Pluripremiato film di Zhang Che, che si cimenta qui con il genere kung fu/film di gangster. David Chiang, il suo attore feticcio, incarna l'eroe che cerca vendetta. Mirabilmente stilizzato, violentemente coinvolgente, esplicitamente debitore dell'estetica teatrale tradizionale: uno sguardo critico su un film capitale.
VENGEANCE - BAOCHOU
HK/1970/103'
Prod: Run Run Shaw
Reg: Zhang Che
Int: David Chiang, Ti Lung, Wang Ping, Ou Yen-Ching, Ho Ping
Film capitale, forse il capolavoro assoluto del prolifico regista hongkonghese (a parere di chi scrive, non sempre condiviso dalla critica).
Tutti i suoi temi e le sue ossessioni formali trovano la loro plastica applicazione, interpretata da attori in stato di grazia. È evidente la filiazione da parte di differenti fonti: si incontrano stilemi di film di yakuza (registi come Suzuki Seijun, Fukasaku Kinji), noir americani, e film di kung fu. Vengenace mescola tutte queste influenze creando un oggetto singolare e serissimo, un'opera coerente che valse al suo regista, dalla produzione a dir poco discontinua (e vastissima, più di 100 film in trent'anni) numerosi premi in festival asiatici.
La storia è semplicissima, un puro pretesto per la continua invenzione di forme plastiche, espressioniste e di enorme impatto visivo. La didascalia che apre il film informa che la storia si situa in una città in Cina, nel 1925. Il giovane Kuan Yu-lou, attore dell'opera di Pechino, viene ucciso da un quadro locale per questioni di donne. Xiao Lu, anche lui attore d'opera, arriva dal sud per vendicare l'atroce morte del fratello (di nuovo la celebre coppia Ti Long/David Chiang, feticcio del regista). Le carneficine si susseguono fino alla vittoria dell'eroe, che però trova anche lui la morte, subito dopo aver ucciso l'ultimo dei responsabili della tragedia.
La pulsione di vedetta, tema cardine di buona parte della produzione hongkonghese, viene qui glorificata e resta unica molla narrativa, pura idea di violenza la cui validità non è mai messa in dubbio. Al contrario di altri registi come King Hu, celebre autore di wuxiapian la cui preoccupazione formale è di spingere le scene di combattimento verso l'astrazione calligrafica, ovvero Liu Chia-liang, vero sportivo il cui fine è di mostrare il combattimento con intento pedagogico e dimostrativo, Zhang Che è puramente affascinato dall'aspetto più sporco dell'azione: il sangue, la violenza, l'orrore della morte, i corpi sviscerati e mutilati (One Armed Swordsman/Dubi dao, 1967, Crippeled Avengers/Can Que, 1978), i coltelli infilzati nel corpo del combattente che continua a colpire, a colpire, a colpire... Il suo stile di conseguenza è impuro: grande utilizzo della camera a spalla, movimenti di mdp veloci, montaggio che non taglia mai i salti e le evoluzioni dei personaggi ma che invece insiste nel fissare le loro ferite, le loro espressioni di dolore e sofferenza.
A giusto titolo estremamente celebre, la prima scena del film è da antologia. La sequenza si svolge all'interno di un animato teatro. Dapprima il regista mostra lo spettacolo sul palco, gli attori che saltano e compiono le loro evoluzioni acrobatiche. Poi la drammatica scena dell'assassinio di Yu Lou. Il ragazzo entra in una sala da tè (luogo fondamentale di tutto il cinema Hong Kong, nucleo simbolico, affettivo ed estetico caro alla tradizione cinese). Viene attaccato da decine di sgherri del potente funzionario locale. Il combattimento si scatena furioso, il ragazzo combatte con più persone allo stesso tempo, salta sulle scale, vola giù da una balaustra, riesce a tenere a bada i nemici con tavole, sedie e sgabelli, evita coltelli volanti con rapidità fulminante. Tutte le sue evoluzioni, le piroette che compie per evitare le lame mortali che gli sono scagliate contro, sono montate parallele alle scene dello spettacolo teatrale. Ogni salto "vero", che il personaggio compie per salvarsi la vita, ha un suo corrispettivo simmetrico sulla scena (particolarmente efficaci sono le sequenze girate con telecamera sul soffitto che riprende dall'alto le evoluzioni circolari degli attori). I colori corrispondono. I movimenti sono in parallelo. La simmetria è di impressionante rigore. Questo trattamento è da un lato utile a dare, nella logica filmica di rara coerenza, realismo alle destrezze del protagonista: egli è capace di impressionanti equilibrismi perché li performa quotidianamente sul palco. Dall'altro lato (non in contraddizione ma in modo complementare) il regista inscrive esplicitamente l'approccio estetico al tema della violenza e più in generale del kung fu movie all'interno della tradizione teatrale cinese. L'estetica dei film di arti marziali ad Hong Kong viene direttamente dall'approccio fantastico, immaginativo e circense del teatro tradizionale. Così le più incredibile (poco verosimili) evoluzioni dei personaggi sono da intendere all'interno di una visione estetica che privilegia l'effetto al realismo, il simbolo alla mimesi, l'esagerazione espressiva al realismo psicologico.
La morte di Yu Lou segue la medesima logica. Dopo un'infinita serie di nemici abbattuti, il ragazzo viene colpito da un coltello al ventre, che si tinge dello stesso rosso cremisi di cui è cosparso durante le rappresentazioni. Continua a pugnare, senza sosta, le scene sono di forte impatto visivo. Solo contro masse di nemici vestiti tutti uguali, il suo destino è segnato ma il giovane non si dà per vinto, continua a respingere i colpi feroci. Cade a terra, viene accecato da due coltelli. Sangue dappertutto. Si contorce sul pavimento, nessuno osa avvicinarsi. Montaggio parallelo: la sofferenza "vera" del protagonista che agonizza è messa in simmetria con l'agonia recitata sul palco. Il colore del sangue è il medesimo. La simmetria delle scene è ritmata ulteriormente dalla colonna sonora: la musica concitata della rappresentazione teatrale. Infine, l'eroe muore. La scena alla taverna si chiude, e si passa alla scena teatrale, con il corpo immobile, la mdp dietro le quinte, fissa il sipario che si chiude, nascondendo il pubblico che simmetricamente a noi fissa in silenzio il corpo dell'eroe morto. Il sipario si chiude, rosso; cut; una porta a due battenti si apre, entra la ragazza oggetto del contendere.
Poi arriva l'eroe, in una lunghissima scena silenziosa dove i suoi passi, forti e fuori sincrono (brechtianamente epici) risuonano per le strade deserte.
Tutto il film è colmo di invenzioni stilistiche plasticamente entusiasmanti; gioca con le musiche, i colori, una mescolanza di generi che è una girandola di referenze armonicamente fuse. L'eroe (la dinoccolata star David Chiang) fa perfino James Bond, ad un certo punto, impugnando una pistola con gesto molto british (il braccio destro impugna l'arma, piegato a novanta gradi; il braccio sinistro sorregge l'avambraccio destro, la mano poggiata sul fianco ha l'indice ed il medio elegantemente sollevati). Ma Xiao Lu non si serve di pistole, predilige le armi bianche. Si sommano i combattimenti, Xiao Lu è sempre solo, veloce come un gatto e agilissimo, contro dozzine di nemici. In particolare, contrappunto e colonna parallela alle prime sequenze, è il magistrale ultimo combattimento. Xiao Lu arriva in completo bianco. Si batte; solo dopo lunghissimi minuti qualche macchia di sangue nemico gli colora la giacca. Salta sulle scale, come un diavolo uno dopo l'altro con sistematica eleganza abbatte i nemici, questa volta in silenzio, non c'è colonna sonora. Bordwell trova forti ricorrenze nel cinema Hong Kong di quello che chiama il one-by-one tracking shot, ovvero la camera che segue con un travelling in piano medio l'eroe che si scontra con i nemici, uno dopo l'altro. I nemici colpiti a morte si fermano immobili, congelati nelle loro posizioni, prima di cadere. Questo effetto, insieme alle masse di corpi che cadono all'indietro respinti dall'eroe danno la dimensione di un balletto, o quantomeno dell'attenzione formale che sfugge il realismo ma esprime i gesti e le loro conseguenze grazie ad ampi movimenti, che entrano in una tradizione formale facilmente intelligibile.
La morte dell'eroe è trattata in modo sintomatico: colpito da un proiettile, e poi da numerosi colpi di coltelli e spade, egli continua comunque a combattere, finché anche l'ultimo dei colpevoli della morte del fratello non viene punito. Il bianco del vestito è stato totalmente cancellato dal rosso del suo stesso sangue, un fiume inarrestabile che esce a fiotti, e che il regista fissa con implacabile sadismo. L'eroe cade, rantola, vaneggia. In silenzio. Immagini si susseguono, a flash: una scena dei due fratelli insieme, felici, giovani e vivi (la sola di tutto il film); il fratello morto in agonia, coperto di rosso, come ora l'eroe; il fratello che recita la morte sul palco; la donna amata, che Xiao Lu immagina venirgli incontro. Poi la mdp dall'alto, distante, riprende il suo corpo solitario all'esterno della casa, esanime.
Film misterioso, cupo e gotico, talmente esagerato da risultare, a tutti gli effetti, epico, Vengeance si prende sul serio, e la sua serietà costante, non intervallata come da costume da momenti burleschi, risulta convincente e di plastica bellezza. La sequenza praticamente ininterrotta di combattimenti è semmai punteggiata da scene dal sapore quasi onirico, che aggiungono mistero e creano pesante un cupo senso d'angoscia grave ed importante. È a tutti gli effetti, nella cinematografia hongkonghese e nello specifico in quella di Zhang Che, un film importante.
Note
Bordwell, David, King Hu and the glimpse, in Fu, Poshek and Desser, David, The Cinema of Hog Kong, Cambridge University Press, 2000, pp. 113-136.
Come nota Blouin, Patrice, "Chang Cheh, le sabre et la rose", in Cahiers du cinéma, 574, 12/02, pp.36-38.
Corrado Neri
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