L'ultimo film del regista taiwanese, acclamato dalla critica al Festival di Venezia 2003.
BU SAN(Goodbye, Dragon Inn) di Tsai Ming-liang
Forse Tsai Ming-liang ha sempre fatto film di fantasmi. Più o meno "reali", le figure di cui è composta la sua filmografia rappresentano comunque un'invisibilità rispetto al mondo e agli oggetti. Potremmo vedere Bu San come la teorizzazione ultima di tutto il cinema dell'autore malese (Tsai si è trasferito a Taiwan nel 1977). Gli spettri che siedono e si aggirano nel cinema Fu-Ho, alla periferia di Yung-Ho, sono gli scampoli di una realtà in avanzato stato di demolizione. Più che un'opera sulla bellezza passata del cinema, e sull'impossibilità di ritrovarla oggi, Bu San e la constatazione di un'inadattabilità dello spettatore contemporaneo. Attraverso la proiezione di Dragon Inn di King Hu, Tsai ci mostra che gli unici veramente interessati al film sono gli ormai anziani Shih Chun e Miao Tien, ovvero gli stessi protagonisti del wuxiapian del 1967, e un bambino. nipote di uno di loro: due poli. infanzia e vecchiaia, che sanno ancora guardare e sentire, l'una perché ha sulla propria pelle quella stessa vita, l'altra perché sommersa dalla stupefazione e lontano dalla disillusione (che, splendidamente, non infrange la commozione dei vecchi, come dimostra il pianto dell'ex-attore davanti a se stesso. e il breve incontro delle due star di una volta all'uscita del cinema). Gli altri, ragazzi, donne, marchettari, prostitute, sono soltanto presenze, appunto, che vagano nell'edificio. La metafora è chiara e molto diretta. Che il cinema (il mondo) come stabile e, nel contempo, come crogiolo di immagini, sia un percorso di corpi e sguardi che non portano a niente, perché nessuno dei personaggi conclude un rapporto, è la ovvia chiosa del complesso di film di Tsai, che non ha fatto altro che mettere in scena la trasparenza dell'uomo, sia nei confronti della materia, sia nei confronti dei suoi simili. Il Fu-Ho, che nella realtà, prima di venir definitivamente chiuso, era diventato luogo di ritrovo gay, in Bu San è specchio di un universo che si fonda ormai sull'inoperosità della persona, si tratti di vedere un film o di stabilire un contatto (carnale, sessuale, magari solo dialettico) con gli altri. Estremamente nichilista, senza vie di fuga, Tsai ci dice che il Fu-Ho è il mondo stesso che è già caduto a pezzi: è la periferia di una metropoli, l'ultima fermata di una linea metropolitana, il punto sulla mappa che nessuno, adesso. vuole più frequentare. Ma è anche, lo sappiamo, la fonte del virus dell'abbandono e della solitudine, che da lì si sta spargendo (se non si è già sparso) ovunque. A Tsai non interessa (o, meglio, interessa relativamente) l'elegia della meraviglia cinematografica di un Tempo che non c'è più; vuole invece farci vedere il buio della sala come implosione e annullamento di emozioni, casa del nulla e castello della polvere. In tutto questo, è molto simile a La chatte a deux têtes, in cui il regista/attore Jacques Nolot spende una giornata in un fatiscente cinemino porno, ritrovo per omosessuali, prostituti, travestiti e clienti in cerca di veloci prestazioni. L'atmosfera, nel bel film di Nolot, è quella di una realtà di fantasmi. stanca e meccanica; di un universo sfaldato, scentrato, completamente fuori fuoco e fuori sincrono. Bu San sembra rivisitare le stesse idee, gli stessi personaggi, anche, perché no?, lo stesso "theatre". Eppure l'opera di Tsai adotta anche uno sguardo da chiropratico dei luoghi che raramente si è visto a! cinema con tale precisione. Il Fu-Ho, in Bu san, è camminato in lungo e in largo, sotto e sopra, avanti e indietro, secondo una chirurgia architettonica che ha quasi dell'osceno. Tsai lascia che i suoi protagonisti, in particolare la bigliettaia-donna delle pulizie e il proiezionista. visitino angoli e anfratti dell'edificio che testimoniano con dolore del totale disequilibrio del cinema, e della ormai completa disfatta di un mondo. E fa quasi male vederle, vicinissimi dall'odorarle, tutte quelle zone, la soffitta che perde acqua, le scalette, il bugigattolo dei biglietti, i corridoi strettissimi, le stanze come magazzini polverosi e alla rinfusa. Il film di Tsai diventa così anche ricognizione di un dolore che riguarda la materia, le travi... Il fallimento, in Bu San, è dell'uomo, che non è più in grado di vivere e fare. E non gli resta che girovagare etereo e evanescente, perché è pure del cinema come costruzione di mattoni, che non ce la fa più a ripararsi dalle intemperie e dall'umidità. dalla muffa e dalla decadenza. Il romanticismo della sala come protezione dal mondo, e strumento per avvicinarsi a un altro mondo, magari migliore, non ha più senso di esistere. Non e un caso, allora, che l'unico sentimento si accenda con le lacrime dell'ex attore, il campo lungo del nonno che si avvia all'uscita del cinema mano nella mano col nipotino (grandissima soluzione di sceneggiatura, quando subito, in sala, col vecchio che si siede accanto al bambino, si poteva pensare a un approccio in odore di pedofilia) e il lancinante scambio di sguardi e battute tra i due anziani sull'ingresso: se c'è ancora gioia di ritrovarsi, è trasformata sul nascere in malinconia e tristezza, perché nessuno riconosce più nessuno. Ci sentiamo perfino in colpa di aver pensato male, in un primo tempo, nei riguardi del nonno e del nipotino: e quando li osserviamo andarsene, il cuore fa un sobbalzo, ci commuoviamo, pensiamo di essere cattivi, e di non meritare la bellezza di una sequenza così semplice, perché anche noi. coi nostro sguardo, come il pubblico nel film forse non siamo più capaci di concludere niente, nemmeno un sentimento elementare come la commozione. |
Pier Maria Bocchi
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