parte delle sua capacità guerresche in favore dei suoi colleghi maschi (come Cheng Pei-pei perde il primo posto nei nomi sui cartelloni pubblicitari, provocando una crisi insanabile con il regista). Gli eroi combattono per conquistare la bella eroina. Uno è un guerriero pacifista che vorrebbe evitare di spargere del sangue, l'altro un feroce giustiziere che non esita di fronte a nulla per ottenere il primato: muore insanguinato dalla testa ai piedi, trattenuto da funi, trafitto da frecce e spade, e dicendo: "Sono ancora il migliore cavaliere!".
Da questo momento le carriere dei due più importanti registi di wuxiapian prendono due direzioni divergenti. King Hu si trasferisce a Taiwan dove continua a dirigere film con maniacale precisione, senso estetico e sfide sperimentali. Zhang Che resta invece al servizio degli studi Shaw per cui produrrà un numero impressionante di opere, con discontinui risultati. Riesce a creare una mitologia affondando le mani nella ricchissima tradizione cinese, saccheggiando il cinema mondiale attraverso la sua particolare visione violenta e sensuale. Gli eroi non si battono più per onore, ma per vendetta, pura e semplice, e talvolta pure gioiosa. Le donne scompaiono quasi totalmente dai suoi schermi, sostituite da maschi a torso nudo che agitano gigantesche spade; l'amicizia virile e l'onore all'interno delle società segrete sono i soli valori riconosciuti. La violenza è sempre più esplicita e gore, gli effetti speciali dozzinali ma di forte potenza espressiva. Il tema del tradimento va di pari passo con l'ossessione per le mutilazioni, la retribuzione dei torti è parallela alla furia masochista con cui l'eroe è, per prendere a prestito un pertinente termine delle corride spagnole, messo a morte. La figura ossessivamente ricorrente delle conclusioni dei film di Zhang Che è l'eroe trafitto come un moderno San Sebastiano.
Wang Yu e Ti Long sono la coppia feticcio degli anni sessanta. Poi, il primo diventerà regista a sua volta, e all'inizio degli anni settanta l'eroe di Zhang prende il volto di David Chiang. La nuova coppia regista-attore assurge al mito con The New One Armed Swordsman (Xin dubei dao, 1972). Nonostante il titolo rimandi al grande successo del film diretto cinque anni prima, qui resta solo la figura dello spadaccino monco: egli si mutila da solo perché sconfitto dal malvagio. Nel film esplode tutto il cinismo divertito di Zhang, che esalta (a suo dire, senza intenzione) l'attrazione omoerotica del suo personaggio mentre reagisce alle angherie della banda che tiene in scacco la regione solo quando questi gli uccidono l'amico del cuore (il prestante Ti Long). È celebre l'ultima scena, girata sul ponte degli Shaw Studios, dove l'eroe, da solo e con un solo braccio, massacra centinaia di nemici. Lo stile, a differenza di quello solenne e ieratico di King Hu, diviene sempre più sporco, onnivoro, veloce, iperespressivo. Macchina a spalla, montaggio veloce che seziona una scena d'azione in più momenti (in parte anche per ovviare alla mancanza di effetti speciali), utilizzo feroce dello zoom rapidissimo, che isola il combattente nella folla dei suoi nemici. Si moltiplicano i punti di vista insoliti, come le riprese dall'alto, oppure momenti in cui la camera vacilla e ruota su se stessa, anche lei presa dal turbine dell'azione.
Zhang continua a girare a ritmo industriale per tutti gli anni settanta, sperimentando anche nuovi generi, tra i quali il film di kung fu (il bellissimo Vengeance/Bao chou, 1970, il suo film più stilizzato che rende esplicito omaggio all'estetica del teatro tradizionale cinese), il musical, fino a sfruttare il filone dei film su Shaolin, che troverà però i suo massimo esponente in Liu Jialiang (The 36th Chamber of Shaolin/Shaolin sanshiliu fang, 1978). La sua produzione denuncia una schizofrenia iperattiva: è capace di dirigere drammi serissimi sul tradimento dell'amicizia virile (The Blood Brothers/Chi ma, 1973) tanto quanto deliri grotteschi di gioiosa violenza (Crippled Avengers/Can que, 1978).
Scopritore di talenti, Zhang non si limita ai soli attori che, sotto la sua regia, diventano star: il suo assistente alla regia più celebre è John Woo. Se Zhang rappresenta il lato macho ed ultraviolento dei wuxiapian (lato che Woo continuerà ad esplorare nei suoi film di gangster, che sono stati a più riprese descritti come film di cavalieri che brandiscono pistole anziché spade), il suo collega King Hu sviluppa invece una poetica intimista di grande bellezza formale. Dopo il grande successo di Come Drink With Me, King Hu lascia la Shaw per diventare un regista indipendente a Taiwan. Qui dirige Dragon Gate Inn (Longmen kezhang, 1967), con Xu Feng, che riscuote un successo fenomenale. Tutto ambientato in una taverna nel deserto cinese, il film introduce la figura dell'eunuco cattivo e rinverdisce il mito della donna guerriero. King Hu può giocare con gli elementi formali che gli stanno a cuore, appartenenti anche alla tradizione teatrale dell'opera di Pechino: le tavole, le sedie, le scale dell'albergo diventano basi e supporti per acrobatiche fughe ed inseguimenti, duelli di abilità tagliati da profonde ellissi. Tutti i personaggi si inseguono, nessuno è quel che sembra, l'ambiguità è causa di confusione morale, quando invece la chiarezza morale è precisamente lo scopo dell'eroe. Qui, come poi nei film successivi, King sviluppa un'estetica dell'assenza, del fuori campo, del montaggio rapidissimo che cela più che mostrare, creando per i suoi eroi un mondo intangibile, lontano dalle contrizioni della gravità, soffuso di misticismo. Queste sue qualità di sperimentatore audace gli saranno riconosciute a Cannes quando, nel 1975, il suo film A Touch of Zen (Xia nü, 1971) ottiene il premio per la tecnica, e contribuirà a fare conoscere in occidente la cinematografia cinese.
In opposizione a Zhang, che negli anni settanta è iperprolifico e diventa simbolo di tutti i pregi ma anche di tutte le piaghe della produzione industrializzata di film ad Hong Kong, King Hu centellina i film e acquisisce lo status di Autore, anche se non viene capito dal pubblico. Inevitabilmente, i suoi film diventano il canto del cigno di una tradizione in continua ricreazione. Raining in the Mountain (1979) è il suo ultimo capolavoro. Ambientato in un tempio e nella natura che lo circonda, il film racconta la lotta di potere all'interno del monastero, in parallelo alla ricerca incrociata da parte di due gruppi diversi di ladri di un mitico sutra dai poteri non ben definiti, ma certamente favolosi. I personaggi si inseguono in un'architettura favolosa, il montaggio pieno di ellissi e di falsi raccordi crea una topografia indecifrabile, che rispecchia i rapporti di forza tra i diversi gruppi. Il contrasto, netto, è con le riprese estatiche della natura, del bosco, della luce che filtra tra i rami e rende indistinte le montagne all'orizzonte, digradanti come se fossero strati d'inchiostro di diversa densità, come la pittura tradizionale insegna. Il valore del vuoto nella composizione dei quadri è imprescindibile, così come i buchi nella rappresentazione dell'azione: grazie al montaggio rapidissimo, i corpi appaiono e scompaiono da un lato all'altro del quadro, dei salti non è descritto l'atterraggio o la spinta, ma resta solo lo svolazzare colorato dei tessuti incorporei. Oppure, la telecamera disegna una rapida panoramica insieme al corpo in movimento, lasciando alla percezione solo la traccia dei colori, l'impressione di velocità: l'istante dell'atto magico è passato, ci è dato un frammento solo del suo splendore. Il limite dell'astrattezza è sfiorato, come quello dell'incomprensibilità delle azioni, in un percorso opposto dunque a quello di Zhang Che che invece preme sull'acceleratore per far sì che tutto sia visto, tutta la violenza, tutti i cadaveri, tutti i corpi.
Questi due autori, così diversi, hanno dato lustro all'epoca d'oro dei wuxiapian, e ne hanno vissuto parimenti il declino, spingendo all'estremo le loro ossessioni formali e tematiche. A loro sono dedicati, spesso consapevolmente, numerosi omaggi e riflessioni cinefile nei decenni successivi, i decenni che vedono l'arrivo di una nouvelle vague capeggiata da Tsui Hark: quest'ultimo parodia (all'interno di un'operazione di puro entertainment) tanto King Hu con Swordsman (Xiaoao jianghu, 1990), sviluppando la poetica delle levità, quanto Zhang Che con The Blade (Dao, 1995), spingendo l'acceleratore sulla violenza selvaggia ai limiti della leggibilità. Ma gli anni ottanta e novanta saranno anche gli anni del grande (definitivo?) ingresso dei ritmi techno al cinema, delle influenze dei videogiochi e degli effetti digitali, dei manga ed, infine, della "fuga di cervelli" verso i lidi americani (John Woo, Ang Lee).
Per terminare questo breve excursus sull'epoca d'oro del wuxiapian è necessario ricordare un regista molto prolifico, lontano dalle attenzioni critiche ma caro al pubblico, che con la sua produzione fantasiosa e barocca è stato un pilastro del cinema hongkonghese: Chu Yuan. Nato nel 1934, si dedica solo tardivamente al wuxiapian, all'inizio degli anni settanta, gli ultimi anni di gloria. Firma House of 72 Tenants (1972), uno dei più grossi successi dell'anno (anno in cui Bruce Lee lancia con furore il suo kung fu). Il genere è alle corde, ma Chu Yuan vi infonde nuova vita mescolando elementi western, magici, polizieschi. Così i meccanismi sono messi allo scoperto, senza pudore ma con inventività: le scene sessuali sono esplicite, soprattutto gli amori saffici sono esibiti senza più reticenze (ma con una certa goffaggine), così come sono esibiti gli scenari di cartapesta e gli intrecci inverosimili. The Killer Clans (Liu xing hu die jian, 1975) per esempio sembra voler parodiare tutti i film precedenti in una massa confusa, onirica e violenta: clan rivali, tradimenti incrociati, misteri da risolvere, sessualità esplicita, tutto si mescola in evidente attesa di nuovi modi di rappresentazione.
Nel film viene descritta una foresta di farfalle, vistosamente finte. Saranno forse le stesse che svolazzano letali ne The Butterfly Murders (Die bian, 1979), cannibale film d'esordio di Tsui Hark? Ci piacerebbe crederlo.
Corrado Neri
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