Commento al film Devdas (2002), diretto da Sanjay Līlā Bhansālī, la più recente trasposizione cinematografica della vicenda tratta dal romanzo omonimo dello scrittore bengalese Sharatchandra Chattopadhyay (1876-1938) e assurta a straordinaria popolarità con il Devdas del 1935 di P.C. Barua.
DURO A MORIRE: DEVDĀS 2002
Regia: Sanjay Līlā Bhansālī; produzione: Bharat Shāh; sceneggiatura e dialoghi: Sanjay Līlā Bhansālī, Prakāsh Kapariyā, da un romanzo di Sharatchandra Chattopādhyāy; fotografia: Vinod Pradhān; montaggio: Belā Sahgal; musica: Ismāil Darbār, Birjū Maharāj, Monty; testi delle canzoni: Nusrat Badr, Samīr; coreografia: Saroj Khān, Birjū Maharāj,Vaibhavī Marchant; scene e costumi: Nitin Desāī; interpreti: Aishvaryā Rāy (Pāro), Mādhurī Dīkshit (Chandramukhī), Shāh Rukh Khān (Devdās), Jackie Shroff (Chunnīlāl), Kiran Kher (Sumitrā, madre di Pāro). Smitā Jaykar (Kaushalyā, madre di Devdās), Ananya Khare (Kumud), Milind Gunājī (Kālībābū), Tīkū Talsāniyā (Dharmdās), Jāyā Bhattāchārya (Manormā), Ava Mukharjī (nonna di Devdās), Vijyendr Ghātge (Bhuvan, marito di Pāro), Dīnā Pāthak (suocera di Pāro), Kapil Sonī (Mahendr), Rādhikā Sinh (Yashomatī). Hindi/colore/240'. Non è facile vedere il Devdās di Sanjay Līlā Bhansālī come se fosse semplicemente uno dei successi recenti di Bollywood e non la più recente incarnazione di un "fantasma dell'Opera" che tormenta e ispira il cinema indiano dal 1935. Al di fuori del contesto della "devdasologia", la sua riuscita è ampiamente giustificata: una storia commovente e ben raccontata, attrici di talento e, nel caso delle due eroine, donne bellissime, un protagonista maschile di prima classe, magnifiche scenografie e pari costumi, musiche godibilissime e coreografie superbe, con una sequenza decisamente fuori dal gregge. Un film, insomma, con tutte le premesse per ripetere, anche in occidente, il successo di Lagān (La tassa, 2001, Āshutosh Govārikar). Torneremo su questi aspetti vincenti; in ogni caso, Devdās ha una storia antica, a cui non è possibile sottrarsi. Tutto comincia nel 1917, quando Sharatchandra Chattopādhyāy (o Chatterjee, 1876-1938), uno dei più famosi scrittori del Bengala e il più trasposto sul grande schermo, pubblica un fatidico romanzo: Devdās, che pare avesse scritto a 17 anni. La vicenda inizia con l'infanzia degli inseparabili Pāro e Devdās, al villaggio di Tālsonāpur, nella provincia di Calcutta. Sono vicini di casa ed entrambi brahmani, ma la famiglia di Devdās è molto più ricca di quella di Pāro. Devdās viene mandato a Calcutta a studiare e negli anni che seguono sembra allontanarsi da Pāro, che invece continua ad essere molto legata a lui. A tempo debito, la nonna di Pāro va a parlare con Harimatī, la madre di Devdās, per capire se un matrimonio tra i due giovani è possibile. Ma Harimatī ha progetti più ambiziosi per il figlio, sostenuta in questo dal marito. Offeso dal rifiuto, il padre di Pāro combina il matrimonio della figlia con Bhuvanmohan, un ricco vedovo, padre di tre figli. Pāro è certa che Devdās non permetterà quel matrimonio, ma il silenzio del giovane la spinge una notte a recarsi da lui di nascosto per conoscerne le intenzioni. Devdās è turbato da quell'atto ardito. Non sembra sicuro dei suoi sentimenti, almeno non tanto da agire contro il volere dei suoi. Il giorno dopo, quando i genitori manifestano la loro contrarietà a quelle nozze, Devdās se ne torna a Calcutta. Scrive una lettera a Pāro, dicendole di non amarla veramente e di non voler causare un dolore ai genitori, pregandola di dimenticare. Dopo averla spedita, si pente e torna al villaggio per riparare. Qui trova una Pāro offesa dal suo comportamento e, scambiando per alterigia quello che è solo amore ferito, la colpisce sulla fronte con un bastone. Mentre Pāro viene sposata, Devdās torna a Calcutta e da quel momento inizia la sua caduta. Tramite l'amico Chunnīlāl conosce una cortigiana, Chandramukhī, con la quale si comporta con offensiva arroganza, corrisposto invece dall'amore di lei. Sarà da lei che Devdās si rifugerà per dimenticare il suo dolore, con l'aiuto dell'alcol. Intanto Pāro si dimostra moglie ideale e madre affettuosa i figliastri, trasformando un triste destino in un'esperienza di consolazione. Questo non le fa dimenticare Devdās, soprattutto quando viene a conoscenza del suo stato. Mentre Chandramukhī abbandona la vita di cortigiana per amore di Devdās, questi affonda sempre di più nella sua cupa disperazione e nel bere. Quando sente arrivata l'ultima ora, decide di andare da Pāro, come le aveva promesso, ma arriva davanti al suo portone ormai in fin di vita. Il giorno dopo, Pāro viene a sapere chi è l'uomo deceduto durante la notte e corre disperata verso il portone per vederlo l'ultima volta, ma viene fermata prima, per intervento del marito che la crede impazzita. Pāro si accascia svenuta.
L'opera riscuote grande successo, incomparabile comunque a quanto sarebbe accaduto negli anni a venire, grazie al cinema, anche per il pubblico estremamente più numeroso che avrebbe raggiunto. Nel 1928 esce la prima versione cinematografica del romanzo, prodotta dall'Eastern Film Syndicate, con la regia di Naresh Chandra Mitra (1888-1968), noto attore e regista teatrale prima e cinematografico poi. L'opera è ben accolta, pur senza destare particolari clamori. Nel 1935, per i New Theatres, la principale casa di produzione bengalese (fondata nel 1931), esce il Devdās di Pramtesh Chandra Baruā (1903-51), in doppia versione, bengalese e hindi. La doppia versione in lingua regionale e in hindi, spesso con attori, autori e tecnici diversi, era pratica comune per la cinematografia bengalese (e non solo), dopo l'avvento del sonoro. In entrambi i casi, Pāro ha il volto di Jamunā, moglie del regista: Chandramukhī, invece, è Chandrabatī Devī nella versione bengalese e Rājkumārī in quella hindi. Anche il personaggio di Devdās ha due interpreti: il regista stesso nella versione bengalese; in quella hindi, Kundanlāl Sahgal (1904-46), attore e soprattutto cantante leggendario. Del resto, leggenda diventano il film di Baruā e la figura di Devdās: il giovane che si distrugge per l'amore negato, ribellandosi in forma prettamente individualistica alle consuetudini sociali e alle barriere economiche, diventa il mito moderno della generazione indiana contemporanea. Nasce la devdāsiyat o "devdasismo", che esprime un esasperato e melanconico romanticismo e si rigenera con i rifacimenti dell'opera: Devadāsu (1953, regia di Vedāntam Rāghavaiyā, in telugu), Devdās (1955, re. Bimal Rāy, in hindi), Devadāsu (1974, re. Vijayānirmalā, in telugu), Debdās (2002, re. Shakti Sāmant, in bengali), oltre a quello in discussione. Di questi remake, il più importante è quello di Bimal Rāy (1909-66), uno dei maggiori registi indiani degli anni 50 e direttore della fotografia nella versione hindi del Devdās di Baruā. Il melanconico eroe ha nel film di Bimal Rāy il volto di Dilīp Kumār, simbolo cinematografico di romanticismo e tragedia, mentre nei ruoli di Pāro e Chandramukhī recitano Suchitrā Sen, diva del cinema bengalese, e Vaijyantīmālā, attrice e ballerina di talento. Il film, un tributo alla memoria di P.C. Baruā e K.L. Sahgal, riprende fedelmente l'"originale", con l'aggiunta di una prima parte su Pāro e Devdās bambini, come nel romanzo. Fin qui i remake veri e propri. Ma la luce di Devdās (come il lume che Pāro, nel film di Sanjay Līlā Bhansālī, mantiene costantemente acceso negli anni di assenza dell'amato e oltre, quando viene nuovamente separata da lui) continua ad aleggiare sulle acque del cinema indiano. A raccogliere ed elaborare l'eredità devdasiana è una figura unica nel cinema hindi: Guru Datt (1925-64). Il suo Kāghaz ke phūl (Fiori di carta, 1969) racconta l'ascesa e caduta di un regista cinematografico durante la lavorazione di un rifacimento di Devdās. L'incarnazione più coinvolgente del mito si realizza nel suo precedente film, Pyāsā (L'assetato, 1957), tra i più grandi e meritati successi del cinema indiano. Qui Devdās non è presente, neanche come citazione, ma l'intera opera ne è impregnata; il poeta Vijay, rifiutato dalla società e dalla donna che ama, ottiene la fama quando è creduto morto: ora è lui a rifiutare quel mondo di falsità, per cercarne uno più vero, insieme con l'unica persona che aveva creduto in lui, la prostituta Gulāb. Perfino un personaggio antitetico a Devdās, l'angry young man incarnato da Amitābh Bachchan (la più grande star indiana di tutti i tempi e uno dei migliori attori di quegli schermi), ne porta le stimmate, sia per la sua marginalità ed eteronomia sia per la sua autodistruttività fatale. Con tutto ciò, Devdās non risulta personaggio di gran spessore, nei film come nel romanzo. Permaloso, prepotente e manesco da bambino, mantiene queste inclinazioni anche da adulto. Temperate dal galateo, esse riemergono in diverse circostanze: ad esempio, nel suo comportamento con Pāro alla vigilia del matrimonio, quando la colpisce sulla fronte per punire la sua "superbia"; e soprattutto nei confronti di Chandramukhī, verso la quale mantiene a lungo un atteggiamento insopportabilmente insultante e aggressivo. Eterno adolescente, Devdās è incapace di lottare per realizzare il suo sogno o di accettare la realtà dei suoi limiti. L'unica ribellione che è in grado di attivare è l'autodistruzione: atto inutile che serve solo a dargli l'illusione di essere il martire di crudeli convenzioni sociali e a punire la famiglia, responsabile del suo dolore. Ma è soprattutto un atto di egoismo nei confronti di Pāro, che abbandona al suo destino, da cui non ci sono molte vie di scampo, men che meno la facile via scelta da lui. Il nostro eroe non si limita a "scaricarla", la carica anche del suo dramma, costringendola a indebiti sensi di colpa: non essere morta di dolore, aver saputo intervenire costruttivamente sulla propria sorte, non poterlo pienamente aiutare, seppur lo tenti. Il grande Ritvik Ghatak (1925-1976) sostiene che Devdās è un personaggio detestabile e ripugnante, mentre il romanzo è in realtà la storia di Pāro, del suo coraggio e del suo senso di responsabilità. Pāro è, in un certo senso, il simbolo della donna indiana, adusa a secoli di oppressione familiare e sociale, con cui bisogna convivere per poter sopravvivere. Non si lascia travolgere dagli eventi e dalle scelte altrui e trasforma una sorte virtualmente cupa in un'esperienza, tutto sommato, positiva. Il mito dalle possenti radici è comunque quello di Devdās, martire dell'amore. Pāro non può elevarsi alle vette di sofferenza del suo dio in terra: come donna è più partecipe della natura animale che di sublimi slanci del pensier, almeno secondo la visione tradizionale hindu (il romanzo nasce in questo ambito). Iqbal Masud (Genesis of the Indian Popular Cinema The Early Period - part two) ha probabilmente ragione quando rileva che questa visione di Devdās nasce da una mentalità e da un mondo moderni, distanti da quelli del romanzo, mentre andrebbe contestualizzata nell'epoca in cui la vicenda è ambientata: altre forme di ribellione erano estranee all'orizzonte culturale e sociale del personaggio, così come era stato concepito da Sharatchandra. Proprio nel romanzo, tuttavia, Devdās si rivela per quel che è: un'ingombrante e lamentosa nullità.
Oggi, Devdās risulta un personaggio ancor più odioso e insopportabile, peraltro anche vigliacco; Pāro e Chandramukhī erano e restano indomite vittime elette dell'ideale hindu (ma anche indiano, in questo caso) della pativratā, la sposa totalmente consacrata al patidev, il marito/padrone dio, sia pure questi una sentina di vizi. Niente impedisce di rileggere la vicenda sotto questa luce. Lo ha fatto Shyām Benegal nel 1992, realizzando una delle pietre miliari nel cinema indiano dell'ultimo decennio: Sūraj kā sātvān ghorā (Il settimo cavallo del sole). Tratto da un omonimo romanzo hindi del 1952 di Dharmvīr Bhārtī (1926-96), Sūraj kā sātvān ghorā ripropone il mito devdasiano per distillare un'opera di sottile e affascinante smontaggio. Il film racconta cinque storie, ognuna delle quali ripete grossomodo quella di Devdās, con finali sempre diversi. Ognuno di questi rappresenta un passo di Pāro e del suo doppio, Chandramukhī, verso la liberazione da Devdās; anche a quest'ultimo, tuttavia, viene lasciata una via di riscatto.
Sembrava che al mito di Devdās fosse stata messa la parola fine. Invece, a dieci anni di distanza, sono usciti ben due Devdās: uno bengalese, diretto da Shakti Sāmant, e uno hindi, di maggior successo, di Sanjay Līlā Bhansālī. Non so molto dell'opera di Shakti Sāmant, non avendola ancora potuto vedere. Per quanto riguarda il Devdās di S.L. Bhansālī, si è già accennato ai punti di forza. Come rifacimento, invece, non tanto non dice niente di nuovo, quanto dice veramente troppo. Ciò che nei film di P.C. Baruā e Bimal Rāy veniva suggerito, accennato o taciuto (rendendoli intriganti e coinvolgenti, lasciando il passo all'immaginazione e alla riflessione dello spettatore) nel film di S.L. Bhansālī è tutto detto, rivelato, spiattellato, gridato. Gridato, soprattutto; soprattutto nelle prime insopportabili scene ove regnano vocianti e ululanti genitrici e una cognata malvagia che sembra non avere altro da fare che digrignare i denti, sogghignare malignamente e condire il tutto con risatine inverosimilmente stridule. Mentre questo bestiario femminile taglia e cuce il futuro della prole, i due innamorati amoreggiano tranquillamente, di giorno e di sera, in casa di lei o di lui, come mai avrebbe potuto accadere nel Bengala di fine 800. Questo vale anche per altre scene: quando Pāro convola agli odiati nodi, è Devdās ad accompagnare la sposa al luogo della cerimonia; appena sposata, lei corre in casa di lui per averne la benedizione; e ancora, per un tratto è proprio Devdās uno dei portatori del palanchino della sposa verso la nuova destinazione, mentre Pāro brandisce il lume dell'amore a rischiarare la via. Scene efficaci, perfino toccanti, ma del tutto incongrue in relazione al romanzo e soprattutto all'epoca della vicenda. Non mancano altre innovazioni: uno dei punti dolenti del Devdās letterario e dei film di P.C. Baruā e Bimal Rāy è la condizione di Pāro dopo il matrimonio; per Devdās, Pāro è il puro perfetto amore, con cui non si possono avere rapporti meno che casti (si veda Cossio 1999). Si suppone che, sposandosi, Pāro debba anche adempiere ai doveri coniugali. Nulla si sa al proposito e questa cortina di silenzio diventa elemento perturbante nella narrazione. Nel Devdās di S.L. Bhansālī, in cui l'attrazione erotica tra Pāro e Devdās si evidenzia come parte integrante del legame, anche la di lei condizione maritale diventa esplicita: il marito vedovo vive nel culto della moglie morta e non intende avere contatti carnali con Pāro (invenzione del regista, come molte altre). Anche in questo caso, il non detto che intriga e coinvolge si appiattisce improvvisamente nella "rivelazione". Altra innovazione: Devdās non va a studiare a Calcutta, come nel romanzo e nei film precedenti, ma a Londra. Non ci sarebbe niente di male, se non si dovesse assistere a indebiti code switching, quasi un topos del film popolare e non; quando un personaggio enuncia una verità superiore o una frase risolutiva è di prammatica passare all'inglese, che darebbe - pare evincersi - significato universale a ciò che la lingua indigena non ha autorità di avvalorare: anche il colonialismo culturale sembra duro a morire. Si potrebbe continuare, ma è inutile rilevare delle minuzie, significative solo in rapporto ai film precedenti e al romanzo, ma non nei riguardi della narrazione filmica di S.L. Bhansālī. Vale la pena di sottolineare, invece, come quest'opera sia soprattutto un tributo a Mughal-e-'Āzam (Il Grande Mughal, 1960, regia di K. Asif) e, in primo luogo, al kotha movie o "cinema del kothā ", del bordello o meglio della casa di piacere, il vero "genere" originale del cinema indiano, soprattutto hindi. Questo filone ha generato film memorabili, come Pākīzā (Cuore puro, 1970), diretto da Kamāl Amrohī, Umrāo Jān (1981), di Muzaffar 'Alī e Utsav (Festa, 1984), di Girīsh Karnād (si veda Cossio 1999). In effetti, mentre il kothā di Chandramukhī nel romanzo, nei film di P.C. Baruā e Bimal Rāy e negli altri rifacimenti è abbastanza modesto e anche un po' squallido (come potevano esserlo all'epoca del romanzo, quando la grande stagione delle cortigiane, soprattutto di quelle di Lakhnau e Hyderabad, aveva imboccato una china discendente), nel film di S.L. Bhansālī, ritroviamo un kothā che offre gli splendori di Pākīzā o, meglio, delle vere e proprie citazioni. Quando la carrozza di Devdās entra nel quartiere dei kothā, dalle grandi finestre illuminate dei palazzi vediamo le cortigiane che danzano per intrattenere i clienti: è la riproposizione del bāzār-e-husn, il "mercato della bellezza" di Pākīzā, la scena emblematica della rappresentazione filmica del kothā. Quando Kālibābū, ammiratore di Chandramukhī e marito della figliastra di Pāro (un'altra delle novità del film), getta ai piedi della cortigiana le cavigliere d'oro per la danza, la scena riprende il lancio della borsa colma di monete d'oro che un ammiratore getta ai piedi di Sāhabjān, la protagonista di Pākīzā. Entrambi i doni sono disprezzati dalle cortigiane, il cui cuore è ormai ineluttabilmente consacrato. A questo punto è d'uopo sottolineare la qualità connessa di canto, musica e danza di Kāhe chhero mohe (Perché mi tormenti?), che Chandramukhī esegue per Devdās, brano composto e coreografato da Birjū Mahrāj, uno dei massimi danzatori di kathak (forma di danza classica, tipica del nord dell'India). Un'altra citazione, questa volta da Mughal-e-'Āzam, si coglie nel primo incontro tra Chandramukhī e Devdās; la cortigiana vede Devdās riflesso nello specchio e si volge verso di lui, mentre i capelli bagnati urtano lo specchio che si scompagina in tanti frammenti, ognuno dei quali riflette lui o lei: è la famosissima scena della danza di Anārkalī, eroina della vicenda, riflessa in tutti gli specchi della sala del palazzo. In virtù di simili belle citazioni, il Devdās di S.L. Bhansālī non costituisce l'ennesimo rifacimento di un mito ossidato, per volgersi a una magnifica tradizione: non Bollywood, non il commercial-popolare versus il cinema "impegnato", semplicemente una grande stagione del cinema indiano. Bibliografia |
Cecilia Cossio