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Zhantai - Platform

Cina

Zhantai ha le ambizioni di un affresco storico (dieci anni di vita cinese dal '79 all'89), ma si racconta in miniature abitate da "piccoli" uomini e "piccole" cronache.

ZHANTAI
Platform di Jia Zhangke

 

Ha le ambizioni di un affresco storico (dieci anni di vita cinese dal '79 all'89), ma si racconta in miniature abitate da "piccoli" uomini e "piccole" cronache. Ha la lentezza liturgica e il ritmo ipnotico di una cerimonia laica - il rito della memoria (minimalista per scelta estetica) - ma in ogni scena cerca i tempi del quotidiano, dei dialoghi semplici, dei gesti credibili. Ha l'arcaica fissità del piano frontale, campo medio o totale che inquadra i personaggi nelle coordinate di un mondo rigido, ma la scena è continuamente attraversata da eventi e movimenti, da corpi che disegnano traiettorie personali o cercano di adattarsi alle sue dimensioni.

Zhantai/Platform (la pensilina sotto cui si attende un treno di passaggio - la felicita, la liberta, la "verita" - che forse non arrivera mai) e un rigoroso affascinante film-fiume di 133', un viaggio nel tempo, senza stacchi nè didascalie di accompagnamento, lungo l'adolescenza di un ragazzo inquieto e occhialuto e dei suoi amici artisti (lungo l'adolescenza di una nazione che apre all'economia di mercato e si inventa una nuova rivoluzione "culturale"). Storia di una giovane compagnia teatrale, dai fasti obbligati del musical di Partito, finanziato dallo stato padrone, alle miserie della privatizzazione e di un'improbabile svolta verso lo show business (con i mezzi poverissimi e lo spirito vagabondo del teatro di strada che fu). Dalla messinscena di una piece maoista pro-contadini, ai balletti pruriginosi in pantacollant e alle grottesche performance tra rock e breakdance. Amicizie, amori, fughe, ripensamenti, ribellioni, tanta incomunicabilità e un disagio esistenziale che riflette una vertigine collettiva. Prima c'era solo l'universo collettivizzato del pensiero unico, l'isola Cina che finge di poter fare da sola. Poi arriva l'apertura all'Est e all'Ovest, i pantaloni a zampa d'elefante, l'elettrificazione, la musica di Hong Kong, perfino la televisione col suo carico di telenovele giapponesi. Zhantai e una hit-rock di quegli anni, che parla di speranze e di attese, la "madeleine" di un viaggio a ritroso autobiografico che parte dallo sconosciuto paese d'origine del regista, profonda provincia fatta di niente, e dopo un giro in tondo attraverso la Cina, e attraverso sogni e speranze frustrate, alla fine torna al punto di partenza, trasformato dalla modernizzazione in un enorme cantiere, sotto il segno del disincanto (e questo il benessere? e questa la liberta che cercavamo? "nuovo" significa sempre "migliore"? e poi, è veramente cambiato qualcosa?). Jia Zhangke, giovane animatore del cinema indipendente cinese, sul libro nero delle autorità di casa dopo Xiao Wu (il suo primo film, datato '97, che denunciava le contraddizioni del nuovo corso economico), rilegge la sua storia personale, emozioni scoperte illusioni, come fosse la cronaca metaforica di tutta una generazione che all'improvviso ha scoperto di avere il diritto di pensare con la propria testa, ha imparato l'amore nelle canzoni di Teresa Teng (un tempo vietate), ha cominciato a covare pensieri ribelli che dieci anni dopo verranno stroncati nel sangue in piazza Tiananmen. Fissa l'occhio della macchina da presa sull'infinitamente piccolo di un microcosmo adolescenziale e insieme allude al caotico macrocosmo cinese, troppo grande per essere riassunto in uno schermo: d'altra parte, dice Jia, "in Cina abbiamo la tendenza a mettere in rapporto il destino della nazione con la fortuna individuale, la situazione politica con quella umana". Ma il fascino di Platform, più ancora che nel tentativo storico-esistenziale, sta nella semplice abbagliante bellezza delle sue immagini, nella sensibilità architettonica dello sguardo del regista cinese, nella facilità con cui ogni squarcio di vita vissuta (o rimandata) si anima in bozzetti meticolosamente compresi e illustrati nello spazio del cinema. Non ci sono primi piani. La macchina da presa non cerca di scavare nelle emozioni dei suoi personaggi/corpi, passando attraverso la scorciatoia degli occhi o del volto. Rimane distante quanto basta per simulare lo sguardo (il movimento immobile) di una memoria che ripensa a se stessa, oggettivamente, come cercando finalmente una sua verità. E noi rimaniamo quasi ipnotizzati di fronte a questi piccoli mondi, questi paesaggi umani, mentre la regia costruisce il suo puzzle con bella maestria, scivolando da un piano ad un altro, indugiando su quei luoghi visivi che concentrano la tensione emotiva, oppure giocando a confondere i tempi e i luoghi che scorrono uno dentro l'altro senza preavviso (il fiume della vita indifferente alle rivoluzioni?). Oltretutto, per quasi un'ora la mdp se ne sta completamente immobi-le, fissa nel punto "panoramico" scelto per l'occasione. E quando comincia a muoversi, lo fa lentamente e debolmente, quasi vergognandosi, quasi solamente per ampliare il campo visivo in cui inscrivere le sue piccole storie. Ciò che non convince del tutto - a parte il finale un po'appiccicato, in cui la metafora per la prima volta si dichiara tale, è la scelta di diluire la messinscena fino a renderla, per larghi tratti, quasi impalpabile, un vuoto indifferente sin troppo insistito, in cui atmosfere identiche vengono riattraversate con fare ridondante.

Fabrizio Tassi
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